Le scelte da fare se l’Europa vuole farsi “impero” - la Repubblica

Economia

Le scelte da fare se l’Europa vuole farsi “impero”

Le scelte da fare se l’Europa vuole farsi “impero”
L’Ue è politicamente ancora lontana da scelte “attive” come quelle americane e sta ricadendo nel policy mix tradizionale: tassi alti, bilanci pubblici sotto stretto controllo, bassa crescita
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Fino alla seconda metà del 2022 l’Ue cresceva più degli Stati Uniti, aveva un livello di inflazione più basso e conti pubblici in ordine. Aveva gestito meglio la pandemia e l’uscita dalla stessa. Poi l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato il quadro. Gli Usa hanno saputo reagire a questo cambiamento, l’Europa no. Negli Usa i tassi sono saliti velocemente per contenere l’inflazione bellica, ma la domanda interna ha continuato a essere stimolata da un importante impulso fiscale (6% di deficit-Pil). Il Congresso ha approvato spesa pubblica per oltre 1,5 trilioni di dollari al fine di finanziare la transizione digitale ed ecologica, generando consumi e soprattutto stimolando investimenti in grado di preservare la leadership tecnologica in settori chiave. Allo stesso tempo, il Paese è impegnato nel gestire le crisi militari dall’Ucraina al Medioriente. L’effetto sull’economia è visibile in un tasso di crescita che continua a essere sostenuto nonostante i tassi di interesse elevati, e una inflazione che dunque fatica a scendere, a fronte di un debito pubblico in crescita. In questo contesto, la Fed ha da poco annunciato che, pur mantenendo i tassi ancora elevati, modificherà la sua politica monetaria, accettando di non normalizzare in tempi brevi gli eccessi di liquidità all’interno del sistema. Dunque un policy mix complessivo che assomiglia sempre più a quello di una economia di guerra.

La dieta da erbivori per l’Europa

L’Ue è politicamente ancora lontana da scelte così “attive” e dunque sta ricadendo fatalmente nel policy mix tradizionale: si alzano i tassi, si tengono sotto controllo i bilanci pubblici e si riduce la crescita in attesa che l’inflazione ritorni verso il mitologico obiettivo del 2%. Come se il mondo fosse destinato a breve a tornare in pace, noi di nuovo a comprare gas dalla Russia e a vendere auto ai cinesi. Per dirla con Gentiloni, l’Europa al momento ha scelto una dieta da erbivoro in una terra popolata da carnivori, esponendosi ad un rischio esistenziale. Si pone dunque il problema di quali scelte fare, e in che tempi, per cambiare la direzione economica e geo-politica del Vecchio Continente. Gli assi su cui agire sono sostanzialmente tre: quello energetico, per recuperare autonomia su input chiave per la nostra manifattura a condizioni competitive; quello dell’accesso al mercato, al fine di garantire domanda alle nostre produzioni, e dunque crescita; e quello della politica di sicurezza.

Sui primi due una parte delle scelte sono già in essere e hanno un nome ben preciso, ossia Green deal industrial policy. I Piani nazionali di ripresa e resilienza avevano già come obiettivo quello di destinare almeno il 35% delle risorse disponibili alla transizione climatica, e di fatto siamo ampiamente sopra questo livello. A ciò si è aggiunto RePower Eu, che mette a disposizione ulteriori risorse per accelerare la transizione energetica e l’indipendenza dai fossili. La nuova Renewable energy directive fissa al 42.5% il mix energetico da rinnovabili per l’Europa da qui al 2030. Se aggiungiamo l’attuale 30% da nucleare e idro-elettrico e il 10% da biomasse, otteniamo un’Europa sostanzialmente indipendente dal punto di vista energetico, a costi sempre più bassi, nei prossimi anni. Inoltre, il Green deal chiamerà cittadini e imprese a modificare gli stili di vita in chiave ecologica, dalle auto alle case ai processi produttivi. Questo implica maggiori consumi e investimenti di beni “verdi” e permette dunque di puntare sulla domanda interna per stimolare la crescita, piuttosto che sull’export.

La transazione verde diventa strategica

La transizione verde assume dunque per l’Europa una dimensione strategica, a prescindere dalla sua dimensione ecologica, ma evidentemente si pone il problema di come finanziarla. Il recente rapporto di Enrico Letta sembra suggerire, tra gli altri, tre ambiti: la rimozione degli ostacoli residui alla creazione del Mercato unico dei capitali, per offrire opportunità in chiave di investimenti su scala continentale a una parte degli oltre 30 trilioni di euro di liquidità nei conti correnti degli europei; l’armonizzazione delle politiche di investimento interessate dagli aiuti di Stato, che devono convergere su chiari e precisi “beni pubblici” europei anziché procedere in ordine sparso su singole iniziative nazionali; e la continuazione di un programma di spesa pubblica “green” finanziato dal rinnovo degli strumenti di debito comune, modello Next Generation Eu.

Resta infine la sicurezza. Una roadmap non c’è, nonostante il rischio che da novembre l’Europa si trovi molto più sola nel dover gestire la difesa dei propri confini. Eppure anche qui il problema non sembra essere quello di una mancanza di risorse. Mettendo insieme le dotazioni militari di Francia, Italia e Germania avremmo già oggi una dignitosa capacità di difesa marittima, aerea e terrestre, oltre che deterrenza nucleare. Ma al momento non esistono le regole di ingaggio, o le catene di comando, di un tale teorico esercito.

In sintesi, alla vigilia di un appuntamento elettorale tra i più importanti della sua storia, l’Europa avrebbe tutte le carte in regola per avviarsi a diventare “Impero”, al pari di altri grandi potenze mondiali. Ma non è ancora chiaro se e quando saprà trovare la strada politica per decidere di farlo.

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