‘Il regno del pianeta delle scimmie’: la recensione | Rolling Stone Italia
Apeverse

‘Il regno del pianeta delle scimmie’ è un passo (evolutivo) indietro per l’intera saga

Morto Cesare, non se ne fa un altro. Dopo la sorprendente trilogia che era stata capace di portare il cult del ’68 nella contemporaneità, non c’era davvero nessuna buona ragione per continuare. E invece…

‘Il regno del pianeta delle scimmie’ è un passo (evolutivo) indietro per l’intera saga

‘Il regno del pianeta delle scimmie’ di Wes Ball

Foto: 20th Century Studios

Quando è stato annunciato per la prima volta che il franchise del Pianeta delle scimmie avrebbe subìto il “trattamento reboot” nell’era ormai giurassica del 2011, i commenti furono abbastanza lapidari: fantastico, un’altra riconoscibilissima intellectual property che viene riesumata per un incasso facile, giusto in tempo per la relazione trimestrale dell’azienda. Ci eravamo appena ripresi da quello sconsiderato remake di Tim Burton del 2001, e ora la Warner Bros. stava tornando a pescare dal pozzo della cultura pop degli anni ’70, pronta a saccheggiare a piene mani l’eredità nostalgica e ammuffita di quegli scimpanzé. Da qualche parte là fuori, un fanatico della Gen-X saltava nel suo appartamento di fronte alla rarissima action figure da collezione del Dr. Zaius ancora inscatolata urlando: “Manderete tutto a pu**ane! Che siate maledetti!!!”.

Invece c’è toccato il primo episodio di una sorprendente trilogia – L’alba del pianeta delle scimmie (2011), Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie (2014) e The War – Il pianeta delle scimmie (2017) – che ha reimmaginato un mondo assediato dalle scimmie in modo intelligente e ancora commercialmente rilevante. La chiave di questa nuova serie era, senza dubbio, Cesare. Grazie alla voce e alla performance (in lingua originale, ndt) di Andy Serkis, in combinazione con gli effetti speciali all’avanguardia della WETA Digital Workshop di Peter Jackson, questo bestione ha intrapreso un viaggio da eroe, da scimpanzé a liberatore, da leader a martire.

Cesare è diventato sia la coscienza della sua specie che il suo portavoce, dando potere ai suoi simili e cercando di colmare il divario tra primati e uomini. Grazie a Serkis, questo personaggio è diventato non solo un punto focale del franchise, ma il suo centro emotivo, la sua anima. L’ironia paradossale è che un attore “sepolto” dalla tecnologia ha finito per tenere a battesimo, con un incredibile senso di umanità, un’intera trilogia sulla supremazia delle scimmie. È davvero una delle più grandi interpretazioni sul grande schermo del XXI secolo.

Il regno del pianeta delle scimmie, il quarto capitolo dell’Apeverse (o come lo chiamiamo?) nelle sale dall’8 maggio, inizia dove finiva The War, con il possente Cesare che riceve un addio da guerriero, con tanto di pira funeraria. Saltiamo in avanti di “molte generazioni dopo” e, dopo pochi minuti dall’ingresso in questo nuovo mondo “al contrario”, ci chiediamo se il vuoto lasciato dalla morte di questo personaggio possa essere colmato. Ci saranno nuovi eroi da acclamare, nuovi cattivi da combattere, nuove metafore sul potere, la corruzione e la storia che si ripete. Tuttavia, una sensazione di scarsa originalità inizia a farsi strada già prima che il primo atto del film del regista Wes Ball metta scimmia contro scimmia. E senza uno scimpanzé irresistibile come Caesar che si prende carico di tutte le spacconate allegoriche, il pathos narrativo e le scene in cui il gorilla pixelato picchia l’orango pixelato mentre uno tsunami pixelato minaccia di spazzarli via tutti nell’oblio pixelato, non resta molto altro.

Il nostro eroe questa volta è Noa (Owen Teague), un giovane scimpanzé che fa parte di una tribù che vive tra le rovine ricoperte di vegetazione della California. Suo padre è un “maestro degli uccelli” che ha addestrato le aquile per aiutarli a cacciare; Noa e i suoi migliori amici, Anaya (Travis Jeffery) e Soona (Lydia Peckham), hanno appena raccolto le uova dal nido, nella speranza di allevare i propri rapaci. Tornando a casa, si imbattono in un pezzo di stoffa dallo strano odore. Credono che appartenga a un “Eco”, il loro termine per indicare gli spazzini umani che vivono nella “valle” proibita.

