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La Chiesa: il difficile è comunicare

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Intervista a Nando Pagnoncelli
La Chiesa per parlare a tutti deve sapere ascoltare. 
Le fasi del Sinodo in corso: problemi e prospettive 

Il 17 aprile scorso Avvenire ha pubblicato una serie di sue considerazioni sotto il titolo “Impara a parlare a tutti e a ciascuno. Ma prima ascolta: Chiesa, fa’ come Gesù”. 

In quell’articolo, dialogando con il giornalista Lorenzo Rosoli, Nando Pagnoncelli affermava che «la comunicazione è sempre in due direzioni. E una Chiesa che sa comunicare, con i credenti come con i non credenti, è anzitutto una Chiesa che sa ascoltare. Non per “inseguire” l’opinione pubblica, ma perché non teme di aprirsi alle istanze, ai desideri, alle emozioni, anche alle paure che il messaggio evangelico suscita quando tocca la nostra vita». Pagnoncelli, presidente dell’agenzia demoscopica Ipsos Italia, è entrato recentemente a far parte della Presidenza del Comitato nazionale del Cammino Sinodale della Chiesa italiana. 

Lei già precedentemente aveva avuto un incarico ufficiale nel comitato organizzativo del Sinodo. 
«Sì, ma recentemente sono stato invitato a entrare anche nel comitato della Presidenza, che conta in tutto 17 membri, tra i quali c’è un altro bergamasco, don Giuliano Zanchi, docente di Teologia all’Università Cattolica e direttore del mensile La Rivista del Clero Italiano». 

Riguardo al comitato nazionale, potrebbe spiegare come si sta lavorando, attualmente, al suo interno? 
«I lavori del comitato nazionale sono ripartiti per temi in cinque commissioni. Farei però un passo all’indietro, per poter spiegare meglio la cosa. Una prima fase di “ascolto” si era sviluppata dal 2021 al 2023 e aveva coinvolto, in tutte le diocesi italiane, un numero impressionante di gruppi di discussione, circa 50mila. L’idea guida, secondo una ben nota espressione di Papa Francesco, era quella di “una Chiesa in uscita”, desiderosa di rinnovarsi, di porsi in ascolto, di comprendere meglio le dinamiche del mondo contemporaneo. Per inciso: proviamo a immaginare quale mole di verbali possa essere stata prodotta in tutti questi gruppi. Su questi contributi si è compiuta una sintesi, estremamente accurata, e si sono individuati cinque macro-tematiche, assegnate alle commissioni a cui ho appena accennato: si tratta della “missione secondo lo stile di prossimità”, del “linguaggio e della comunicazione” – di cui io faccio parte -, della “formazione alla fede e alla vita”, della “sinodalità permanente e la corresponsabilità”, del “cambiamento delle strutture”». 

La fase attuale del percorso del Sinodo è quella «sapienziale»? 
«È dedicata al discernimento dei contributi precedentemente raccolti: ne è derivata una serie di proposte per il prossimo futuro». 

La questione del «linguaggio» con cui annunciare il Vangelo non si riduce a un problema di packaging: non si tratta solo di «infiocchettare» le prediche e i bollettini parrocchiali, rendendoli più attraenti. Pensiamo, per esempio, a tante coppie di cattolici praticanti i cui figli non vanno mai, neppure saltuariamente, a messa: questi ragazzi dicono di trovare i riti e le parole della Chiesa noiosi, irrilevanti. Il rischio vero, oggigiorno, non è che il linguaggio della tradizione cristiana incontri delle opposizioni o venga rigettato, ma che risulti semplicemente incomprensibile per le nuove generazioni. 
«Il punto è proprio questo: il messaggio cristiano rischia di risultare “insignificante”. Per i credenti ne derivano, a me pare, due compiti distinti: il primo è quello di riassegnare un valore al messaggio stesso; il secondo è quello di trovare dei modi efficaci per comunicarlo». 

Sono due aspetti strettamente intrecciati. 
«Certamente. La questione, nei suoi due versanti, non è da poco: non è, per così dire, come se bastasse premere un interruttore per accendere la luce in un ambiente buio. Un punto è però evidente: si tratta di far sì che l’annuncio cristiano entri in contatto con la vita concreta delle persone del nostro tempo, in un contesto sociale assai diverso, molto più articolato che in passato. Lei portava il caso dei giovani e degli adolescenti che non mettono più piede in chiesa. Ma anche tra gli adulti sembra manifestarsi un distacco di questo tipo». 

Qualche mese fa, sempre su Avvenire, il teologo Pierangelo Sequeri ha avviato un dibattito sulla necessità che i cattolici si impegnino in un lavoro culturale di lettura, di interpretazione del mondo attuale: la dimensione della «testimonianza», pure fondamentale, da sola non basta (e forse si presta anche a essere piegata in senso ideologico: poiché già «facciamo tante cose», lo studio e la riflessione critica non servono). 
«Credo anch’io che le due cose – la testimonianza e il lavoro di riflessione – debbano andare di pari passo. Per certi versi, anche la fase di ascolto del cammino sinodale ha evidenziato tale necessità. Qualcuno, all’inizio, avrebbe potuto immaginare che la discussione si sarebbe svolta secondo binari prefissati. Non è stato così: si è discusso di tutto, senza alcun tabù. Poi, a fronte di questo aspetto certamente positivo, si pone un altro interrogativo: in quale misura verranno recepite le proposte elaborate nella seconda fase, quella del discernimento? Si presenta anche un’ulteriore questione». 

Di che cosa si tratta? 
«Nella presidenza del Sinodo, correndo magari il rischio di sembrare un po’ “aziendalista”, ho sollevato la questione che chiamerei “dell’accompagnamento e della verifica”. Il lavoro monumentale che finora si è svolto rischia di essere vanificato, se una volta concluso il percorso sinodale le diocesi e le singole parrocchie non saranno messe in grado di mettere in pratica le proposte formulate. Ci sarà bisogno di un accompagnamento, perché nessuno nasce esperto, e pure di verifiche nel corso del tempo, per controllare che il processo di cambiamento venga davvero adottato in modo capillare». 

Giulio Brotti 



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