La ragazza zingara e l’eroi del Crocus City Hall. Due squarci luminosi nell’oscurità calata di nuovo sul popolo armeno | Korazym.org

La ragazza zingara e l’eroi del Crocus City Hall. Due squarci luminosi nell’oscurità calata di nuovo sul popolo armeno

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[Korazym.org/Blog dell’Editore, 15.05.2024 – Renato Farina] – Nulla di buono, in apparenza, cinge il destino della mia amata Armenia e soprattutto dell’Artsakh (Nagorno-Karabach). Le truppe russe che avrebbero dovuto garantire, secondo accordi internazionali siglati nel novembre del 2020 alla fine dell’aggressione azerbajgiano-turca almeno per 5 anni, l’intangibilità dei territori intorno a Stepanakert e dei loro abitanti Armeni, hanno abbandonato il Caucaso Meridionale. Ma sì, andatevene! Siete state la quinta colonna del Turco oppressore! La vera natura di questa interposizione pacificatrice, è diventata chiara: non erano venuti per soccorrere gli inermi, ma per dar tempo al dittatore Ilham Aliyev di pianificare l’invasione e la cacciata genocidaria dei Cristiani caucasici ottenendo il sostegno increscioso dell’Italia e di altri Stati bisognosi del gas azero. L’Armata Rossa-Russa dopo non aver fatto nulla per preservare la popolazione armena dell’Artsakh, ha collaborato alla deportazione dei miei fratelli.

Che dire? Niente. Comprimo il mio disgusto per la complicità di taluni vostri governanti con gli aguzzini, ma so bene che il popolo italiano non sa quello che fanno costoro, e a noi vuol bene, ma accidenti: chi tra voi è informato provi a trasmettere coscienza di questo orrore.

Ho scritto: nulla di buono. Eppure alcune notizie di morte – una antica e già annunciata dal Molokano il mese scorso, e un’altra che ci ha raggiunti sul Lago di Sevan da Mosca – hanno una strana dolcezza, squarciano l’oscurità della violenza inondandoci di un amore che riscatta la morte seppellendola di rosei petali. Non sto zuccherando l’atrocità, che resta tale, e cioè male e ancora male, però ho visto il balzo improvviso e felice delle trote, principesse argentate, sul lago caucasico increspato di lacrime azzurre, mentre leggevo alla mia gente molokana quanto segue.

È il racconto zingaresco dei Rom d’Armenia trafitti dai Turchi nel 1915. Un sacerdote italiano, Don Renato Rosso, che condivide la vita e la fede di Rom e Sinti in Italia, appreso da svariati testi dell’esistenza di popolazioni Rom in Armenia al tempo del genocidio di un secolo fa, ne ha cercato le tracce. Scoprì che i Rom in Armenia erano (e sono) appartenenti alla Chiesa Apostolica Armena (oggi in piena comunione con il Papa di Roma), e si chiese: anche loro sono stati uccisi e dunque cantano nella schiera dei “Santi Martiri Armeni”? Sì! Il Vescovo Grigoris Balakian, scampato alla deportazione (=condanna a morte) scrisse nel 1934, in 580 pagine, il Golgota armeno. Una memoria del genocidio armeno, 1915-1918. Fu tradotto in America nel 2009, e nessuno da allora può più negare lo sterminio premeditato e totalitario.  Grigoris era pastore del Vilayet di Kastamonu, una provincia ottomana sul Mar Nero (terra armena oggi turca). Scrive: “Nel giugno 1915, il governo centrale promulgò un’urgente ordinanza di deportazione nel deserto di Deir ez-Zor per gli Armeni della mia provincia. In totale 1.800 famiglie di cui mille di Zingari Armeni, circa 7000 persone”.

A pagina 117 dell’edizione americana, Balakian, tra tutte la storia di Zingari uccisi, sceglie quella di una ragazza, in tutto somigliante ad Agnese, Agata, Cecilia, alle sante splendenti dei primi secoli.  Il nome non è riferito. È semplicemente la “ragazza zingara”. Ella era parte di una carovana fatta di donne e bambine, delle quali otto sui dieci erano Rom. Riluceva per bellezza, e uno dei giovani Turchi che scortava le deportate se ne innamorò. Le propose di salvarsi. Se si fosse convertita all’islam l’avrebbe sposata, e portata con sé. Rispose: “Perché non diventi tu Cristiano, e così ti sposo io?”. Il guardiano si infuriò, provvide a farla torturare. Le fece amputare un seno. Non cambio idea. Alla fine la “ridussero in tanti pezzettini”.

Seconda luce che buca la morte. Karen se n’era dovuto andare dall’Artsakh, viveva a Mosca con la moglie Nana. Quando è successo l’atto terroristico a Mosca, il 23 marzo scorso, lui lavorava non molto lontano dal Crocus City Hall. Non si sentiva bene, aveva la febbre, ma è corso lo stesso a soccorrere i feriti. Praticava il severo digiuno quaresimale, gli girava la testa, ma intendeva compiere gesti di carità, non soltanto “fare quaresima” – ha spiegato alla moglie. Ha lavorato tutta la notte, tirando fuori le persone dalle macerie. C’era tantissimo fumo dopo l’attacco e aveva dato la sua giacca a una donna. Tornato a casa stava male. L’hanno portato in ospedale e non sono riusciti a salvarlo. I sacerdoti Armeni di Mosca gli volevano tanto bene, aiutava sempre in tutti i lavori per la chiesa. Andava sempre a Messa, stava in piedi per 2-3 ore, come una colonna, non si muoveva. Mi ha scritto Teresa Mkhitaryan: “Sono un po’ preoccupata per la famiglia di Karen”.

Che Dio invii lui e la martire Zingara in terra ad aiutare il loro popolo, noi compresi, siamo tutti Armeni o no?

Il Molokano

Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio 2024 di Tempi in formato cartaceo e sulla edizione online Tempi.it [QUI].

Foto di copertina: una carovana di deportati Armeni (Armenian Genocide Museum-Institute, Viktor Pietschmann’s collection).

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