Il mio regno per un film. Megalopolis: l’opera della vita che è costata a Coppola i guadagni di una vita - HuffPost Italia

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Il mio regno per un film. Megalopolis: l’opera della vita che è costata a Coppola i guadagni di una vita

Quando si arriva in Napa Valley gli occhi sono ancora pieni del Golden Gate Bridge che si è attraversato poco più di un’oretta prima. Tanto dista il serbatoio di chardonnay e sauvignon d’America da San Francisco, meta di curiosi e appassionati da tutto il mondo. Il panorama è straniante. Un centinaio di chilometri di pianura bruciata dal sole lasciano il posto a colline altrettanto arse e brulle. I vigneti sono macchie verdissime e gigantesche, adagiate come trapunte sul giallo dei declivi circostanti, che succhiano tutta l’acqua possibile da una terra per lo più arida, appena un paio di centinaia di chilometri a nord dal punto in cui è stata registrata la temperatura più alta sulla terra, con il termometro a schizzare verso l’improbabile soglia dei 57 gradi centigradi.

Si sale e si scende un declivio, e si arriva nei boschi secchi della vicina Alexander Valley. È qui che nell’estate del 1983 Francis Ford Coppola sorseggiava un bicchiere di cabernet sauvignon, il suo cabernet sauvignon. E continuava a bere, e bere ancora, mantenendo un’inaspettata lucidità mentre conversava amabilmente con David Thomson, che nel giro di qualche lustro si sarebbe guadagnato la fama di più grande critico cinematografico degli States (un paio d’anni fa Adelphi ha pubblicato il suo strepitoso “La formula perfetta – Una storia di Hollywood”), che doveva confezionare un articolo per il numero di settembre-ottobre di Film Comment, bimestrale della Film Society del Lincoln Center.

Beveva, Coppola, muoveva le mani, e raccontava a Thomson di quello che poteva apparire come una fiaba (Vogue), un delirio (Wired), un film-mondo (il Fatto), un’apocalisse (il Giornale). “Ho trascorso due mesi ad accumulare quattrocento pagine di appunti”, diceva estasiato Coppola al suo interlocutore, lo aveva fatto nelle pause della travagliatissima gestazione di quel che poteva essere uno spettacolare fiasco e che si rivelò invece il suo capolavoro.

Apocalypse Now era uscito cinque anni prima, dopo due anni di riprese, tra i capricci di Marlon Brando che pretendeva un milione di dollari a settimana per girare nel maledetto caldo delle Filippine, un infarto di Martin Sheen, tifoni che distruggevano il set, crisi da droghe, esaurimenti nervosi. “Ho pensato al suicidio”, le raggelanti parole con le quali il regista anni dopo descrisse quel periodo. Gli valse una Palma d’oro a Cannes e “appena” due Oscar, gli valse un posto nella storia, ma lui già pensava al suo prossimo lavoro. Che avrebbe dovuto aspettare per quasi quarant’anni.

Quattrocento pagine di appunti, raccontava a Thomson, su una grande allegoria dell’antica Roma, su un periodo in cui "tutti erano immersi nella morte, tutti i valori si erano trasformati nella mera ricerca del denaro". Un film in cui voleva affrontare le domande “su chi siamo, dove siamo”, su “cosa sia la specie umana, a che punto è arrivata”, se sia possibile “l’utopia di una società perfetta”.

“Senti qua”, ipnotizzava il critico con il suo eloquio, “senti qua: il film avrà una struttura elaborata, romanzesca, una struttura che va avanti e indietro nel tempo durante una notte, fino a un momento selvaggio che alla fine getterà le basi per una nuova utopia in quella folle allucinazione continua”.

Qualunque cosa intendesse esattamente dire, Coppola stava parlando di Megalopolis. Il film che è stato presentato a Cannes, e che già immaginava trentuno anni fa, ma al quale in realtà aveva iniziato a pensare nel 1969, anno in cui insieme a George Lucas aveva fondato la Zoetrope, la sua casa di produzione. Quarantacinque anni a cullare l’idea del film della vita, avendone fatti almeno due da poter essere definiti così (Il Padrino dopo Apocalypse Now) ma che forse Coppola non ha mai sentito tali, chissà. Per i contrasti con gli attori, per lo sfiancante braccio di ferro con la Paramount, il colosso di Hollywood che lo ricoprì di soldi e di gloria, ma che provò a condizionarne l’estro creativo al punto tale che proprio qualche tempo prima Coppola decise di dire basta.

