Cronache dal festival Welcome to Rockville: sudore, pogo e gran rock | Rolling Stone Italia
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Cronache dal festival Welcome to Rockville: sudore, pogo e gran rock

Siamo stati in Florida a vedere i live di Foo Fighters, Slipknot, Limp Bizkit, Queens of the Stone Age e molti altri in un festival da 200 mila persone. Le foto e il racconto

Cronache dal festival Welcome to Rockville: sudore, pogo e gran rock

Corey Taylor degli Slipknot

Foto: Enzo Mazzeo

Negli ultimi anni il Welcome To Rockville è cresciuto a dismisura: era partito soltanto nel 2011, con una giornata singola, a Jacksonville, in Florida, e nel 2021 si era poi spostato poco più a sud, nel famoso circuito automobilistico di Daytona Beach (sede della Daytona 500, la più importante competizione automobilistica della NASCAR), diventando un evento di 4 giorni. Il cartellone di quest’anno aggiunge ben 50 band rispetto alla passata edizione, per un totale di oltre 150 nomi, diventando così uno dei più grandi raduni rock mondiali per varietà e qualità della proposta musicale. Una sorta di Hellfest (o Download, o Graspop, fate voi) americano, che non potevamo dunque esimerci dal visitare. Noi e altre 200 mila persone nel corso del weekend.

In effetti, quando metto piede nella davvero enorme location, ho bisogno di qualche tempo per individuare i 5 palchi, che mi sembrano lontanissimi tra loro. Mi rendo subito conto che sarà impossibile vedere tutte le band che vorrei. Inoltro mi ricordo che queste band devo anche fotografarle, dunque perdo ogni speranza. Ma d’altronde, il bello è proprio questo, anzi, la prima considerazione da fare, per chi non ha mai assistito a questo genere di eventi, è la seguente: tutti i grandi festival offrono una scelta. In qualunque momento della giornata lasciano che sia il pubblico a decidere chi andare a vedere, o se è il caso di fare qualcos’altro. E il pubblico? Qui c’è gente davvero di tutte le età con famiglie intere, con bambini (anche neonati) al seguito.

Sul palco coi Lacuna Coil. Foto: Enzo Mazzeo

Munito di scarpe da ginnastica e crema solare comincio a macinare chilometri sotto il sole cocente della Florida con l’obiettivo di catturare quante più performance possibile. I primi in cui mi imbatto sono gli Orgy, band nota più che altro per il tormentone Blue Monday, cover dei New Order che li aveva fatti salire alla ribalta alla fine degli anni Novanta. Il caldo nel frattempo diventa insopportabile, e nonostante gli sforzi organizzativi (zone d’ombra, acqua gratis a volontà e addirittura un tendone che offre un trattamento per integrare nutrienti e vitamine, che qualcuno paragona al farsi iniettare del Gatorade in vena), già dopo la performance dei rockers californiani Dirty Honey sul main stage sono pronto a dare forfait. Fortunatamente mi vengono in soccorso gli amici Lacuna Coil che mi accolgono sul loro tour bus per un po’ di refrigerio e, da buoni italiani, un buon caffè espresso.

Hed Pe. Foto: Enzo Mazzeo

Andy Biersack dei Black Veil Brides. Foto: Enzo Mazzeo

Dicevamo degli Orgy, ma sono tantissime le band di matrice crossover/nu metal presenti al festival: ci sono le meteore (gli Alien Ant Farm della cover di Smooth Criminal, per esempio), quelle “dimenticate” (Hed PE, Adema, Drowning Pool) ma anche i vari P.O.D. e Biohazard, oltre ai redivivi Mudvayne, che invece, a livelli diversi, hanno mantenuto un certo status. Il primo giorno assisto allo show davvero esplosivo degli Insane Clown Posse, duo hardcore hip-hop (o horrorcore, come si definiscono loro stessi) di Detroit che qui sono un’istituzione. Suonano su uno dei palchi minori, ma gremito all’inverosimile di “juggalos” (come vengono definiti i loro fan), che vengono innaffiati da fiumi di Faygo, bevanda gassata propria dell’area di Detroit che i due dispensano sul pubblico senza ritegno, stappando in continuazione centinaia di bottiglie disposte in grossi contenitori sul palco.

