BIENNALE ARTE 2024 | I Padiglioni in città: il mondo sarà verde - Il Giornale dell'Arte

Julia Bornefeld (Camerun - Palazzo Donà delle Rose)

Foto: Camilla Bertoni

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Julia Bornefeld (Camerun - Palazzo Donà delle Rose)

Foto: Camilla Bertoni

BIENNALE ARTE 2024 | I Padiglioni in città: il mondo sarà verde

Le Nazioni cercano le loro radici e rifondano la loro identità in una storia fatta di invasioni, liberazioni, mescolanze, violenze. La donna è al centro di un arcipelago di opere e idee in cui la memoria (spesso dolorosa) si mescola a un futuro plurale e sostenibile  

Non esistono più i tradizionali confini tra i Padiglioni nazionali alla Biennale di Venezia, probabilmente l’ultima tra le centinaia del mondo ancora organizzata secondo il principio delle rappresentanze statali. Nell’edizione appena inaugurata, seguendo l’invito del curatore Adriano Pedrosa, ogni Nazione ha cercato le sue radici nella complessità che la storia le ha restituito, una storia il più delle volte fatta di soprusi, invasioni, liberazioni, mescolanze, recuperi, ritorni, alla ricerca della propria articolata e spesso controversa identità, dove i «confini» vengono fluidificati da stratificazioni, pacifiche o meno che siano state o siano tutt’ora. Valga per tutti la scelta della Polonia (Giardini) di presentare artisti ucraini o anche quanto scrive Hana Janecková, curatrice ai Giardini del Padiglione della Repubblica Ceca e della Slovacchia, presentando l’installazione di Eva Kotátková «Il cuore di una giraffa in cattività è dodici chili più leggero»: «Istituisce un senso di appartenenza creato attraverso le emozioni, il tatto e le relazioni ecologiche invece che attraverso nozioni fisse di identità, tassonomia, frontiere e Nazione».

Ottantasette le partecipazioni nazionali a questa edizione, 36 delle quali sono sparse in varie sedi di Venezia, con alcune assenze rispetto alla scorsa edizione (per esempio il Nepal) e i quattro esordi di Etiopia, Tanzania, Timor Leste, oltre al Benin all’Arsenale: una costellazione estesa che favorisce un’esplorazione della città e un tuffo nella storia su cui quasi tutte le Nazioni portano riflessioni inedite e spesso dolorose. Scegliendo un percorso a zig zag, la nostra lunga passeggiata inizia nel sestiere di Cannaregio (al civico 5063, angolo Calle Larga dei Boteri e Calle Ruzzini) per visitare il Padiglione della Croazia nella luminosa cornice di Fàbrica 33, uno tra i più coerenti e convincenti: Vlatka Horvat in «By the Means at Hand» non segue il tema della nazionalità, a conferma delle premesse, ma della diaspora. L’artista propone la sua visione di straniera su Venezia con una serie di foto e collage che cambieranno per tutta la durata dell’esposizione secondo un flusso continuo, che coinvolge anche un ampio spazio destinato all’esposizione dei lavori di artisti del mondo che vivono come stranieri e che faranno giungere le loro opere a Venezia, mai per posta ma con «i mezzi a disposizione», che è quanto indica appunto il titolo, approfittando di staffette di una rete informale di amici, conoscenti o sconosciuti già in viaggio. Solidarietà, amicizia, fiducia, emissioni zero sono alcuni dei temi che vengono coinvolti in questa installazione. 

Vlatka Horvat (Croazia - Fàbrica 33)

Eddie Martinez (San Marino - Fucina del futuro). Cortesia di FR Istituto d’Arte Contemporanea

La Tanzania cancellata e rinata

Una sensazione di caos domina il Padiglione del Camerun ospitato nel Palazzo Donà dalle Rose (Fondamenta Nove, Cannaregio 5038) dove nel giardino campeggia la grande installazione visiva e sonora «Metamorphic Stream» della tedesca Julia Bornefeld. Non molto distante vale una tappa il Padiglione della Tanzania, uno Stato molto giovane, senza musei e dalla storia cancellata fino agli anni ’60, ospitato nell’affascinante Fabbrica del Vedere di Carlo Montanaro (Cannaregio 3857 in Calle del Forno). Con un budget più di duecento volte inferiore di quello italiano (parte del ricavato sarà a favore dei piccoli coltivatori di te), presenta le opere di tre artisti dalla Tanzania (belle le xilografie di Lutengano Mwakisopile) e la bolognese Naby, a cura di Enrico Bittoto, un percorso nella storia e nei temi caldi accompagnati dalla musica appositamente composta da Peter Gabriel su musiche tradizionali.  

