Entrambi vorrebbero essere Muhammad Ali, perché il campione di Louisville è un totem della boxe, non il migliore, ma il pugile col quale chiunque identifica la boxe a prescindere dal tempo. Poi Joe Louis era più bello, Sonny Liston più feroce, Joe Frazier più duro, George Foreman picchiava più forte, e via così fino a Mike Tyson, ma Ali, come Maradona nel calcio, è quello che copre l’arco del sogno.

Per questo Tyson Fury e Oleksandr Usyk, che il 18 maggio si affronteranno per il campionato indiscusso dei pesi massimi alla Kingdom Arena di Riyadh in Arabia Saudita, lo evocano continuamente: per aggrapparsi alla coda della sua stella, cercando, invano, di farsi largo tra le numerose sigle che hanno spacchettato la boxe, aumentandone i campioni e disperdendone l’epica.

Un tempo il campione dei pesi massimi era come il presidente degli Stati Uniti, una istituzione, e ne seguivano fama, dollari, copertine, film, romanzi, e fiumi di giornali. O come diceva Bob Dylan: il campione dei pesi massimi era anche il maggior poeta dell’anno. Poi c’era poesia e poesia: quella di Ali era rap, quella di Joe Louis un Cantos poundiano, Frazier e Foreman erano molto ermetici, ma questo alternarsi di pugni, poesia e parole creava un mondo imprescindibile dal lustrascarpe a Norman Mailer, perché tutti riversavano sul ring quella possibilità di svolta che oggi viene riservata alle scommesse e alle lotterie.

La boxe riusciva ad essere mondana e selvaggia, portando a bordo ring Joseph Bonanno – capo di una delle Cinque Famiglie che controllano le attività della Mafia italo-americana a New York – e Fran Lebowitz o Spike Lee, e adesso si combatte in Arabia Saudita. In questo salto geografico c’è uno dei tanti motivi che hanno portato la boxe ad essere uno dei programmi del palinsesto notturno, sperperandone l’epicità. Poi come è accaduto per le corride si è anche creata una ipersensibilità che riguarda soprattutto chi non ha ben compreso la boxe, non si tratta di aver preso almeno un pugno in faccia una volta nella vita, ma di quel bisogno di avere un riassunto dell’esistenza, che un po’ si riscontra ancora nella MotoGp.

Chi sono

Se, però, guardiamo alle biografie dei due campioni che vorrebbero essere Muhammad Alì scopriamo schegge di storie da vecchia boxe: con dolori, droga, alcol, sofferenza, niccismo, guerra, riscatto. Il campione inglese dei pesi massimi WBC e lineal Tyson Fury sembra uscito da una puntata dei Peaky Blinders, ed ha effettivamente origini Gipsy, ha avuto problemi di peso (è arrivato a pesare 180 kg, perdendone 70 in un anno), droga (cocaina, facendone anche narrazione e identificandosi con Tony Montana, lo Scarface del film di Brian De Palma), alcol (ama il whisky ma come insegna Jake LaMotta non è amico della boxe) e anche di idee sul mondo (la fine è portata non dalle guerre ma dall’aborto, dalla pedofilia e dall’omosessualità, e non l’abbiamo frainteso), in confronto il generale Vannacci sembra Gore Vidal.

Il campione ucraino dei pesi massimi WBA (Super), IBF, WBO, IBO Oleksandr Usyk ha una tuta pulita e la guerra in casa: si allena sotto le bombe a Kiev e nel primo mese di guerra ha perso dieci chili, e anche se non smette di donare soldi per ricostruire le case in Ucraina, recuperando anche la palestra del suo amico Oleksiy Dzhunkivskyy, ucciso dai soldati russi, che insegnava ai bambini a fare boxe, nemmeno lui è nemmeno lontanamente comparabile a Muhammad Ali: anche se si allena indossando una maglietta col suo volto, e il suo programma di ricostruzione delle case ricorda quello di Ali contro gli sfratti delle famiglie nere, ma le coincidenze finiscono qua.

