“Da quando ti ho partorita ho iniziato a morire?”

«È dal giorno che ti ho partorita che ho cominciato a morire» dice Petronella a sua figlia Yejide, di cui non ha mai avuto cura. «Questa cosa che abbiamo dalla nascita… All’inizio ti fa sentire speciale, come se fossi tu a tenere insieme questo maledetto universo, come se fosse il tuo corpo di donna a tenere al loro posto la vita e la morte», cerca di spiegare. «È una schifosa bugia» continua, per poi concludere amaramente: «Noi veniamo dalla Morte (…). Noi lavoriamo per lei».

Un lignaggio matrilineare di negromanti è al centro di Quando avevamo le ali, immaginifico esordio della scrittrice Ayanna Lloyd Banwo, originaria di Trinidad e Tobago. Il romanzo si apre con una scena molto più materna di quella appena descritta: nonna Catherine tiene in braccio la piccola Yejide e le racconta una storia. Una teogonia ambientata nella loro isola, che pare una trasfigurazione di Trinidad. Qui un tempo abitavano solo gli animali. Sapevano parlare tra loro e stavano tutti insieme «senza territori da difendere e confini da rispettare». Arriva un guerriero, «vede che è piena di animali da cacciare e frutti da mangiare. Quando guarda gli alberi vede solo le case che potrebbe costruire, e quando guarda la terra vede solo quello che potrebbe prendere». A niente serve che gli animali provino a dirgli che «c’è molto di più di quello che riesce a vedere» (una frase che è un Leitmotiv del romanzo). Non conosce la loro lingua. «Poi il guerriero porta altri guerrieri e con i guerrieri arrivano i costruttori e con i costruttori arrivano i coltivatori e con i coltivatori arrivano i preti. Con i preti arrivano i padroni e con i padroni arriva la morte».

La storia va avanti, ma la rottura dell’equilibrio resta. È in quella spaccatura che vivono i protagonisti di questo romanzo profondo, speziato e risuonante di echi come la notte caraibica, che si intreccia e si nutre di frammenti di credi animistici e culture africane. Frammenti che, sopravvissuti alla tratta, si sono mischiati tra loro e rigenerati dando origine alle leggende degli schiavi d’America, tra cui quella di Solomon, che torna in volo in Africa dopo essere stato deportato, uno dei miti fondanti della cultura afroamericana – ispiratore anche del Canto di Solomon di Toni Morrison, che si apre con lo struggente esergo «Possano i padri alzarsi in volo / E i figli conoscere il proprio nome» – a cui fa riferimento, anche se in modo indiretto, il titolo del libro, e alcune delle immagini archetipe che vi sono evocate.

Dopo l’analessi iniziale, troviamo Yejide, cresciuta nel dolore di non essere stata amata dalla madre, nel momento in cui quest’ultima sta per morire. Sono circondate dalla loro strana famiglia, che vive in un’ancora più strana casa su una collina rigogliosa, in una terra inquieta che si scoprirà fradicia del sangue degli schiavi e di altri più recenti morti senza giustizia. Sono loro che scalpitano per entrare in contatto con Petronella, prima, e Yejide, dopo. Le due donne infatti discendono dai corvi, che secondo la leggenda divorano i corpi per lasciare libere le anime, e hanno una particolarità, trasmessa da madre in figlia quando la più anziana muore: hanno due facce, una vede i vivi, l’altra i defunti. I morti sono arrabbiati, chiedono disperatamente di essere visti. In un luogo di atroci crimini collettivi viene alla mente Nelson Mandela, la sua Commissione per la verità e la riconciliazione che ha insegnato che, perché le vittime possano trovare pace, bisogna almeno vengano riconosciuti i torti che hanno subìto.

Ma non è facile ascoltare i defunti. È terribile. «Smettila di cercare di vedere una cosa sola»: così, una volta morta, Petronella rimprovera sua figlia, riecheggiando l’errore di quel guerriero primordiale della favola narrata dalla nonna. Specularmente, finirà per chiedersi ogni giorno «cos’altro ha davanti agli occhi che non riesce a vedere in questo mondo?» Darwin, un ragazzo di campagna il cui padre, quando era bambino, è andato in città e non è tornato. Darwin si troverà a affrontare la realtà multiforme e corrotta della capitale, costretto dalla povertà a prendere l’unico lavoro disponibile: quello di becchino in uno dei più grandi cimiteri dell’isola. Un lavoro incompatibile con la sua religione rastafari, che vieta il contatto coi morti, e contro il volere di sua madre, che l’ha allevato secondo quei precetti e considera la decisione del figlio come un tradimento. Tagliati i lunghissimi dreadlocks, il giovane fatica a riconoscersi. Nel cimitero accadono cose strane e si trova invischiato in una storia tremenda, immerso fino al collo in una sensazione di essere sulle sabbie mobili: «è come spalare e affondare, spalare e affondare», dirà.

Com’è prevedibile, Yejide e Darwin, interlocutori di morti loro malgrado, si incontrano e si riconoscono. Solo a lui, lei riuscirà a dire quelle «cose che hai paura di dire, perché se qualcuno le sapesse potrebbe cambiare tutto». Attorno a loro l’autrice costruisce un racconto pieno di colpi di scena, una trama disseminata di significati spesso nascosti in particolari epifanici, come caratteristiche fisiche o avvenimenti capaci di alludere ad altro, che indirizzano chi legge verso possibili sviluppi. Solo continuando a girare pagina potrà vedere se si verificheranno.

Magistralmente Lloyd Banwo riesce a tenere il soprannaturale, che aleggia in tutto il racconto, sulla soglia del possibile, del plausibile. Un gioco sottile in cui la particolarità del lignaggio di Yejide pare assurgere a metafora della condizione femminile: «perché cosa c’è di più uguale a una donna che avere in corpo morte e vita?».

Una volta che si è visto non si può più tornare indietro, certo. Quando avevamo le ali è un romanzo sulla perdita dell’innocenza. Ma questa è per sempre o si può riguadagnare? «Ricordati che dentro sei rimasta uccello» si trova a cantare Yejide, dando voce al soffio delle sue antenate.

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Ayanna Lloyd Banwo

Quando avevamo le ali

Traduzione di Monica Pareschi

Einaudi, pagg. 300, € 19.50