Oriente Occidente di Rampini | A Wall Street Dow il Jones è alle stelle: viviamo nel migliore dei mondi? | Corriere.it

A Wall Street Dow il Jones è alle stelle: viviamo nel migliore dei mondi?

Come si spiega l'apparente contraddizione tra il boom del mercato azionario e la narrazione apocalittica in cui siamo immersi quotidianamente? Non è la fine del mondo, ma la fine di "un" mondo: l'era in cui il liberismo retrocede

Nel corso della seduta di Borsa di oggi, a Wall Street l’indice Dow Jones a un certo punto ha superato la soglia dei 40.000 punti. È una soglia simbolica. È un massimo storico. Quell’indice dei valori azionari non era mai salito così in alto. È anche più del doppio rispetto ai minimi in cui il Dow Jones sprofondò all’inizio della pandemia. Vuol dire che viviamo nel migliore dei mondi possibili, almeno qui in America? 

Come si spiega l’apparente contraddizione fra questo boom del mercato azionario, e la narrazione apocalittica in cui siamo immersi quotidianamente? Solo nelle ultime ore i titoli dei media sono stati dominati – comprensibilmente – da temi come la violenza politica in Europa, l’avanzata russa in Ucraina, la tragedia umanitaria a Gaza, “l’Asse del Male” Putin-Xi, il calo mondiale della natalità, più qualche evento meteorologico estremo che è stato subito attribuito al cambiamento climatico

Se la fine del mondo è davvero alle porte, gli investitori che comprano azioni a Wall Street sono come i passeggeri del transatlantico Titanic che brindavano a champagne poco prima della collisione con l’iceberg? Oppure, al contrario, «hanno capito qualcosa» che ad altri sfugge? 

Di solito evito di commentare le fluttuazioni dei mercati. È prudente non attribuirvi significati troppo precisi e impegnativi. I mercati oscillano su o giù in ogni frazione di secondo, reagiscono all’istante a segnali che ricevono dalle aziende, dall’economia reale, dai tassi d’interesse, dalle monete. Domani potrebbero rimangiarsi i rialzi di oggi e lanciare messaggi di segno contrario. Resta il fatto che dietro un evento simbolico come quota 40.000 per il Dow Jones ci sono dei fenomeni solidi e consistenti: flussi di capitali da tutta l’America e da tutto il mondo scommettono sulle aziende quotate in Borsa perché gli investitori credono che queste aziende siano redditizie ora e in futuro. Perciò, senza attribuire a Wall Street l’autorità di un oracolo, questa può essere l’occasione per una riflessione controcorrente

Non viviamo nel migliore dei mondi, ma non siamo neppure in fila per salire sull’Arca di Noè, in fuga dal Diluvio Universale. L’economia americana, e anche quella europea e mondiale, sono tutte in uno stato di salute molto migliore di quanto i massimi esperti avessero previsto. 

Gli Stati Uniti continuano a crescere pur praticando politiche protezioniste che gli economisti avevano bollato come disastrose. Il mercato del lavoro Usa è vicinissimo alla piena occupazione, i salari hanno tenuto generalmente il passo con l’inflazione, e quest’ultima dà finalmente segnali di moderazione. 

In Europa il “grande malato” è la Germania però anche a Berlino non si è verificato quel disastro da penuria energetica che molti attribuivano alle sanzioni contro la Russia: la diversificazione degli approvvigionamenti ha funzionato a meraviglia. Inoltre ai guai della Germania corrispondono dei risultati migliori nell’Europa del Sud, tanto che gli osservatori americani hanno rispolverato l’etichetta del Club Med, stavolta in senso positivo. Altri focolai di crisi si sono rivelati molto più benigni di quanto si credeva. Ricordate quando gli attacchi degli Houthi alle navi mercatili nel Mar Rosso venivano descritti come l’inizio di un collasso nel commercio globale? C’è stato solo un modesto sussulto d’inflazione, l’allarme è già rientrato, perfino dimenticato. Più in generale tutta la tensione geopolitica in Medio Oriente ha avuto effetti modesti sul prezzo del petrolio.