Noa porta quel pezzo di stoffa a suo padre e agli anziani del villaggio. Ben presto trova la sua proprietaria, una giovane donna selvaggia (Freya Allen) che si aggira nell’accampamento. Poi un gruppo di scimmie rivali, guidato dal bruto Sylva (Eka Darville), attacca la tribù e brucia tutto. Noa viene dato per morto e tutti gli amici e i cari che sono sopravvissuti vengono portati via, per essere usati come schiavi per… qualcosa. Lui dunque inizia a seguire le tracce di questi aggressori, giurando vendetta.

Il Regno del Pianeta delle Scimmie | Trailer Finale

Lungo la strada, incontra un saggio orango di nome Raka (Peter Macon). Questo anziano primate fa parte dell’Ordine di Cesare, un gruppo che considera le parole dell’eroe morto da tempo il suo Vangelo e che studia gli antichi testi umani noti come “libri”. Anche lui ha familiarità con queste scimmie bellicose, avendo appena perso quello che sembrava essere un compagno di vita durante un massacro simile (“Hanno attaccato il mio villaggio”, gli dice Noa; “Era il mio villaggio”, replica Raka, indicando uno scheletro seduto su una pira). Presto la ragazza si unisce a loro. L’orango la chiama Nova, come la bambina muta che Cesare salva in The War, ma il suo vero nome è Mae e non solo parla, ma fa parte di un insediamento che spera di tornare ai tempi in cui scimmie e uomini vivevano fianco a fianco. Vuole anche trovare i cattivi per motivi personali.

Il problema è che anche i cattivi sono sulle sue tracce. E quando lei e Noa vengono catturati, sono quindi condotti su una spiaggia, in quello che un palese richiamo alla celeberrima scema dell’originale del 1968. Non c’è nessuna Statua della Libertà ad attenderli, ma una nave da guerra arrugginita e distrutta che è l’equivalente del covo di un cattivo di Bond. Qui regna un demagogo di nome Proximus Caesar (Kevin Durand), che ha stravolto le parole del loro vecchio leader per i suoi scopi, trasformando il grido “Scimmie, insieme, forti!” in un motto elettorale. Noa scopre che questa aspirante “grande scimmia” è ossessionata da un gigantesco caveau custodito da impenetrabili porte d’acciaio. È pieno di armi e tecnologie umane. Il Cesare 2.0 si lamenta del fatto che il darwinismo richieda così tanto tempo. Ma con i tesori conservati in quell’area sigillata, pensa di poter raggiungere molto più rapidamente l’Homo sapiens in termini di distruzione di tutto e tutti.

C’è dell’altro, dal secondo fine di Mae a William H. Macy che interpreta la versione del futuro di un funzionario del governo di Vichy durante la Seconda guerra mondiale. Vengono lanciati colpi, fatti sacrifici, organizzati salvataggi all’ultimo minuto e una serie di disastri in CGI si abbatte sui nostri eroi prima che una parvenza di ordine venga ristabilita. L’idea che l’insegnamento di un profeta venga utilizzato per il tornaconto personale di chi detiene il potere non è esattamente nuova, ma colpirà chiunque abbia familiarità con le organizzazioni religiose e gli ultimi cinquant’anni di Partito Repubblicano. E mentre la trilogia utilizzava il concept alla base del romanzo cult di Pierre Boulle del 1963 e la serie originale di cinque film per immaginare come si sarebbe svolta la rivoluzione delle scimmie, Il regno del pianeta delle scimmie è il primo dei reboot in cui “le scimmie sono i nostri padroni” è un dato di fatto. È un parente stretto di quel film con Charlton Heston del 1968, in tutto e per tutto, tranne che per la qualità, la coolness e la riuscita in qualsiasi tipo di campo.

Per dirla senza mezzi termini: si tratta di un grande passo evolutivo indietro per un franchise che poco più di dieci anni fa si distingueva dalla massa di blockbuster che affollavano i multisala, e che aveva mantenuto una coerenza che sembrava sempre più rara tra gli “universi” cinematografici. Il regno del pianeta delle scimmie può portare la sua battaglia contro gli umani e le scimmie a qualcosa di simile a un pareggio, ma sicuramente perde la guerra per mantenere il vostro interesse. Serkis ha fatto da consulente, ma noi uccideremmo per averlo di nuovo davanti alla macchina da presa, pronto a lanciare ancora una volta il suo incantesimo nella performance capture. Senza di lui alla guida, questo nuovo Pianeta delle scimmie sarà dimenticato molto presto.

Da Rolling Stone US