Estra - Anni venti - Recensioni - SENTIREASCOLTARE

Recensioni

7.3

Mi ricordo ancora perfettamente la scena. Cucina di casa dei miei, poco prima di cena. Mia madre sta cominciando ad apparecchiare per la cena, mio padre sta per tornare dal lavoro. La nonna è assorbita dai programmi televisivi, forse Febbre d’amore, una telenovela. Io compongo il numero, mi sudano le mani, aspetto. La risposta  arriva veloce, solo qualche squillo: “Ciao, volevo chiedervi di mandarmi la cassetta…”. “Ma dove l’hai trovato questo numero?… Ah, è già uscito l’annuncio… Ok, te lo spedisco a stretto giro. Ciao”. Nel frattempo mio padre è rientrato e lo vedo mentre scrolla la pioggia dall’ombrello e si toglie il soprabito. Nonna ha cambiato canale per seguire il TG. Un “vai a lavarti le mani, ché è pronto” e ci ritroviamo tutti a tavola. Era il 1993, io avevo 12 anni e avevo appena chiesto agli Estra di mandarmi la loro cassetta L’assedio n.2 (che arriverà corredato dal libro di testi e poesie di Giulio Estremo Casale Libro di figure senza figure).

Così è iniziato il mio personale rapporto con la band di Treviso, io trevigiano di provincia interessato alla poesia e alla musica in una giungla di fabbriche a conduzione familiare mentre entravo nell’adolescenza. Un rapporto che è cambiato nel tempo, con un interesse che è andato a corrente alternata, ma che è passato per decine di concerti in giro per il nordest, periodi in cui mi dovevo prendere un pausa, ma senza che lo stupore per L’uomo coi tagli o per Cattolico, dei dei brani più belli de L’assedio n.2 poi finiti – non a caso – anche nel primo disco vero e proprio, La metamorfosi (1996), svanisse completamente. Nel frattempo me ne sono andato dal trevigiano e per citare Manuel Agnelli “ho avuto una vita, altrove”. Ma con le canzoni degli Estra che tornavano ciclicamente a fare da bastone emozionale su cui appoggiarmi. C’era che hanno parlato di cose che conoscevo direttamente, come il Montello delle mie scorribande in bicicletta che faceva capolino in un brano (Puoi distruggere su Alterazioni del 1997): facevano cioè venire il dubbio che per fare rock e poesia non fosse necessario vivere a Camden Town, nel Greenwich Village o ad Alexander Platz. Forse si poteva anche fare lì, dove Andrea Zanzotto ha ricamato le sue parole.

Ci sono stati un paio di dischi che sembrava un definitivo tentativo di fare un salto, di diventare una band che oltre che scrivere belle canzoni che oggi inseriamo nel filone del “rock d’autore”, incendiare i live con il carisma di Estremo, la ruvida poetica di Abe Salvadori e la botta ritmica di Eddy Bassan e Nicola Ghedin, poteva parlare a tutti. Erano Nordest Cowboys (1999) e Tunnel Supermarket (2001) che mi sembravano poter dire che qualcuno a Trani o a Cagliari potesse entrare in risonanza con una band che veniva da un posto che io percepivo con un territorio culturalmente depresso, perché non c’era la vita rock della Milano del Leoncavallo, quel sobbollire artistico della Bologna dell’Isola nel Cantiere e del Link. Non c’era neanche la tradizione colta e popolare della musica di Napoli, Roma o della Sardegna. Ma per un decennio abbiamo avuto gli Estra.

E la notizia del ritorno con questo nuovo disco, Anni Venti, è stato rivedere nella mia testa tutto il film della mia adolescenza, dei primi anni di università e dell’affrancamento dalla Gioiosa Marca. Non che la mia traiettoria di vita debba interessare a nessuno, ma come si sarà capito se avete letto fino a qui, questa non è una recensione come le altre. Perché non potrò mai scrivere davvero una recensione di un disco degli Estra: sono una costola della mia vita precedente, prima che cominciassi a fare il giornalista, prima che diventassi adulto, prima di molte cose. Ma come testimonia un discorso simile fatto qualche anno fa per il ritorno in studio dei Non Voglio Che Chiara, evidentemente  con l’età si tende davvero a ripersi.

Finanziato con un crowdfunding che ha superato le aspettative, musicalmente Anni Venti sembra riprendere il discorso laddove era stato interrotto con il doppio live A conficcarsi in carne d’amore (2003): rock chitarroso, retto da un ritmica solidissima e duttile, che accompagna la voce calda di Casale. È il risultato del lavoro in studio con Giovanni Ferrario (uno che ha lavorato con PJ Harvey, Scisma, Hugo Race) e che è stato fortemente voluto dalla band. È sul fronte dei testi che qualcosa è cambiato, con messaggi molto più espliciti rispetto a un tempo, come si capisce fin dal titolo di un brano come Che n’è degli umani?. Anche se i quattro non hanno voluto dare spiegazioni sul significato dei testi, è però evidentissimo come si tratti di un commentario all’impoverimento culturale e umano che stiamo vivendo. C’è un brano, Gli anni venti, che punta il dito direttamente contro i rigurgiti fascisti degli ultimi anni e che sembra tracciare un inquietante parallelo con gli anni Venti del secolo scorso, quelli della Repubblica di Weimar che qualcuno ha anche definito di sonnambulismo prima del risveglio nell’incubo nazista.

C’è un tenero cameo di Marco Paolini che interpreta in apertura la Signora Jones che in un fantastico programma radiofonico si chiede se è solo lei a guardarsi attorno e non trovare gli appigli per capire. Tra tentativi di fuga dal malaffare e dalla pochezza (Lascio Roma), l’esilio forzato (Nessuno come noi) e sguardi distopici alterati a un futuro non troppo lontano (Nel 2026) le vie d’uscita sembrano anche più magre di vent’anni fa. L’unica risposta possibile sembra essere data dal brano di chiusura (Notte poi, con Pierpaolo Capovilla), sebbene rimanere umani costi molta fatica mentre ci sentiamo storti rispetto a una contemporaneità che sembra andata fuori sesto.

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