Sulla strada verso l’Arsenale s’incontra il Montenegro, ospitato nel complesso dell’Ospedaletto (Castello 6691), con un progetto di Darja Bajagic che lavora sulla storia dell’isola montenegrina di Mamula con la sua fortezza costruita nel 1853 dal generale austro-ungarico Lazar Mamula, trasformata in campo di concentramento da Mussolini, oggi hotel di lusso. La Bosnia Erzegovina, poco lontano (in Palazzo Zorzi, sede dell’Unesco, Castello 4930, non distante dalla Fondazione Querini Stampalia) punta su Stjepan Skoko e la sua «The Measure of the Sea». Per la Repubblica di San Marino (alla Fucina del Futuro in Calle San Lorenzo, Castello 5063B) il team di FR Istituto d’Arte Contemporanea ha scelto un artista americano: Eddie Martinez, pittore e scultore che annovera De Kooning tra i suoi maestri ideali, con la sua personale «Nomander». Nell’ex officina di un fabbro, sul grande tavolo all’inizio del percorso, si dispiega il suo mondo, una sorta di archivio concettuale composto da una grande quantità di disegni, fatti perlopiù in viaggio, da cui originano i motivi ricorrenti nei dipinti esposti accanto alle sculture realizzate con materiali di riciclo. La Lituania è ospitata nella Chiesa di Sant’Antonin (Castello 3477) dove «Inflammation» costruisce un dialogo tra la grande installazione di Pakui Hardware e le sculture in alluminio e vetro fuso di Marija Terese˙ Rožanskaite˙ (1933-2007), sopravvissuta alla deportazione in Siberia: una «metafora del danno sistemico inflitto all’umanità e al pianeta». 

Il muro del pianto e dei baci strappati

Appena girato l’angolo ci si imbatte nella Costa d’Avorio (Dorsoduro 947) e «The Blu Note»: con il colore blu tiene insieme le opere dei diversi artisti, un «particolare colore che mancava al sistema occidentale. È ciò che ci permette di cantare la solitudine e la fatica della vita, ma anche la speranza. È la nota che ha permesso agli africani di sopravvivere e vivere». Profondo e complesso è il Padiglione della Nigeria (tra campo San Barnaba e Campo Santa Margherita in Palazzo Canal, Rio Terà Canal, Dorsoduro 3121): le opere di otto artisti costruiscono una ideale rievocazione a sessant’anni di distanza dello Mbari Club, punto di incontro culturale tra scrittori, artisti e musicisti, per immaginare una nuova Nigeria, riflettendo sul passato. 

Segnaliamo ancora la presenza per la prima volta della Repubblica Democratica di Timor Leste (San Polo 1100) con l’avvolgente installazione di Maria Madeira («Kiss and Don’t Tell»), costellata dalle impronte di labbra tinte di rossetto: durante la sua performance, ha rievocato tra le lacrime i baci alle pareti che le donne erano obbligate a dare in ginocchio, mentre subivano violenza, durante l’occupazione indonesiana. Infine, è necessario prenotare (https://www.coopculture.it/it/eventi/evento/con-i-miei-occhi-padiglione-vaticano-alla-biennale-arte-di-venezia/) per visitare, accompagnati dalle detenute, «Tutto con i miei occhi» nel Padiglione della Santa Sede alla Giudecca (sant’Eufemia 712), dedicato al tema dei diritti umani e ospitato nella casa di reclusione femminile di Venezia dove il papa, per la prima volta nella storia, si è recato il 28 aprile. Le opere sono di Maurizio Cattelan, l’unica visibile dall’esterno, Bintou Dembélé, Simone Fattal, Claire Fontaine, Sonia Gomes, Corita Kent, Marco Perego & Zoe Saldana e Claire Tabouret.

Camilla Bertoni, 20 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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