Vent’anni sono la misura di un’assenza. Vent’anni senza Roberto Baggio, senza il suo gioco leggero come farfalla e trasparente come cristallo, bianco come il ghiaccio ma senza mai freddezza. Era il 16 maggio 2004 ed era il tempo dell’addio. Milan-Brescia nel giorno del diciassettesimo scudetto rossonero, il codino di Baggio ormai lungo e chiazzato di grigio, la multicolore fascia di capitano con scritta buddista. E la mappa topografica delle gambe, le ginocchia specialmente. Un giorno, seduto su una panchina a bordo campo a Vipiteno, dove il Brescia era il ritiro, Baggio ci mostrò col dito il percorso delle cicatrici, e semplicemente disse: “Non ce la faccio più”.
L’abbraccio di Maldini
Un pallone sfiora il palo, su punizione. Il Milan già festeggia la larga vittoria e il tricolore, poi è tempo di lasciare. Senza lacrime, quasi. Un applauso quasi sfinito di San Siro, a suo modo drammatico come sempre avviene quando sappiamo che non vedremo mai più una certa persona amata, che mai più faremo qualcosa con lei. Roberto Baggio alza le mani, saluta. Viene inghiottito dall’abbraccio di Paolo Maldini. Dopo, si presenterà ai giornalisti con addosso una maglietta dove c’è scritto “Key West”, quasi un orizzonte possibile della vita che ancora non c’è. "Sì, è stata l’ultima, però non mi rendo conto”.
Baggio, unico e solo
Vent’anni senza il suo calcio libero, intessuto di bellezza e mistero. Roby Baggio era unico, e per questo era solo. Non ha avuto eredi, non li può avere Van Gogh. Proviamo nostalgia di quel modo di vivere il gioco, e dell’attimo imprevedibile. In questa purezza da vero 10, Baggio si gioca la partita con Messi, con Zico, con Maradona, con Del Piero che a lungo rappresentò il suo dualismo allo specchio, con Roberto Mancini e pochi altri. I custodi della scintilla della grazia.
Un ragazzo miracoloso
Vent’anni senza quel meraviglioso commiato di provincia che ci regalò il Baggio forse più vero, proprio come agli inizi a Vicenza. Ma ogni città e ogni momento della vita, ogni geografia, hanno avuto un Roberto Baggio in pienezza anche di contraddizione, fossero Fiorentina o Juventus, Milan o Inter, Bologna o Brescia. E la Nazionale, certamente, il contenitore che li ha radunati un po’ tutti, pezzi sparsi di un ragazzo miracoloso anche nella scelta complicata o nell’errore, in quel rigore non calciato a Firenze con addosso il bianconero (raccolse una sciarpa viola sull’erba, Roberto) o in quello mandato nel firmamento americano, “il budìsta l’ha svirgulà”, come avrebbe poi cantato Elio. L’azzurro anche un po’ tenebra di un essere magico, presente in tre Mondiali, capace tuttavia di vincere in carriera molto poco, in rapporto a chi era: due scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa, minuzie se accostate alla sua luce di cometa.
Baggio il contadino
Senza di lui è più difficile divertirsi e amare la vertigine di un pallone che vola. “Da quando Baggio non gioca più/da quando Senna non corre più/non è più domenica”. Dire addio a loro significa dirlo a una parte di noi stessi, nella rotondità di due anniversari esatti (trent’anni per Senna, venti per Baggio) e naturalmente accostabili solo per la mancanza che proviamo, Ayrton non c’è più, Roberto ha scelto di non esserci per forza, niente ospitate tivù, zero parole da “opinionista” o “talent”. “A un certo punto devi decidere chi vuoi essere”. Per saperne di lui dobbiamo cercarlo su una Panda nella campagna veneta, Roberto Baggio il contadino, il fango sugli stivali, la luce nello sguardo mentre dice “io sono felice così”.
Si è rimesso gli scarpini solo per il Papa
Noi, Roberto, senza di te lo siamo un po’ meno. Ma ci ha risparmiato la mestizia di vederlo zoppicare in qualche partitella tra vecchie glorie, solo una volta si è rimesso gli scarpini ed era per il Papa, primo settembre 2014, poi mai più. L’ultima in azzurro era stata a Genova, 28 aprile 2004, un’amichevole contro la Spagna. Il Trap, che pure lo aveva escluso più volte con lacrime e stridore di denti, gli aveva telefonato perché lui ci fosse, un omaggio, un premio alla carriera, incompleta come tutte ma tra tutte la più bella. Gli allenatori erano gelosi di lui, da Trapattoni a Lippi, non Mazzone però. “Non guardo le partite, non mi diverto”. Oggi Roberto è una trama di segnetti sul viso, un casale di mattoni rossi tra gli alberi. Ha 57 anni, spacca la legna con colpi secchi ed esperti, da faticatore di centrocampo e non da quel principe che era. E noi tutti, grazie a lui e per sempre, principesse di un sogno.