P.O.D. Foto: Enzo Mazzeo

Biohazard. Foto: Enzo Mazzeo

Considerazione numero due: si sente spesso dire che quando le band più attempate se ne andranno definitivamente in pensione, non ci saranno nuove leve in grado di sostituirle in cima ai cartelloni di eventi come questo. Forse però è il caso di rivedere questa affermazione, perché nel regno di Rockville, le band che alzano più di tutte il livello di testosterone sono quelle contemporanee. Gli A Day To Remember, per esempio, alimentano un crowd surfing incessante, e tengono in pugno il pubblico per tutta la durata del loro set. E lo stesso potrebbe dirsi dei Bad Omens, band che in un paio d’anni è diventata enorme, suonando a ridosso degli headliner in tutti i grandi festival internazionali. E ancora i Black Veil Brides. Quelli che però ci convincono di più sono i Falling In Reverse: quando la band di Ronnie Radke sale sul main stage, davanti a loro c’è più gente di quanta se n’era vista la sera prima con i Mötley Crüe. E non è solo una questione di numeri. Il loro è un pubblico devoto, si sgola cantando tutti i brani, scatenando il putiferio davanti al palco. Con i FIR si avverte l’eccitazione nell’aria, quella che nessun “effetto nostalgia” potrà mai sostituire. Brani come Zombified o Voices In My Head sono anthem di una nuova generazione di rocker che sta prendendo il sopravvento.

Foto: Enzo Mazzeo

Nita Strauss. Foto: Enzo Mazzeo

Tra un concerto e l’altro, le occasioni per rifocillarsi sono innumerevoli. E, per una volta, a prezzi onesti. Con la modica cifra di 21 dollari si poteva per esempio acquistare una Metal Burger Box presso il Blackened Burger Bar, nato dalla collaborazione, appunto, tra Blackened, il whisky dei Metallica, e lo chef Chris Santos. Burger, patatine e bevanda griffati Metallica e 3 plettri in omaggio. Un successo assicurato. E per un bicchiere di vino ci si poteva recare lì di fianco, al Caduceus Wine Bar di Maynard James Keenan dei Tool, e ordinare un buon cabernet. Altro che panino rancido e Coca Cola!

C’era molta attesa per l’esibizione di Kerry King che qui a Daytona si è esibito per la prima volta dal vivo dopo lo scioglimento (per modo di dire) degli Slayer. Il suo è un buon set, in cui propone brani dal suo nuovissimo disco solista e un paio di classici della band che l’ha reso famoso (Raining Blood, Black Magic), con una formazione, ad accompagnarlo, in cui figurano i 2/4 degli Slayer stessi (oltre a lui, il batterista Paul Bostaph), e un’attitudine al 100% Slayer. La sua esibizione, però, contrariamente ai pronostici non attira poi troppa gente davanti al Vortex Stage. Sarà che nel frattempo è stato annunciato che gli Slayer torneranno a fare concerti.

Foto: Enzo Mazzeo

Tra le band di fascia alta ci convincono pienamente i Queens Of The Stone Age, davvero potenti e coinvolgenti, gli inossidabili Cypress Hill (e le nuvole di marijuana che si portano appresso), gli eclettici Mr. Bungle e gli Evanescence, che dal vivo rimangono una band tostissima. I Disturbed li sbirciamo soltanto da lontano, ma va senza dubbio segnalata l’ospitata di Ann Wilson delle Heart per il duetto sul brano Don’t Tell Me. Non ci perdiamo invece i Primus, che suonano nella giornata dei Foo Fighters e vengono accolti con grandi ovazioni (Dave Grohl dirà più tardi, sul palco, che non poteva credere di essere riuscito a farsi una foto con loro). E tornando al discorso sulle band giovani, anche i Greta Van Fleet suonano sull’Apex Stage, il palco principale, proprio a ridosso di Dave Grohl e soci, e con loro l’hype è alle stelle. Non assistevo a un concerto del quartetto del Michigan da diversi anni e devo dire che sono rimasto piacevolmente stupito: sono bravi musicisti, hanno un frontman magnetico come Josh Kiszka e soprattutto brani di spessore. Ricordano troppo i Led Zeppelin? Meglio ancora.

