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«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano»

«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano, peserà poco più di un etto». Questa idea fiabesca di leggerezza e di gracilità legata a Pietro Tripodo, alla sua produzione letteraria finora stampata (non si può che auspicare l’edizione completa almeno dei preziosi, cospicui materiali conservati da Ignazio Visco), è di Emanuele Trevi, che la depositò nel cuore di Senza verso. Un’estate a Roma, del 2004, ripubblicato nel 2021. Un pugno di carta, una manata di poesia, cento grammi scarsi di metrica sofisticata, di ritmo danzante. Anzi, non solo di poesia (come è il caso di Altre visioni, il primo libro, uscito nel 1991), visto che in prosa ritmica, come si definivano certe scritture tardo-latine e medio-latine, Tripodo compose i 40 “pezzi” di Vampe del tempo, il suo secondo libro, pubblicato nel 1998, l’anno prima della morte, e riproposto in una magnifica edizione nel 2019 dalla Stamperia d’arte Il Bulino di Roma, con nove disegni di Enrico Pulsoni e una Premessa di Emanuele Trevi.

Trevi è maternamente tenero con il suo grande amico spezzato da un male spaventoso, che si acquattò in quel luogo del corpo dove pensiamo risieda anche l’anima, là dove nascono le idee e le emozioni, le immagini e le parole. Tutti siamo ancora oggi disperati per quella che sentiamo come un’ingiustizia, l’orrenda sopraffazione del fato contro una creatura inerme, irrorata di «giocosa gentilezza, intima a coloro che conoscono il peso delle parole e sanno come le parole vadano a cadere dentro le anime» (la frase è di Raffaele Manica).

Aprendo la sua Premessa Trevi diede forma a un’altra figura magnifica della delicatezza, così del volo come del canto di Pietro: «Vampe del tempo, il secondo e ultimo dei libri di Pietro Tripodo pubblicati in vita, è talmente gremito di uccelli che lo si potrebbe paragonare a una voliera. E agli uccelli, naturalmente, si accompagnano tutti i loro suoni: “zirli, fischi, trilli, ciangottii, cicalecci, improvvisi richiami e melodie inaspettate da un ramo nascosto”. L’ornitologia di Pietro è talmente raffinata da mettersi in competizione con quella, proverbiale, dell’amato (ma non venerato) Giovanni Pascoli. Il filtro letterario, per quell’uomo così sensibile e in tutti i sensi delicato che era Pietro, non era un gioco, uno schermo manieristico e quello che tutto sommato poteva diventare il riparo di uno stile da amministrare. La lingua artificiale della tradizione, per lui, era il centro della sensibilità, l’espressione più diretta dell’autentico e della confessione. Quanto più il lavoro di lima era sottile e complesso, tanto più le parole davano forma all’anima intesa come pura capacità di attenzione e bisogno di amore».

Credo che esista davvero una leggerezza alata, aviforme, in quello che Emanuele Trevi coglie, nella poesia di Pietro Tripodo, come «il prodigio della manifestazione, del manifestarsi delle cose», che precede e accompagna l’antichissimo «lavoro di lima», sempre in rima con «rima», da Raimbaut d’Aurenga e Arnaut Daniel, lettori dell’ars poetica oraziana, fino alle petrose dantesche e a Franco Scataglini. Scataglini ha molto da spartire con Tripodo: il primo riscrisse à sa manière dal francese antico in anconetano il Roman de la Rose; il secondo dal francese al latino medioevale il Cemetière marin di Paul Valéry, e volse i trovatori occitanici in un italiano filtrato attraverso i moderni classici della nostra civiltà. Così come Paolo Canettieri ha offerto, di Scataglini, l’edizione critica di Tutte le poesie (Quodlibet, 2022), dobbiamo fare tutto il possibile perché sia pubblicata un’edizione scientificamente sorvegliata della poesia e della poesia-traduzione di Tripodo, senza dubbio, insieme a Scataglini, uno dei grandi poeti del secondo Novecento che stanno giungendo all’ora tòpica della (ri)scoperta del riconoscimento collettivo, ben oltre i confini dello specialismo.