Si affidò alla Columbia per uno sghembo musical dal budget stellare. “Un sogno lungo un giorno” costò 26 milioni di dollari, ne incassò appena 630 mila, un flop pirotecnico che lo costrinse a vendere gli studios della Zoetrope per poter fare fronte ai debiti, appena un anno prima di quella chiacchierata con Thomson. Il genio della Nuova Hollywood degli anni ‘70 da allora iniziò un’affannosa rincorsa per non finire in bancarotta.

Megalopolis rimaneva lì, in un angolo della mente e in quattrocento pagine di appunti chiusi in un cassetto. L’acqua era arrivata alla gola al punto che alla fine degli anni ‘80 accettò controvoglia un nuovo assalto della Paramount, che lo voleva in pista per la terza parte del Padrino. Il classico sequel-patacca (dopo la meravigliosa Parte seconda), ma irresistibile specchietto per le allodole al botteghino. Incassò 137 milioni di dollari, riportandolo in pista.

Ma per alcuni il momento d’oro era ormai irrimediabilmente passato, nonostante i tre Oscar per Dracula di Bram Stoker e nonostante L’uomo della pioggia, film generazionale di metà anni Novanta. Da allora, da trent’anni a questa parte, Coppola per il grande pubblico è rimasto un’icona dei tempi che furono, un grande vecchio mai riuscito a stare al passo coi i tempi, surclassato dagli Scorsese e dai De Palma, eternamente pronti a innovare nel loro eterno essere sé stessi. La nicchia cinefila quasi inorridì per i tentativi di rimanere a galla, dimostrare che era ancora vivo. Stroncò uno dietro l’altro Un’altra giovinezza, Segreti di famiglia e Twixt, tutti a bassissimo budget, tutti auto-prodotti per quello che con la sua grande barba e la pancia da sempre prominente appariva sempre più come un Charles Forster Kane asserragliato con i suoi tesori nella sua Xanadu, lontano dal mondo, attorniato da cimeli che raccontavano di un passato che non c’era più e non sarebbe mai più tornato.

Il castello di Coppola è la sua villa immersa nei vigneti, dove per quarantacinque anni ha tenuto quelle quattrocento pagine d’appunti, il film della vita, il film di una vita. Non ha mai smesso di pensarci, non ha mai smesso di lavorarci. Ma dopo fallimenti così roboanti gli Studios lo avevano ormai etichettato come un bollito o giù di lì. Per Megalopolis ha venduto dunque tutto o quasi, le sue vigne, la sua terra. Centoventi milioni di dollari, interamente suoi, per non farsi consumare all’interno, per non avere rimpianti, per mettere in scena il suo gran finale, “il mio ultimo film”, come l’ha definito alla veneranda età di 85 anni.

Justin Chang, critico del New Yorker, ha così raccontato del suo incontro con la pellicola: “Non è la prima volta che una nave Coppola rischia dalle acque libere dell’arte di infrangersi contro le inflessibili rocce del marketing. Ma ciò che è inevitabilmente commovente in Megalopoli [...] è il modo in cui si è evoluto in un’allegoria della sua stessa genesi. Coppola ha difeso il bello e l’impraticabile [...] come forze che sostengono l’arte del cinema stesso. Un film che potrebbe essere la fine di una carriera lunga e tormentata, ma il semplice fatto che esista, nella sua singolarità mozzafiato e talvolta esasperante, sembra un segno di speranza”.

Si dice che nel 90% dei film la cosa meglio fatta, la più interessante, sia il suo trailer. Lo potete trovare quassù, e probabilmente il vecchio adagio si attaglierà perfettamente all’idea che vi farete, all’idea che ci faremo, di Megalopolis. Ma la vera storia della città ideale di Coppola non è nella sceneggiatura, nel cast stellare, nell’ondivaga realizzazione, nelle due ore e passa seduti dentro un cinema.

La vera storia di Megalopolis è nelle onnipotenti ascese e nelle vertiginose cadute di un’incredibile vita passata ad inseguire una chimera. "Le persone non hanno bisogno di sogni: hanno bisogno di insegnanti, servizi igienici e lavoro", dice a un certo punto l’antagonista del film all’eroe. Un assunto contro il quale Coppola ha combattuto un’intera vita, nel suo castello incantato, contro tutto e contro tutti, inseguendo il suo capolavoro, il suo delirio kitsch, immolando per la sua realizzazione insegnanti, servizi igienici e lavoro. Sorseggiando un bicchiere di cabernet sauvignon, rincorrendo spasmodicamente il sogno di cui aveva bisogno.

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