I due Machiavelli. L'indagine di Alessandro Campi | Il Foglio

Il ritratto di Machiavelli dipinto da Santi di Tito nella seconda metà del Cinquecento, quando il pensatore era già morto (Wikipedia) 

I due Machiavelli. L'indagine di Alessandro Campi

Maurizio Stefanini

Cinico calcolatore, d'accordo, ma come politico sul campo e come stratega militare lasciava a desiderare. In “Machiavelliana. Immagini, percorsi, interpretazioni”, il politologo analizza ciò che un tale nome ha finito per evocare

Non siamo sicuri di che volto avesse davvero Niccolò Machiavelli; ma è sulle sue fattezze, per come sono state tramandate, che è stato tratteggiato Charles Montgomery Burns. Sì: il proprietario della centrale nucleare dove lavora Homer Simpson, e che sarebbe poi il cattivo per eccellenza del popolare cartoon. Un po’ emblema e rappresentazione di quella che può considerarsi la contrapposizione tra mito e anti mito dell’autore del “Principe”, l’osservazione è fatta da Alessandro Campi nel suo “Machiavelliana. Immagini, percorsi, interpretazioni”, appena uscito per Rubbettino (366 pp., 24 euro). “Guardatene con attenzione il profilo: l’espressione sinistra e luciferina, la fronte spaziosa e i capelli disordinati che cadono indietro sulla nuca, il naso adunco e aquilino, lo sguardo pungente e obliquo, il sorriso malizioso e irriverente (addirittura cattivo). Vi ricordano forse qualcuno o qualcosa?”. 

   
Appunto, il ritratto attribuito a Santi di Tito, oggi custodito nel Palazzo Vecchio di Firenze: “Non solo riprodotto in una infinità di occasioni nella sua versione originale, al punto da essersi trasformato nel tempo in una sorta di manifesto o icona, ma più volte e nelle forme più diverse riadattato, ripreso, aggiornato, integrato, ritoccato e persino manipolato”. Comunque sempre utilizzato, osserva Campi, non solo per suggerire un aspetto fisico, ma più ancora per rendere visivamente “i segreti del suo carattere e la sua reale disposizione d’animo, gli aspetti più rilevanti della sua personalità, dunque l’essenza di un pensiero che nel corso dei secoli non ha mai smesso di intrigare e suggestionare, ma al tempo stesso di spiazzare e confondere, anche i lettori più avveduti”. Insomma, “l’incredibile fortuna del ritratto in questione – di una forza espressiva straordinaria e persino inquietante”, dipenderebbe, secondo questa analisi, “dalla curiosa circolarità che sembra implicare e che porta a chiedersi, quando lo si guarda, se quella faccia volpina e astuta, magra e ossuta, se quegli occhi vispi e indagatori, se quel sorriso appena accennato ma che sembra denotare malizia e un fondo di irriverenza, siano la trasposizione pittorica, ben riuscita e a suo modo geniale, della obliqua fama, vagamente sinistra, che ha cominciato a imprimersi su Machiavelli da subito dopo la sua morte, o se invece si tratti della rappresentazione fedele di quest’ultimo, insomma del vero e autentico Machiavelli per come lo hanno conosciuto i suoi famigliari e i suoi contemporanei”. Una faccia da diavolo: ma è il vero Machiavelli? 


Su ciò Campi ha qualche dubbio, tenendo conto del fatto che Santi di Tito, “essendo nato nel 1536 e morto nel 1603, di certo non ha potuto conoscere personalmente il soggetto da lui rappresentato”. Ma è la stessa situazione degli altri ritratti di Machiavelli: “Tutti realizzati dopo la sua morte e senza che si conosca l’archetipo figurativo sul quale i diversi autori possano aver lavorato”. Non è che siamo dunque di fronte alla “immagine sintetica, altamente evocativa, di un Machiavelli stereotipato e al tempo stesso di fantasia, la rappresentazione icastica di tutto ciò che un tale nome (e i termini che ne sono derivati nel tempo: machiavellico, machiavelliano, machiavellismo, machiavellicamente, machiavello, machiavelleria, machiavellesco) ha finito per evocare soprattutto a livello di cultura popolare, sino ai giorni nostri: astuzia, scaltrezza, slealtà, mancanza di scrupoli, sotterfugio, inganno, per giungere agli estremi della perfidia, dell’assoluta mancanza di remore morali e della disponibilità a perseguire i propri obiettivi con ogni possibile mezzo”? 


Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia, e dal 22 febbraio direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Alessandro Campi ha con Machiavelli un rapporto particolare. Sua originalissima scaramanzia è quella per cui in ogni luogo dove arriva si mette a cercare per librerie o bancarelle almeno una edizione originale di opere dello stesso Machiavelli: hobby di cui lo scrivente di queste note è testimone per aver avuto la ventura di accompagnarlo in un paio di queste scorribande. A riprova di questo approccio quasi personale col “segretario fiorentino”, calabrese di nascita ma perugino per antica naturalizzazione, Campi dedica uno dei saggi della prima parte a ripercorrere l’itinerario di Machiavelli in Umbria.


Subito prima c’è un altro saggio su  “Machiavelli e l’arte della guerra”, dove per rivalutare il Machiavelli polemologo Campi cerca di smontare un’altra presumibile fake news: la novella dove  Matteo Bandello racconta di quella volta in cui “il nostro ingegnoso messer Niccolò Macchiavelli sotto Milano volle far quell’ordinanza di fanti di cui egli molto innanzi nel suo libro de l’arte militare aveva trattato”. Ma “si conobbe alora quanta differenza sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha piú volte messe le mani, come dir si suole, in pasta”, dal momento che non gli riuscì in due ore a sistemare tremila fanti in una formazione su cui aveva a lungo scritto, fin quando al posto del “teorico” non venne il “pratico” Giovanni dalle Bande Nere, che sistemò il tutto in quattro e quattr’otto grazie a pochi comandi ben impartiti e all’ausilio di qualche tamburino. Era però appunto dal rischio di sostituire alle milizie cittadine i capitani di ventura che Machiavelli aveva messo in guardia. E l’Umbria aveva dunque riscosso il suo interesse proprio perché di questo tipo di condottieri era stata una grande produttrice: da Braccio da Montone a Erasmo da Narni il Gattamelata. 

  
Campi in passato ha curato sia una mostra sull’iconografia di Machiavelli, sia un’altra su  “Machiavelli e il mestiere delle armi. Guerra, arti e potere nell’Umbria del Rinascimento”. Ma è un po’ anche un invitare il maestro a casa sua che rimanda alla citata famigliarità, e che riporta alla confessione personale con cui si chiude il libro: “Ho trovato gli undici preziosissimi volumi delle opere complete Valdonega”, famosa edizione su Machiavelli, “sul mercato antiquario e con un esborso tutto sommato contenuto – tale per me, mia moglie è stata d’altro avviso – li ho fatti miei”.

 

Un denunciatore delle malefatte clericali diventò per le chiese riformate il simbolo della politica dell’inganno nel mondo cattolico-latino

  
L’aneddoto di Bandello, però, rimanda a un paradosso. Immagini demoniache a parte, Machiavelli è stato proprio identificato con una sorta di diavolo in terra. “Nel corso del tempo, ad esempio nell’Inghilterra elisabettiana e antipapista”, spiega Campi, “il suo nome  è divenuto, agli occhi delle chiese riformate del nord, l’emblema di una politica tutta giocata sull’inganno come quella abitualmente praticata nel mondo cattolico-latino”. Anche questo è “un divertente paradosso per un autore che in vita era stato un gran denunciatore delle malefatte clericali e che da morto ha dovuto scontare per quasi due secoli i rigori censori del Sant’Uffizio”. Mentre in Francia il suo nome fu associato alla polemica contro la “mafia” di italiani che Caterina de’ Medici si era portata appresso.