L’epifania di quello che Trevi chiama «prodigio della manifestazione, del manifestarsi delle cose», è un «prodigio verbale, il ricongiungersi momentaneo di un’unità infranta, la cosa appartenendo al suo nome come il nome alla cosa». Raffaele Manica ha scritto parole altrettanto intense a proposito di Altre visioni e Vampe del tempo, editi insieme presso Donzelli nel 2007: «Lo schiudersi del senso delle cose avviene per vie impervie, per il tramite di una disciplina solitaria, cercando nei libri gli esempi del modo migliore di dire, e passeggiando nei dizionari come si passeggia in una città, nell’attesa che una parola inusitata aiuti a designare, finalmente con esattezza, quanto si era percepito. Perché poi tutto ciò che si è percepito non esiste finché non si sia trovato il modo esatto di dirlo».

Pietro scriveva e traduceva poesia passeggiando nella città delle parole, lui che «aveva abitato in via Merulana, come in una citazione», secondo la formula bellissima ideata ancora da Manica, il quale ha saputo carpire un segreto importante nell’ispirazione di Tripodo: «una delle calamite, uno dei canali della lingua di Pietro si trov[a] […] nella Cognizione del dolore, in uno dei suoi margini». Questo «margine» gaddiano, propone Manica con grande e rigorosa originalità, è Autunno, la poesia che chiude la Cognizione, il “libro della vita” di Tripodo: «Sono portato a credere che Autunno abbia molto lavorato in Pietro, e in vario modo; innanzitutto come un filtro verso la nostra tradizione; ma anche con la funzione di dirigere verso certe parole un nuovo senso». Soprattutto mi sembra straordinario che sia stata individuata con precisione filologica una sutura fra verso e nonverso, un campo di tensione fra poesia e prosa, così peculiarmente tripodiano.

Dai classici greci e latini alla Provenza a Trakl a George a Machado a Gadda, che voli stratosferici! Quello di Pietro Tripodo è il prodigio di una fisica ritmica e verbale transustanziata in metafisica di ritmo e di canto, con lungo e sudato lavorìo di ricerca. Prima che in Pascoli questo prodigio verbale sbocciò nei canzonieri-uccelliere dei trovatori provenzali, in Arnaut Daniel, il “suo” Arnaut, l’ultimo poeta con cui Pietro giocò e gareggiò. Proprio intorno a Arnaut ci incontrammo nell’Aula 2 della Facoltà di Lettere della “Sapienza”, dove ero appena approdato come relativamente giovincello Ordinario di Filologia romanza. Me lo presentarono Paolo Canettieri e Carlo Pulsoni, che di lui erano già interpreti sofisticati e amici affettuosi. Tenemmo un formidabile, indimenticato seminario su Arnaut, sul “suo” Arnaut, a partire dalla recentissima edizione (dicembre 1997) dei Canti di scherno e d’amore, introdotti da un magnifico saggio di Paolo Canettieri, che a me pare fra i più importanti studi sulla poetica di Arnaut e su quella di Tripodo: basti ricordare lo spoglio di parole rare, quali croia e andana, che riemergono in Vampe del tempo, in un intreccio dove non si sa più se il poeta preceda il traduttore, o il traduttore il poeta.

Carlo me lo ha ricordato pochi giorni fa. Doveva essere l’inizio di primavera del 1999: fu l’ultima “apparizione” in pubblico di Pietro, visto che il 4 maggio di quell’anno letteralmente “scomparve” agli occhi di noi, suoi ammiratori. Vedo ancora il suo sorriso, il suo entusiasmo, la sua felicità di poter cinguettare la lingua di Arnaut trasferita nella propria, facendola godere agli studenti, a noi tutti.

Rammento quell’artigianato di trapano, di bulino, intorno alle sillabe incastonate nel ritmo, che veniva a galla durante il seminario, valutando ogni singola scelta, ogni rispetto dell’originale “a calco”, ogni eco di ritmo, che prevale perfino sul significato. «Ovviamente, come scrittore, apparteneva alla famiglia nevrotica dei cesellatori mai contenti, dei kamikaze della variante, ma la cosa impressionante di Pietro, come avrei scoperto conoscendolo da subito abbastanza a fondo, era il fatto che tutto, nella vita, poneva crudeli tranelli alla sua irresoluzione e al suo senso di incapacità» (E. Trevi).

