L’odio, di Mathieu Kassovitz

Il cineasta muove la mdp con una fluidità sorprendente e realizza un film che analizza coraggiosamente la polveriera socioculturale delle periferie parigine. Miglior regia a Cannes nel 1995.

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Come trattare la violenza e i conflitti delle banlieue parigine senza scadere nel retorico? Mathieu Kassovitz parte da un dato documentaristico ovvero la morte nel 1993 negli uffici della polizia dello zairese Makomé M’ Bowole e i successivi scontri nelle periferie, per raccontare la storia di tre amici nell’arco di una giornata ad alta tensione, dalle 10:38 fino alle 6:01 del mattino dopo. L’ebreo Vinz (Vincent Cassel), il magrebino Saïd (Saïd Taghmaoui) e l’afro-francese Hubert (Hubert Koundé) sono tre ragazzi che passano il tempo tra la noia e la frustrazione per un sistema che tende ad emarginarli. Vinz è il più rabbioso e vorrebbe vendicare la morte di un giovane manifestante provocata da parte dei gendarmi parigini. Saïd ha un amico in polizia ed è più disposto al compromesso. Hubert è il più maturo dei tre e nonostante abbia subito un danno diretto (la sua palestra è stata bruciata) rimane convinto che non si debba rispondere all’odio con l’odio.

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Perché, per citare I magnifici sette di John Sturges, nella parabola dell’uomo che cade da un palazzo e che ad ogni piano dice “fin qui tutto bene”, ci sarà poi il momento tragico dell’atterraggio. Anche se il bianco e nero sembra dare un taglio realistico, Mathieu Kassovitz impone un ritmo forsennato alla narrazione portandola all’iperrealismo e in alcuni casi sconfinando nel grottesco.

Le influenze del cinema americano sono evidenti: sia la lezione di Scorsese (la citazione della scena allo specchio di Taxi Driver) che di Tarantino (i dialoghi prolungati all’infinito con effetto surreale, il finale che è ispirato da Le iene). Kassovitz inserisce però degli elementi di critica sociopolitica molto importanti: utilizza per i dialoghi il “verlan”, gergo parigino dei sobborghi; sottolinea la manipolazione delle notizie da parte dei mass media (i giornalisti che intervistano tenendosi a distanza di sicurezza), mostra la totale incomunicabilità tra ceto alto-borghese e sottoproletariato (l’irruzione dei tre amici alla festa radical chic per una mostra di arte contemporanea), enfatizza l’abuso di potere della polizia (la lezione delle tecniche di tortura ha suscitato forti polemiche tra le forze dell’ordine) e stressa il fattore economico che diventa perenne motivo di contrasto e alienazione (la roulette russa nella lussuosissima casa dello spacciatore Asterix omaggia Il cacciatore). Kassovitz muove poi la cinepresa con una fluidità sorprendente: fa dei lunghi piano sequenza, si inventa inseguimenti tachicardici con macchina in spalla, gira attorno ai personaggi donandoci una visuale a 360 gradi del loro misero mondo. Infine ci regala una ripresa impossibile dall’alto (la “flying camera”) che trasmette la vertigine di un universo che cerca ogni giorno di sopravvivere.

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Il dj Cut Killer mixa Je ne regrette rien, grande classico francese cantato da Édith Piaf, con Sound of da police di KRS One e Nique la police degli NTM: la combinazione della musica con la visione aerea fa scattare un effetto di depersonalizzazione. Come in un film di Buñuel compare improvvisamente una mucca che sembra essere vista dal solo Vincent Cassel. È inutile tentare di dare una motivazione razionale quando tutta la giornata si sta svolgendo in un trip psichedelico. In questo contesto non stona affatto la scena del bagno in cui i tre amici litigano su cosa fare per rivalersi sugli attacchi della polizia: all’improvviso spunta fuori un vecchiettino che racconta un aneddoto sul suo amico Grumwalski che muore nel freddo siberiano perché si allontana dagli altri per espletare i suoi bisogni corporali. L’atto individuale non porta alcun beneficio? Si muore quando si è isolati dal sistema? L’odio del singolo non ha alcun effetto sulla comunità ma si perde nella sua irrazionalità? Bisogna credere in Dio o è Dio che deve credere in noi? Ogni interpretazione è possibile ma l’effetto straniante della situazione è davvero riuscito. Certo, al momento di premere il grilletto della pistola puntata alla testa di un naziskin (interpretato dallo stesso Kassovitz), si intravede un piccolo residuo di umanità.

Premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1995, L’odio è una opera importante che analizza coraggiosamente la polveriera socioculturale delle periferie parigine evitando compromessi e strizzatine d’occhio allo spettatore. Mescola il grottesco con il tragico, la vita reale con i sogni di evasione di tre anime erranti. Ma non lascia alcuna via di fuga consolatoria. L’odio è un sentimento di ribellione che vorrebbe sovvertire l’ingiustizia dello stato delle cose. Ma proprio quando arriviamo a comprenderne l’inutilità allora subiamo gli effetti sulla nostra pelle. Fin qui tutto male. E Dio forse ha smesso di credere in noi.

 

Premio per la miglior regia al 48° Festival di Cannes

 

 

Titolo originale: La haine
Regia: Mathieu Kassovitz
Interpreti: Vincent Cassel, Saïd Taghmaoui, Hubert Koundé, Edouard Montoute, Vincent Lindon, Mathieu Kassovitz, Peter Kassovitz, Karim Belkhadra, Abdel Ahmed Ghili, Solo, Rywka Wajsbrot, François Levantal, Héloïse Rauth, Marc Duret, Choukri Gabteni, Fatou Thioune
Distribuzione: Cat People Distribuzione
Durata: 95′
Origine: Francia, 1995

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
Sending
Il voto dei lettori
3 (1 voto)
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