Josh Homme dei Queens of the Stone Age. Foto: Enzo Mazzeo

Josh Kiszka dei Greta Van Fleet. Foto: Enzo Mazzeo

B-Real dei Cypress Hill. Foto: Enzo Mazzeo

Amy Lee degli Evanescence. Foto: Enzo Mazzeo

Tra gli headliner, non mi aspettavo grandi sorprese. A precedere i Mötley Crüe, il primo giorno, sono gli inossidabili Judas Priest, forti di un album molto acclamato come Invincible Shield: sul palco fanno il loro dovere, certo, ma senza particolari sussulti, e quello che si nota più che altro è una certa stanchezza. Anche i Crüe hanno appena pubblicato della nuova musica (un brano solo, Dogs Of War) ma a dispetto di una resa strumentale di tutto rispetto, non si può chiudere un occhio di fronte alla prestazione di Vince Neil, che canta male e appare spesso del tutto assente anche con la testa. Di tutt’altra pasta i Limp Bizkit, il giorno dopo, band letteralmente rinata dopo l’apparizione al Lollapalooza 2021, il cui video di Fred Durst in “dad outfit” e baffoni a maniglia era diventato virale. Anche a Daytona il cantante originario della Florida («Vi ricordo che i Limp Bikzit si sono formati a Jacksonville, qui vicino», annuncia) si presenta sul palco con un look improponibile, ma la band è in palla e pezzi come Break Stuff o Nookie sono ancora in grado di far agitare le folle (vi ricordate di Woodstock 99?). Durst, a un certo punto, chiama sul palco una coppia in prima fila che agitava un cartello in cui implorava il frontman di svelare il sesso del loro nascituro. Detto e fatto, vengono invitati sul palco, gli consegnano una busta e lui rivela loro che sarà un maschietto davanti a quasi 50 mila persone.

Rob Haldford dei Judas Priest. Foto: Enzo Mazzeo

Ian Hill dei Judas Priest. Foto: Enzo Mazzeo

Limp Bizkit. Foto: Enzo Mazzeo

Nikki Six dei Mötley Crüe. Foto: Enzo Mazzeo

Dei Foo Fighters abbiamo parlato molte volte, ed è davvero difficile dire qualcosa sul loro conto che non appaia scontata. Josh Freese si è ormai integrato pienamente e la band continua a trovare sul palco la propria dimensione ideale. Questa sera Dave Grohl non è al massimo della forma dal punto di vista vocale, e infatti rivolge spesso il microfono al pubblico, ma la sua energia è come al solito straripante e dopo qualche minuto è già grondante di sudore. Il set dei Foos è il più lungo tra le band headliner, e scorre via liscio, tra grandi hit e le continue interazioni con i fan. A un certo punto, come fa di consueto, Grohl presenta la band, lasciando a ognuno dei cinque musicisti lo spazio per esibire il proprio talento senza naturalmente prendersi troppo sul serio. Dopodiché annuncia che questa sera lo farà anche lui. Si lancia dunque nell’assolo, leggendario, di Eruption dei Van Halen, lasciando tutti a bocca aperta. Ma i megaschermi posti ai lati del palco a un certo punto tagliano e inquadrano Wolfgang Van Halen, nascosto dietro il palco. Era lui a suonare. La gag funziona. Lo spettro emozionale del leader dei Foo Fighters è davvero unico: ride, si diverte, torna serio e ha completamente in pugno la situazione, dall’inizio alla fine dello show. A un certo punto nota che la sicurezza ha qualche problema col pubblico e annuncia che quando succedono queste cose lui solitamente suona Stairway To Heaven, solo chitarra e voce, aspettando che la faccenda venga risolta. E lo fa davvero. Minaccia di andare avanti finché il problema persiste. Poi viene risolto e lui urla «Finalmente possiamo tornare ai Foo Fighters, motherfuckers»! A fine concerto non manca un pensiero a Taylor Hawkins, a cui dedica Aurora, e un saluto a tutti, in grande stile, con l’inno Everlong.

Eloy Casagrande degli Slipknot. Foto: Enzo Mazzeo

Tocca agli Slipknot chiudere la maratona rock con l’ultimo show in programma. Il collettivo di Des Moines, Iowa, a cui si è appena unito il batterista brasiliano Eloy Casagrande (proveniente dai Sepultura, qui al suo terzo show in assoluto con loro), è anch’esso una garanzia dal vivo. Gli Slipknot suonano solo un’oretta e mezza, ma nel tempo a loro disposizione si rendono protagonisti della solita, tiratissima prestazione caotica e coinvolgente, questa volta soltanto più minimalista del solito, visto che festeggiano il loro venticinquesimo anniversario e dunque si presentano sul palco con una produzione scarna, sullo sfondo giusto il banner con il logo, e indossando le tutte rosse e maschere che tributano quelle originali. Torniamo nell’area stampa con i piedi doloranti e una grande stanchezza addosso con la consapevolezza di avere assistito a un evento unico.