È anche la levitazione conquistata a fatica da Paul Valéry per il quale, come ricordava Italo Calvino nella lezione americana sulla Leggerezza, «il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume», giacché «la leggerezza» va associata (dice ancora Calvino) «con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso». Quel Valéry, non si dimentichi, il cui Cimetière marin Pietro Tripodo tradusse in latino (Sepulchra maris): e fu il suo esordio in veste di poeta-traduttore, un fare che si può mille volte rifare, una «poésie laborieuse», la quale (diceva Valéry) è solo un «état de travail qui peut presque toujours être repris et modifié». Questa genealogia importantissima, in cui «esattezza e rigore prevedono una disposizione all’inchiesta paziente e minuziosa», è stata ricordata dal migliore studioso di Pietro Tripodo traduttore di Arnaut Daniel dopo Paolo Canettieri, cioè Zeno Verlato («Semicerchio. Rivista di poesia comparata», LXII, 2020/1).

Arnaut Daniel «era molto abile nell’imitare gli uccelli, come nella poesia Autet, dove s’arresta in mezzo al suo canto e grida “Cadahus, en son us”, come griderebbe un uccello, e rima accortamente sul grido, senza spazio in cui poter giocare sulle parole: “Mas pel us, estauc clus”, e così negli altri versetti. E in L’aura amara egli canta come gli uccelli in autunno, e qualche altro effetto simile è nella sua miglior poesia, Doutz brais e critz». È questa la figura alata e canora, perfettamente estratta dai numerosi incipit stagionali della poesia trobadorica, con cui Ezra Pound nel 1909 apriva la vera e propria razo di un lungo saggio su Arnaut Daniel, che avrebbe riedito nel volume Instigations (1920).

Mettendo a confronto le versioni di Dous brais e critz di Fernando Bandini e di Pietro Tripodo, Zeno Verlato dimostra che per quest’ultimo la traduzione è una «assimilazione». Ed ecco perfettamente «assimilati» per il ritmo e per il lessico, nel passaggio dal provenzale all’italiano, i versi che colpivano Pound: «e no.i te mut bec ni guola / nuls auzels, ans brai e canta / quadaus / en son us», che in Tripodo diventa, con esatta traslazione: «e non tien muto becco né gola / alcun uccello anzi grida e canta / ciascuno / al suo uso». Qui risuona già la voliera festosa e cinguettante delle «poesie senza verso» di Vampe del tempo, scandite dalle cesure e dalle pause ritmiche: «Feste di rondini nelle mattine antiche dei cui deserti noi ci si stupisce […] Polverio dorato, e gelo d’acquasantiera; dalle vetrate corte, alte, strepere d’ali nella luce, breve; nevicare fioccoso piume rade». Questa è l’ornitologia lirica di Pietro Tripodo: le assonanze, le allitterazioni, le onomatopee, la voce originaria della poesia che batte nello «strepere lieve d’ali nella luce, breve». «Il ritmo di Pietro è nelle pause», dice Raffaele Manica. Proprio «strepere lieve d’ali nella luce, breve», per esempio. «Breve» sembra cadere nel bianco, dopo una pausa minima, una lievissima cesura: ma prima si è disteso, quasi inavvertito, un intero endecasillabo, che andava in cerca d’una cadenza musicale per chiudersi sporgendo oltre la misura.

«Tutta l’opera di Pietro si può tenere comodamente in una mano, peserà poco più di un etto». Un’idea stupenda, questa di Emanuele Trevi. Di Pietro Tripodo ognuno di noi conserva una fulgurazione, un’immagine tutta sua. Una tale varietà càpita raramente, richiede che si tratti di un’anima dai colori d’arcobaleno, colma di luci e d’ombre. Io, più che come un pugno di cento grammi scarsi di carta stampata, o uccellino smarrito o lievissima piuma, Pietro Tripodo me lo sono sempre figurato come un fragile, elegante treppiede, un trìpode, un trìpous (da trèis poùs, appunto «tre piedi»).

