Ragazzi leggendari
Ferrari logo

Passione

Ragazzi leggendari

Un po’ eroi, un po’ star del jet set. Sicuramente campioni. Erano i piloti degli albori degli sport motoristici, che mettevano il coraggio al primo posto. E che spesso pagarono con la propria vita l’ossessione per la velocità
Testo: Giorgio Terruzzi

1950, nel cuore del secolo. Il secolo del motore. Nascita di un mito, con la patente di guida: il campionato mondiale di Formula 1. Nelle foto le macchine erano bloccate nel loro dinamismo. Mostri spaventosi, mai visti, lo smalto delle carrozzerie da ipotizzare dentro fotografie in bianco e nero. Simboli di un futuro in rapido avvicinamento, da immaginare nell’acustica guardando le foto, e da sbirciare finalmente, a Monza, che era da tempo il tempio di un collettivo scuotimento.

Un happening, come non si diceva allora, colmo di adrenalina. Che risaliva agli anni Trenta, con Tazio Nuvolari e Achille Varzi, a montare passioni fresche, prima di ascoltare altri boati spaventosi. Cannoni e bombe, una guerra simile ad una ferita collettiva.


Alberto Ascari (vettura n. 4), Juan Manuel Fangio (vettura n. 50), e Giuseppe “Nino” Farina (vettura n. 6), schierati alla partenza a Monza nel 1953

Adesso, nel dopoguerra, vita, una frenesia da rinascita, il sangue dei piloti come ingrediente più indispensabile che tragico perché è questo il prezzo da pagare. Musicisti-piloti come eroi da inseguire, sino a dove, sino a quando, nessuno può dirlo perché qui si fa la storia e si muore.

“Piloti, che gente”. Il titolo perfetto. Deciso da Enzo Ferrari per raccontare la sua truppa scelta in un libro. Uomini tormentati, i partner perfetti per un visionario che aveva elaborato la strategia per la gloria.


Il pilota britannico Peter Collins con sua moglie, l'attrice americana Louise (nata King) al GP di Gran Bretagna ad Aintree, nel luglio 1957. La coppia era una delle più glamour di quel periodo

Lavoro di coppia: una coppia sinergicamente funzionale con Tazio Nuvolari negli anni più acerbi e ruggenti; in coppia con Alberto Ascari per un boom che il Mondiale di F.1 avrebbe moltiplicato. Ascari resta una figura decisiva. Due titoli, 1952 e ’53; la sua Ferrari 500 talmente iconica da circolare ancora adesso, in miniatura. Alberto, guai a lasciargli la testa della corsa, con quel cognome che risvegliava la memoria del dramma di babbo Antonio, legato a doppio filo con Ferrari.

Alberto, che da Ferrari andò via, destinazione Lancia, che su una Ferrari sarebbe morto in un mistero che dura ancora adesso. Un mistero che vide protagonista il giovane pilota Ferrari Eugenio Castellotti disposto a lasciarlo guidare, a lasciargli provare il suo bolide – a Monza, ovviamente – in ossequio al maestro.


Foto a sinistra: Eugenio Castellotti (a sinistra) chiacchiera con Fangio alla 12 Ore di Sebring del 1956, che vinsero alla guida di una 860 Monza. Foto a destra: Mike Hawthorn (a sinistra) e Umberto Maglioli festeggiano la vittoria del GP Supercortemaggiore a Monza nel giugno 1954

Fermo ai box mentre Ascari volava via, con addosso il casco di un altro invece del suo casco “portafortuna”, senza la solita maglia azzurra. Superstizioso com’era, quel giorno il grande Alberto si schiantò e morì nella Ferrari.

Il passaggio di consegne è cruento. Spalanca le porte ad una nuova generazione di piloti. Più fotografata, dunque più esposta. Di chi stiamo parlando? Di Mike Hawthorn, per esempio. Il famoso pilota dello Yorkshire che correva con al collo il farfallino a pois, un ragazzo tutta vita, il bicchiere della staffa sempre pronto. Accompagnato, nella vita, nelle corse e nelle foto, da Peter Collins, che pareva un affascinante attore hollywoodiano.


Jacky Ickx durante i test della 6 Ore del 1969 a Watkins Glen negli Stati Uniti. Il pilota belga aveva solo 22 anni quando entrò nella Scuderia Ferrari, dove gareggiò due stagioni tra il 1968 e il 1973

Collins, adottato dal vecchio Enzo, concesse a Fangio la propria macchina, Lancia-Ferrari, anno 1956, sempre Monza, rinunciando al titolo, regalandolo al vecchio signore argentino. “Ho tempo”, disse. “Ho altro tempo davanti a me”. Ne aveva ben poco, purtroppo. Morì sul Nürburgring il 3 agosto 1958, pochi mesi prima della scomparsa del suo amico Mike, fresco campione del mondo, sulla strada di casa in Inghilterra. Erano morti in sequenza Castellotti, a Modena, in prova, 14 marzo 1957, e Alfonso de Portago, Cavriana, 12 maggio 1957, un incidente simile a una strage, che chiuse per sempre l’avventura della Mille Miglia.

L’elenco dei caduti è sterminato. Ne hanno parlato, ne parlano a fatica pochi grandi sopravvissuti. Fangio che proprio nel ’58 disse basta; Stirling Moss, preservato da chissà quale angelo mentre rischiava la vita due volte a chilometro; Jacky Ickx e Jackie Stewart che nei decenni successivi salvarono la pelle senza nemmeno sapere come mai.


Juan Manuel Fangio davanti a Stirling Moss a Monza, in corsa per vincere il Campionato del Mondo 1956 con la Ferrari 

Meglio ora, non serve nemmeno dirlo. Auto e circuiti più sicuri. Ma se siamo qui a correre dietro chi corre, al diavolo la retorica e il bon ton, lo dobbiamo a chi ha affrontato altri rischi, ha perso la vita.

Dentro auto molto lontane, molto più veloci rispetto a quelle che i comuni mortali potevano toccare, comperare, guidare. In una miscela di piacere unico e coraggio estremo: la meravigliosa follia di chi, in macchina, andava a fare i conti con il proprio diavolo.


Foto di copertina: Felice Bonetto accende la pipa prima di partire per i 5 giorni della Carrera Panamericana in Messico, durante la quale il pilota italiano cinquantenne trovò la morte nel 1953