Abbiamo una deformazione atavica, forse addirittura “genetica”, a favore delle cattive notizie? Tendiamo a sottovalutare sistematicamente la resilienza dei nostri sistemi, e il progresso realizzato? Fra gli innumerevoli dati che punteggiano questo progresso ne estraggo uno dall’ultimo numero dell’Economist: la mortalità infantile nel mondo si è dimezzata rispetto al 1990. Non sto facendo paragoni con il 1950 o con l’inizio del Novecento o con l’Ottocento, che descriverebbero un progresso ancora più fantastico, meraviglioso. No, questa avanzata nella salute dei neonati e delle mamme è solo la più recente, quella relativa agli ultimi trent’anni. Ogni altra considerazione dovrebbe passare in secondo piano, quando si riescono a salvare così tante vite alla nascita. Invece molti di noi continuano a pensare che viviamo nel peggiore dei mondi possibili

Forse i cinici, rapaci, avidi investitori che rovesciano fiumi di denaro sulla Borsa americana hanno una visione più oggettiva del periodo storico in cui viviamo. Di sicuro non sembrano impressionati più di tanto dalla “fine dell’ordine liberale” a cui lo stesso Economist dedica la sua ultima copertina e tante inchieste di approfondimento. 

Riassumendo: siamo in un’era in cui il liberismo retrocede. L’America di Biden rincara la dose sui dazi di Trump contro la Cina. America, Giappone, Corea del Sud e Unione europea inseguono la stessa Cina sulla strada delle politiche industriali cioè degli aiuti di Stato per sostenere le proprie imprese. Nessuno invoca nuovi accordi di libero scambio, anzi si alzano nuove barriere. Anche sui benefici dell’immigrazione è in atto un ripensamento: negli Stati Uniti le ultime vittorie del partito democratico in elezioni locali sono legate a nuovi candidati che vogliono regolare e limitare gli ingressi di stranieri. 

Tutto questo non è la fine del mondo. È la fine di “un” mondo, ed è il ritorno a una casella precedente, una delle tante. Per parlare degli Stati Uniti, ad esempio, gli anni del New Deal di Franklin Delano Roosevelt furono segnati da un maggiore intervento dello Stato nell’economia, da forti restrizioni all’immigrazione, e dal protezionismo. Eppure vengono ricordati come una Età dell’Oro. 

Il capitalismo, in America come in Europa, ha sempre proceduto per esperimenti e ibridazioni, alternando diversi mix tra libertà d’impresa e intervento pubblico. Il modello tedesco o quello scandinavo sono sempre stati diversi da quello americano, ed anche quest’ultimo ha avuto fasi alterne da Roosevelt a Kennedy, da Reagan a Clinton. A proposito di protezionismo: lo praticò (allora contro il Giappone) anche un liberista come Reagan negli anni Ottanta. 

Oggi il pendolo torna a oscillare in favore di un maggiore dirigismo almeno in alcuni settori: politica industriale, commercio estero, immigrazione. Xi Jinping denuncia i nuovi dazi di Biden come una violazione delle regole del gioco del commercio globale, che la Cina stessa non aveva mai rispettato. Alla sua Cina noi abbiamo consentito di conquistare il monopolio di tutte le tecnologie verdi (auto elettrica, batterie, pannelli solari), come ultimo capitolo di una lunga storia che ha visto un miliardo di cinesi sollevarsi dalla povertà grazie all’accesso ai nostri mercati. 

Il capitalismo occidentale ha “firmato” una delle pagine più positive della storia umana, l’avanzata del benessere in tutta l’Asia. Ora si adatta a nuove circostanze, tenta di risolvere nuovi problemi, applica ricette diverse da quelle dell’ultimo trentennio. Il minimo che si possa dire è che per adesso se la sta cavando; ancora una volta.  

16 maggio 2024, 18:07 - modifica il 16 maggio 2024 | 18:50

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