Il trìpode, dice l’Enciclopedia Treccani, «presso i Greci assunse forme svariatissime, di una bellezza costantemente perfetta e armoniosa». Ecco, per me Pietro Tripodo è sempre stato un trìpode armonioso, però sempre in bilico, scivolato via dalla sua natura sdrucciola e divenuto tripòde, quindi Tripòdo. Instabile, con tre piedi anziché due o quattro, quasi incarnasse per allegoria fin dal nome l’ultima tappa dell’antichissimo enigma che la Sfinge pose a Edipo. Lui che alla “terza età”, quella del bastone e quindi dei “tre piedi”, non ebbe il destino di giungere, lui, Tripodo, visse sempre sul bordo del ribaltamento, sempre in duello con la poesia «come esercizio di lingua e di pensiero in tensione verso l’esattezza» (a parlare è ancora Raffaele Manica).

È strano come, quando si lega, con gesto mentale quasi inconsapevole, il nome e il volto di qualcuno a un oggetto, si continui poi lungo gli anni a veder balzare fuori della mente quelle associazioni strambe, forse le prime che l’inconscio tratteggia. Quando leggo o sento pronunciare il nome “Tripodo”, la prima immagine che mi balena è quella del trìpode fumigante su cui s’inebria di futuro e di profezia la Pizia, la cui fine comicamente ingloriosa, un grottesco inabissamento insieme con il suo oracolo, narra in un geniale librino stracolmo di ironia Friedrich Dürrenmatt: «La stramba sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori». Alle cinque passate, invece di chiudere l’ufficio responsi fatali, la Pizia fa a Edipo «una profezia che più insensata e inverosimile non avrebbe potuto essere, la quale, pensò, non si sarebbe certamente mai avverata». Annoiata, stanca del suo ruolo profetico, la Pizia notò il pallore improvviso di Edipo, «pur assisa sul tripode e avvolta com’era da una nuvola di vapori, e pensò che dovesse trattarsi di un credulone straordinario». La Pizia non crede più nella propria natura: «anzi vaticinava in quel modo proprio per farsi beffe di coloro che credevano in lei, col risultato però di destare nei suoi devoti una fede assolutamente incondizionata». Assisa sul suo trìpode fumigante «la Pizia profetava a casaccio, vaticinava alla cieca».

Ecco, quel trìpode eternamente acceso fino all’ultimo guizzo, malfermo quanto pieno di grazia, inebriante con i suoi fumi come il destino della Pizia, mi ricorda il destino di Pietro Tripodo, trìpode trasformato in tripòde, da sdrucciolo a piano, poeta che fu tale in quanto traduttore e traduttore che fu tale in quanto poeta: fornace così ardente da fondere nell’oro i versi propri e altrui, prendendo alla lettera la metafora fabbrile dei trovatori, ma facendola vivere e vibrare rendendo naturale l’artificio.

Anzi, mi sono sempre domandato se già da bambino, quando scoprì il suono del nome scelto per lui dai genitori, non si stupisse di quel chiacchiericcio nascosto nelle sillabe, fra nome e cognome, un “tro-tri” che poteva anche sembrare un “chiù-chiù” da assiuolo pascoliano imposto per gioco da una fata durante il battesimo. Quel “tro-tri” di Pietro Tripòdo è di certo un segno fatale, una marcatura del destino. Ines Morisani mi ha raccontato l’incredibile storia dello zio, anche lui Pietro Tripodo (da cui scaturì quasi per obbligo il nome di Pietro il Poeta), a cui Giovanni Pascoli, quando insegnava a Messina, scriveva come a un «caro allievo». Quel nome, quel nodo pascoliano, dovettero impressionarlo, lasciar traccia nella sua vita di adolescente, quando studiava al Liceo Tasso italiano, latino e greco, e già si appassionava al Pascoli poeta bilingue. Sentite il suo cognome intenzionalmente annidato, sulle prime quasi invisibile, ma poi ribattuto con apofonia vocalica, nell’attacco della 27a vampa del tempo: «Lì dalle mie coltri odo il richiamo delle innocenti strigi; inerte è il pensarti, e penso che sognarti nulla muti fra me e te». Il “tro-tri” si nasconde nelle coltri, avvolto nelle quali Tripodo dice: odo le strigi. Poeti forse si nasce; prosatori-poeti di certo si diventa.