 
Ma, tornando al mondo anglosassone, il risultato è che “il suo nome è stato deformato in forme maliziosamente allusive al Principe delle Tenebre e con lo scopo di biasimare le malvage pratiche politiche da lui teorizzate e giustificate alla stregua di un’insopprimibile necessità della lotta per il potere”. “Much Evil, Macht a Villain, Hatch Evil, Mitchell Wylie, Matchewell sono solo alcune delle storpiature che nella letteratura del periodo, a partire dalla scrittura teatrale, sono state inflitte al suo nome per renderlo vagamente assonante col diavolo e col male (devil-evil). Anche nei drammi elisabettiani è frequente il riferimento, anche solo vago e indiretto ma pur sempre polemico e riconoscibile, a Machiavelli per personaggi presentati sulla scena come malvagi, traditori, furfanti, intriganti e appunto demoniaci. Manca la prova filologica, ma persino uno dei nomignoli con i quali in lingua inglese si indica il diavolo, old Nick, leggenda vuole che si riferisca proprio al ‘vecchio Niccolò’”.

 
Ma del diavolo si ricorda che sa fare le pentole ma non i coperchi: cosa a cui lo stesso Machiavelli peraltro allude, in quella sua “Favola” dove racconta di un Belfagor arcidiavolo che va in terra come uomo per verificare se davvero siano le mogli la principale causa di dannazione degli uomini, e si trova a doverlo sperimentare sulla sua pelle nel modo più traumatico. E il Machiavelli pasticcione di Bandello richiama il ritratto che ne fa, nell’“Italia della Controriforma”, Indro Montanelli. “Con le ‘Storie’ rientrò nelle grazie della potente famiglia fiorentina. Il 18 maggio 1526 fu nominato capo dei Curatori delle mura, un comitato addetto alle fortificazioni. Era, dopo quattordici anni, la prima ripresa di contatto con la vita politica. Ma fu anche l’ultima. Un anno dopo, quando i lanzichenecchi di Carlo V calarono su Roma e ne scacciarono Clemente, i fiorentini rovesciarono i Medici e restaurarono la Repubblica. Il grande teorico della Realpolitik, l’esaltatore del calcolo opportunistico, in pratica non ne azzeccava una. Di aver cambiato così spesso bandiera, non si può fargli colpa: rientrava nella morale del suo tempo. Ma si può sorridere del fatto che il maestro del cinismo e della spregiudicatezza, quale egli è considerato, puntasse sempre sul cavallo sbagliato”. Ancora più feroce un altro aforisma montanelliano: “I toscani sembrano dei demoni, ma nella realtà perdono, come dei poveretti. Scrivono ‘Il Principe’, per vincere il concorso da segretario comunale, e sono bocciati”.

   

Secondo Campi, “molti hanno usato questo espediente. Attaccare Machiavelli per nascondere il loro machiavellismo”

   
Sempre di Montanelli un’altra battuta, riferita a Federico II di Prussia: “Era talmente machiavellico che scrisse un libro contro Machiavelli per dimostrare che non lo era”. Secondo Campi, “effettivamente hanno usato in molti questo espediente. Attaccare Machiavelli per nascondere il loro machiavellismo o per non essere accusati di esserlo. Federico II, appunto. Ma tipico anche il caso di Walter Raleigh: un filibustiere, in senso letterale, che attaccava pubblicamente Machiavelli essendone un lettore e ammiratore in privato”. Un’altra sfaccettatura, ma non l’ultima. La lunga cavalcata di Campi ricorda ad esempio che il XX secolo ha rivisto Machiavelli come precursore del totalitarismo: in senso negativo, ad esempio dal giovane Raymond Aron, da Gerhard Ritter, da Jacques Maritain, o da Leo Strauss; ma anche positivo, con Benito Mussolini che raccontava del padre a leggergli “Il Principe” davanti al camino. Ma c’è anche l’altra tesi che va da Traiano Boccalini a Francesco Bacone e a Jean-Jacques Rousseau, sul repubblicano che finge di dare consigli ai tiranni per smascherarli. Come sintetizzò Ugo Foscolo nei “Sepolcri”, “quel grande / che temprando, lo scettro a’ regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue”. 

