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L'Italia divisa: il divorzio 50 anni dopo

Cinquant'anni fa, il 12 maggio 1974 (ma si votò anche il 13, un lunedì) gli italiani furono chiamati alle urne per il primo referendum abrogativo della (...)(...) storia della Repubblica: quello sul divorzio

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Cinquant'anni fa, il 12 maggio 1974 (ma si votò anche il 13, un lunedì) gli italiani furono chiamati alle urne per il primo referendum abrogativo della (...)

(...) storia della Repubblica: quello sul divorzio. Andarono a votare in 33.023.179: cioè l'87,72 per cento degli aventi diritto. Dovevano rispondere a un quesito: volete abrogare la legge n. 898 del 1° dicembre 1970 istitutiva del divorzio? Si fece una certa fatica, in campagna elettorale, a spiegare e rispiegare a un popolo non abituato che votando NO si era a favore del divorzio, votando SÌ si era contrari.

Vinsero, come è arcinoto, i NO, che raggiunsero il 59,26 per cento. Il 14 maggio La Stampa titolò a tutta pagina, su due righe: «L'Italia è un Paese moderno. Vince il No, il divorzio resta». L'editoriale del Corriere della Sera s'intitolava: «La democrazia si rafforza». Il titolo de l'Unità occupava metà della prima pagina: «Grande vittoria della libertà». A distanza di cinquant'anni, credo che quasi nessuno, anche a destra, si senta di non condividere quei titoli e quel senso, appunto, di libertà. Ma a chi nel 1974 non c'era ancora, e a chi non sa, bisogna dunque spiegare perché mai la Chiesa e la destra si impegnarono con tutte le loro forze in una battaglia che oggi non si sognerebbero neppure di riproporre.

E dunque si deve spiegare che quel 12-13 maggio 1974, come al solito in Italia, si andò a votare per una cosa con lo scopo di ottenerne un'altra. Forse la Chiesa, quella sì, si illudeva di combattere per la difesa di un sacramento, ottenebrata dal ricordo di tempi fortunatamente scomparsi, quelli in cui il clero dettava legge anche sullo Stato: tempi disastrosi per la Chiesa stessa, perché quando si impone la fede per legge si partoriscono legioni di atei.

Ma la destra, invece, sperava di porre un freno all'avanzata delle sinistre cominciata nel Sessantotto, e proseguita con l'autunno caldo del 1969 e quindi con i successi elettorali del Pci. In quegli anni turbolenti e violenti la destra volle interpretare il voto sul divorzio come una conta fra comunisti e anticomunisti. Ne è prova il manifesto elettorale del Movimento Sociale Italiano, il quale elencava tre motivi per votare SÌ: e il primo di questi tre motivi era «per impedire ai comunisti di andare al potere».

Un gravissimo, un rozzo errore politico. La legge istitutiva sul divorzio portava la firma del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini, non dei comunisti: anzi, nel Pci non tutti erano d'accordo di far battaglia per il NO.

Ma anche un gravissimo errore di sguardo sulla realtà. Sì, la Dc vinceva sempre le elezioni: ma non certo perché l'Italia fosse composta, nella maggioranza, da cattolici praticanti. Il voto alla scudocrociato era in rilevantissima parte un voto anticomunista: era il voto di chi voleva che l'Italia restasse ben salda in una delle due parti in cui il mondo era stato diviso dopo la fine della guerra. E nella parte occidentale, s'intende.

E poi anche fra i cattolici praticanti c'erano molti dubbi. Grossi nomi si schierarono per il NO, con una motivazione così semplice che oggi pare ovvia: per chi crede che sia indissolubile, il matrimonio resta indissolubile; ma per chi non lo crede, ci deve essere la possibilità di divorziare. Fu il Vaticano, più che il mondo cattolico, a non capire che i tempi delle processioni e delle adunate oceaniche erano finiti, e che la società era da un pezzo secolarizzata. Giulio Andreotti, che non era un fesso e sentiva aria di disfatta, propose alla Chiesa di evitare il referendum con una legge che consentisse il divorzio solo a chi era sposato civilmente. Ma fu respinto. «Se passa una legge del genere», pensarono in Vaticano, «si sposeranno tutti in Comune». Ci si preoccupava dunque dei numeri, delle statistiche, insomma dell'apparenza.

La realtà era altrove. Il Paese era cambiato. Aveva tra l'altro capito che l'abrogazione del divorzio avrebbe colpito soprattutto le donne. Le donne, che avevano diritto di voto solo dal 1946. Le donne, le sole penalmente punibili per adulterio fino a una sentenza della Corte Costituzionale del 20 dicembre 1968. Le donne, che potevano ancora essere uccise con il delitto d'onore, abolito solo nel 1981.

Il 29 aprile 1987, un anno prima di morire, Giorgio Almirante fu intervistato a Mixer. Giovanni Minoli gli chiese perché lui, divorziato e risposato, aveva schierato il Msi sul fronte antidivorzista. «Ci confrontammo in direzione», raccontò Almirante, «e l'appoggio al SÌ all'abrogazione raccolse sedici voti; il NO un voto solo, il mio. Ho sempre pensato che la legge sul divorzio fosse opportuna e che non bisognava sopprimerla. Ma mi sono rimesso alla volontà del partito». Lo rifarebbe?, gli chiese Minoli. «No, non lo rifarei», fu la risposta.

Michele Brambilla

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