Mario Mori, tre processi in 22 anni: sempre assolto: «Supererò anche questa angheria» | Corriere.it

Mario Mori, tre processi in 22 anni: sempre assolto: «Supererò anche questa angheria»

diLara Sirignano

La prima accusa nel 2005: favoreggiamento alla mafia per non aver perquisito il covo di Riina. Ne è sempre uscito pulito. Le accuse e le imputazioni. Chi è l'ex comandante dei Ros, indagato per l'ennesima volta a 85 anni 

Stragi mafiose del 1993, indagato il generale Mario Mori: «Supererò quest’ennesima angheria»

Il generale Mario Mori (Ansa)

L’ultimo avviso di garanzia gliel’hanno mandato dalla Procura di Firenze il giorno del suo 85esimo compleanno insieme all’invito a comparire per difendersi dalle accuse di strage, associazione mafiosa, associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico. L’interrogatorio era stato fissato per il 23 maggio, giorno del 32esimo anniversario della strage costata la vita al giudice Giovanni Falcone, il magistrato con cui per anni ha collaborato. Ma Mario Mori, ex comandante del Ros, ex direttore del Sisde, ha già fatto sapere che non potrà presentarsi per impegni del suo legale, l’avvocato Basilio Milio. 

«Supererò quest’ennesima angheria», commenta con una nota che ricorda la lunga serie di vicende giudiziarie che per 22 anni l’hanno impegnato nella veste di indagato e imputato. Tre processi, diversi capi di imputazione, la stessa tesi accusatoria - l’essersi accordato con la mafia per far cessare le stragi – e la medesima conclusione: l’assoluzione.

Sul banco degli imputati per la prima volta Mario Mori, nome in codice Unico, salì nel 2005. La Procura di Palermo, obbligata dal gip a formulare l’imputazione dopo una richiesta di archiviazione, gli contestava il favoreggiamento aggravato alla mafia. La vicenda ruotava attorno alla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, lasciato incustodito dopo l’arresto del capo dei capi per 18 giorni, il tempo utile ai «picciotti» per ripulirlo. Con Mori finì sotto processo Sergio De Caprio, conosciuto come «il capitano Ultimo», l’uomo che strinse le manette ai polsi del boss stragista il 15 gennaio del 1993. Ritardando la perquisizione e consentendo ai mafiosi di portar via i tesori e i documenti segreti del capomafia, i due carabinieri, secondo l’accusa, avrebbero favorito Cosa nostra. Ma al termine del processo l’accusa invocò la prescrizione per un capo di imputazione e l'assoluzione per l’altro sostenendo che non vi fosse prova che gli imputati volessero agevolare le cosche. «La loro condotta è stata dettata dalla ragione di Stato e non altro», sostennero gli stessi pubblici ministeri. La storia si chiuse nel 2006 con l’assoluzione di entrambi i militari, mai appellata dalla Procura.

Poi ci fu la vicenda del mancato blitz di Mezzojuso col quale, il 31 ottobre del 1995, a parere degli inquirenti, si sarebbe potuto arrestare Bernardo Provenzano. L’operazione non scattò e il boss fu fatto scappare, secondo i magistrati, perché Mori doveva onorare il patto siglato nel '92 tra pezzi dello Stato e la mafia in cambio della fine delle stragi. Tra i principali accusatori del generale, processato col colonnello Mauro Obinu, c’era Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo. Un millantatore, un teste inattendibile, lo definì Mori, ancora una volta imputato di favoreggiamento aggravato.

Condivisero l’opinione i giudici palermitani che assolsero entrambi gli imputati e trasmisero gli atti alla Procura perché valutasse le dichiarazioni rese dal figlio di don Vito nella testimonianza al processo. Tradotto: gli stessi pm che l'avevano considerato teste attendibile, dovevano accertare se Ciancimino avesse mentito o calunniato gli imputati. Il verdetto assolutorio, poi confermato fino in Cassazione, avrebbe dovuto costituire una pesante ipoteca per il terzo dibattimento a carico del generale coinvolto nello storico processo sulla cosiddetta trattativa, il presunto patto che lo Stato, attraverso Mori e il suo vice, Giuseppe De Donno, avrebbe stretto con i boss negli anni delle bombe mafiose. 

Ma la Procura di Palermo della sentenza non tenne alcun conto e contro l’ufficiale ipotizzò il reato di minaccia a corpo politico dello Stato. In sintesi, secondo l’accusa, il Ros avrebbe intavolato un dialogo con le cosche tramite don Vito Ciancimino allo scopo di far cessare le stragi. Fatto peraltro ammesso dagli stessi ufficiali. Ma in questo modo avrebbe di fatto rafforzato il proposito stragista di Cosa nostra finendo per rafforzare la mafia e indurla a pensare che lo Stato, pronto ad ascoltare le sue istanze, stesse per capitolare. In primo grado Mori venne condannato a 12 anni. In appello e poi in Cassazione la sentenza fu ribaltata. Ed entrambi gli ufficiali vennero assolti.

La trattativa ci fu, conclusero i giudici, e fu una «improvvida iniziativa», ma non si può configurare come un reato. E l'unica finalità dei carabinieri era quella di fermare le stragi «insinuandosi in una spaccatura» all'interno di Cosa nostra. Facendo leva su tensioni e contrasti, si cercava insomma
di dialogare con Bernardo Provenzano per colpire meglio l'ala
stragista di Toto' Riina. La Suprema Corte ci mise il suggello. E il caso, almeno quello giudiziario, si chiuse.
Ma la partita di Mori con la giustizia è ancora aperta, come dimostra l’ultimo atto della Procura di Firenze.

21 maggio 2024 ( modifica il 21 maggio 2024 | 18:20)