 
In realtà, Campi considera più corretta quella visione secondo la quale Machiavelli nel definire che gli stati sono o repubbliche o principati, redige appunto due manuali: i “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio” per le repubbliche; “Il Principe” per i principati. “E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si mantiene poco tempo” è la famosa massima sul Capitolo terzo del Libro terzo dei “Discorsi” che Arthur Koestler pose come esergo al suo “Buio a mezzogiorno”. Machiavelli personalmente preferirebbe una repubblica, ma perché la gente in libertà si comporti bene bisogna che ci sia una religione efficace, in grado di far rigare diritto senza bisogno di coercizione fisica. Siccome non è più il caso dell’Italia, per colpa del cattivo esempio dato dalla Chiesa, da noi ci vuole ormai un potere forte, anche perché bisogna costruire una Italia unita. Non è il fine che giustifica i mezzi, ma i mezzi che devono essere congruenti al fine.

 
All’idea che il metodo di Machiavelli può comunque essere utilizzato a fini che si considerano positivi è legato l’apprezzamento che ne fa Antonio Gramsci, che come sintetizza Campi considera “Il Principe” non “un libro datato, ma un testo vivente, utile per l’azione politica immediata, uno strumento per la mobilitazione delle masse”. Ma c’è anche un altro importante filone definito neo-repubblicano, che è diventato prevalente negli Stati Uniti dopo la loro ascesa a superpotenza globale proprio in nome della missione di difesa delle libertà occidentali. Un approccio secondo cui un’analisi scientifica della politica è indispensabile proprio a difendere la democrazia liberale, che vede come sistematore Hans Baron con una serie di fortunati saggi pubblicati tra il 1956 e il 1961, ma che ha il suo antecedente nel famoso “Nel nome di Machiavelli. I difensori della libertà” scritto nel 1943 da James Burnham. Più bestseller che opera scientifica, in realtà. Però compilò una lista di eredi legittimi di Machiavelli, alcuni dei quali Campi pone tra le “voci” della parte terza del volume: Robert Michels, Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca. 

   

Per Gaetano Mosca, Machiavelli è “soprattutto un idealista teorico, e, come quasi tutti gli idealisti, è qualche volta un ingenuo”

   
E’ vero: se effettivamente Pareto costruttore di una sociologia come logica delle azioni non logiche e teorico delle élites richiama a più riprese Machiavelli, in realtà  Michels, creatore di una “legge ferrea delle oligarchie” destinate a riapparire in ogni organizzazione, osserva che “non ha mai scritto alcunché di organico o sistematico sull’autore del Principe”. Mentre Gaetano Mosca, teorico della classe politica e della formula politica da cui nasce l’idea della democrazia come strumento di selezione tra oligarchie in competizione, addirittura “nei suoi scritti espressamente dedicati a Machiavelli ha criticato quest’ultimo proprio per la sua mancanza di rigore analitico, di metodo scientifico e di un’adeguata conoscenza della storia, arrivando a negare che possa essere considerato il fondatore e il precursore di una vera scienza politica”. “A Machiavelli sono mancati, in particolare, i materiali storici adeguati a una simile impresa, il che si spiega col fatto che alla sua epoca, secondo lo studioso palermitano, ‘l’indagine e la critica storica erano all’infanzia, anzi forse non erano neppure nate’. La sua cultura storica, oltre che limitata a Roma e alla Grecia, era inoltre eccessivamente libresca e intellettualistica: da qui l’erronea pretesa, da letterato più che da studioso, di modellare sull’antichità classica la politica del suo tempo. Come si legge nel manuale moschiano di dottrine politiche, Machiavelli, ‘come tutti quelli nei quali la maniera di pensare si è formata a preferenza sui libri, è soprattutto un idealista teorico, e, come quasi tutti gli idealisti, è qualche volta un ingenuo’”. 

 
Insomma, tesi ripresa anche da Giovanni Sartori e appunto orecchiata da Montanelli: in realtà, forse il problema vero di Machiavelli fu proprio quello di non essere machiavellico! 

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