Le versioni di Pietro Tripodo sono non soltanto un trìpode ardente, un’officina da cui escono vampe, del tempo e del ritmo: ma un orticello, una piantagione di creatività linguistica e ritmica. La sua ricerca nelle fibre segrete della parola è insieme chirurgica e sognante, con una paradossale, rarissima congiunzione. Strappando «il proteiforme Arnaldo Daniello» dalla fama di poeta artificioso e sperimentalistico, fondata su una malintesa interpretazione del dantesco «miglior fabbro», come dimostra Paolo Canettieri, Pietro Tripodo riuscì a restituire respiro allo spirito di gioco e di sfida tra poesia e vita, che intride Arnaut, nell’atto stesso in cui lo trasferisce nella propria lingua, mimeticamente. Anzi, è la mimesi dell’evento folgorante in cui il poeta è “ispirato” a costituire il fulcro dell’altissima astrazione mentale ove tradurre significa comporre, poetare. Quell’equilibrio difficile che Paul Valéry definiva «hésitation prolongée entre le son et le sens» è raggiunto da Pietro Tripodo attraverso l’immersione totale nella tradizione della lingua poetica italiana, nella quale lascia risonare l’eco lunga del provenzale. Come in un caleidoscopio i cromatismi verbali si moltiplicano e si addensano, creano forme fantasmatiche, riportano alla vita lo spirito dell’originale e ne attualizzano molte potenzialità ancora inespresse.

Non so quanto Pietro abbia letto, studiato, amato Walter Benjamin. Era del 1948, aveva un paio d’anni più di me. E credo che, come me, possa aver incontrato Benjamin nella geniale raccolta curata per Einaudi da Renato Solmi nel 1962, quando entrambi, senza conoscerci, eravamo adolescenti. Mi piacerebbe poter dimostrare, un giorno, che così è stato. Nel Compito del traduttore, che Benjamin scrisse nel 1921, è contenuta una delle definizioni più tripodesche della forma-traduzione, che Pietro, trìpode sempre acceso, infiammato fino all’ultimo istante da un fuoco sacro come quello della Pizia, avrebbe di certo condiviso: «La traduzione è una forma. Per intenderla come tale, bisogna risalire all’originale. Poiché la legge della traduzione è racchiusa in esso, o nella sua stessa traducibilità. […] Se la traduzione è una forma, la traducibilità deve essere essenziale a certe opere. […] Essa è in intimo rapporto con l’originale in forza della sua traducibilità. […] Può essere definito naturale, o meglio ancora un rapporto di vita. Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede dall’originale, anche se non dalla sua vita quanto piuttosto dalla sua “sopravvivenza”».

Nella fiammata ininterrotta del trìpode la sopravvivenza dell’originale si radica nella sua perenne traducibilità, nel suo fumigare, nel suo pericolante dovere e potere sempre di nuovo essere scritto, riscritto, tradotto, ritradotto. L’allegoria dürrenmattiana dell’inabissamento della Pizia con il suo trìpode, che travolge con sé il passato, il presente e il futuro, mi sembra di poterla decrittare nella concorde evocazione del saggio di Giorgio Pasquali sull’Arte allusiva come ispiratore di Tripodo, compiuta da Emanuele Trevi e Raffaele Manica. Pasquali sottolineava, dice Trevi, come la lingua della poesia sia «un sistema solidale di echi, un gioco di ripetizioni e variazioni di vertiginosa e illuminante coerenza, capace di annullare le distanze di spazi e di tempi in una sorta di simultaneità magica e iniziatica. Le persone come Pietro non si lasciano ingannare da nessuna sirena, sanno che è necessario tenere in vita la fiamma senza chiedere nulla in cambio al futuro».

Scompare la Pizia, è scomparso Tripodo. Ma resta il fiammante trìpode/tripòde, a tenere in vita la fiamma della poesia e della traduzione, a continuare a fondere l’oro, l’aur della parola lirica, per raffinarlo, e insieme per afinar ed esmerar l’animo del poeta: appunto, con le parole di Benjamin e di Pasquali, far «sopravvivere» la fiamma, «tenerla in vita senza chiedere nulla in cambio al futuro».

corrado.bologna@sns.it

(relazione letta nel convegno Pietro Tripodo tra classicismo e modernità)

 

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.