Insomma sia Fury che Usyk anelano quello che non saranno mai, potendo solo arrivare a condividere un titolo con “The Greatest”. E se dalle biografie arriviamo al ring scopriamo che Fury si allontana da Ali per il grasso e la stazza, 2.06 di altezza per 120 chili, che a tratti riesce anche a danzare ma non come una farfalla, anche se poi più che pungere come un’ape colpisce come un rinoceronte. Ha sia il destro che il sinistro e il suo jab è un ponte che si allunga sul ring, e una lunga strada conduce ai sogni l’avversario. E dietro questa buona tecnica c’è una ottima strategia, solo che non ha drammaticità, tradita dall’alimentazione, dal contesto e anche dal racconto.

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Fury è un pugile grande che pecca nello stile e nel dettaglio, per questo chi lo conosce parla almeno di due tre Fury, non sapendo mai quale sale sul ring. Usyk è più costante: un pugile che da dilettante è stato campione europeo, mondiale e campione olimpico e da professionista è imbattuto: ventuno incontri su ventuno. È mancino, ha 15 cm di altezza e venti chili in meno rispetto a Fury. La sua è una boxe pragmatica – la grande lezione olimpica o non professionistica – fatta di ottima tecnica, tiene il ritmo alto, è veloce e costante nell’attacco e sa regalarsi lunghe fasi difensive. Usyk ha fame e una migliore condizione atletica e anche un migliore rapporto col suo corpo. La vera grande differenza tra i due è che Fury sa cadere e rialzarsi, mentre Usyk ha il regolatore di frequenza dei colpi. Due vantaggi.

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Usyk sta nel canone Floyd Mayweather, l’ultimo dei belli, mentre Fury incarna un nuovo canone: i potenti incostanti. Per capire la trasformazione dobbiamo andare a venticinque anni fa, a Lennox Lewis l'ultimo campione del mondo indiscusso dei pesi massimi, dopo aver battuto Evander Holyfield nel 1999. I due incontri per assegnare il titolo si tennero al Madison Square Garden di New York e a Las Vegas, geografia e contesti differenti – potremmo dire che la perdita del primato degli Stati Uniti sia come ring che come pugili racconta anche l’avvento del nuovo mondo. Venticinque anni fa c’erano i ring americani e un pugile su due a giocarsi il titolo, anche se poi perse. Adesso abbiamo un britannico contro un ucraino in Arabia Saudita, e ciao Bob Dylan, ti saluto vecchia America.

Perché è questo il punto: Fury e Usyk sono il nuovo mondo, manco il nuovissimo che sta arrivando e magari sarà la boxe dei robot senza nessuno a buscarle e a sudare, disumanizzando il più umano degli sport. Loro hanno ancora il vecchio modello Muhammad Ali perché è quello che il mondo si aspetta da loro, come si aspetta dei round da Rocky Balboa, quindi una boxe di fiction che bordeggia la rissa, tutta sopraffazione e nessuna strategia.

E la testata del padre di Fury, John, a uno dello staff di Usyk, Stanislav Stepchuk, alla presentazione dell’incontro a Riyadh va in questa direzione, portando tutto a livello della strada. Ma Usyk che sa di avere dietro di sé le trincee ucraine, e sente di essere un simbolo – proprio mentre l’Ucraina vive il momento di maggiore flessione rispetto all’offensiva russa – ha smorzato i toni, riportando tutto nel linguaggio sportivo, a riprova che ha ancora schegge del vecchio Novecento pugilistico. Non si lascia distrarre, l’obiettivo è portate il titolo a Kiev, con tutto il carico che ne consegue. Fury, è diverso, il suo unico obiettivo sembrano essere i soldi oltre la gloria di dirsi – almeno per un anno – Campione indiscusso dei pesi massimi. Ma non basta una maglietta con la sua faccia o il titolo per essere Muhammad Ali, come non basta mescolare un Martini per veder apparire James Bond.

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