Marco Brogi - Un Femminicidio "Ante Litteram" - Il Caso della Poetessa Isabella Di Morra

di Marco Brogi

Nel tentativo forse patologico di donare - parafrasando Alvaro Mutis - una goccia di splendore alla morte di persone e personaggi di varia umanità che per qualche motivo lasciano un segno nella mia parte più interna, un po’ di anni fa mi imbattei nella storia di Isabella di Morra, poeta del ‘500 uccisa a 26 anni dai fratelli per una sua presunta relazione con il poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro, a cui toccò la stessa sorte. 


Isabella nasce nel 1520 a Favale (oggi Valsinni, in provincia di Matera) in una famiglia nobile. Figlia del barone Giovanni Michele di Morra, esiliato in Francia, viveva con la madre e i sette fratelli in un castello a picco sul fiume Siri (oggi Sinni). 

Quel castello lontano da tutto e da tutti e ancora in piedi divenne prima la sua prigione, poi il luogo della sua morte, quando i sei fratelli maschi, che la tenevano in gabbia come un uccello, scoperta la sua corrispondenza epistolare con il poeta spagnolo ferirono mortalmente il suo giovane corpo, il suo desiderio di emancipazione e di autodeterminazione, il suo sogno di comunicare con il mondo attraverso la poesia. 

Un femminicidio ante litteram annunciato da Isabella di Morra in versi che seguono lo schema del sonetto petrarchesco, ma si distinguono dalle liriche al femminile della sua epoca per il vissuto di cui sono imbevute, rivelando una “notevole originalità e carica drammatica” (1). 


Isabella ci ha lasciato solto tredici poesie: dieci sonetti e tre canzoni, sufficienti però a raccontare la sua tragedia umana, la sua esistenza soggiogata dalla violenza psicologica e fisica dei fratelli. 

In quel castello-prigione la poetessa scriveva e consegnava al futuro la sua autobiografia poetica, confidando al fiume la sua solitudine 



fiorita etade secca ed oscura, solitaria ed erma,  la sua tristezza per quei fratelli da cui < non son per ignoranza intesa / i’ son, lassa, ripresa>, l’odio per il “denigrato sito”, le sue tristi premonizioni: “miserando fine ””

.

Vi propongo due poesie emblematiche, a mio avviso, della figura e del sentire di Isabella di Morra, diventata dopo secoli di oblio uno dei simboli dei diritti delle donne in un tempo in cui, come ha scritto Alessio Lega, che alla poetessa lucana ha dedicato una splendida canzone, “essere donna resta un affare pericoloso”.

«Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fin amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al Padre caro,
se mai qui ’l torna il suo destino acerbo.

Dilli come, morendo, disacerbo
l’aspra Fortuna e lo mio fato avaro
e, con esempio miserando e raro,
nome infelice a le tue onde serbo.

Tosto ch’ei giunga a la sassosa riva
(a che pensar m’adduci, o fiera stella,
come d’ogni mio ben son cassa e priva!),

inqueta l’onde con crudel procella
e di’: – Me accreber sì, mentre fu viva,
no gli occhi no, ma i fiumi d’Isabella».

Fortuna che sollevi in alto stato
gni depresso ingegno, ogni vil core,
or fai che ’l mio in lagrime e ’n dolore
viva più che altro afflitto e sconsolato…

Son donna, e contra de le donne dico
che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,
ogni ben nato cor hai per nemico.

E spesso grido col mio rozo inchiostro
che chi vuole esser tuo più caro amico
sia degli uomini orrendo e raro mostro». (2)



 Qualche anno fa, come mi capita spesso quando una storia mi entra dentro, avevo provato a buttar giù dei versi intorno alla figura di Isabella

Mi era uscito solo un frammento: “Ogni assenza un verso”. La poesia, insomma, è rimasta incompiuta. E forse è gusto così. A una vita incompiuta non può che corrispondere una poesia incompiuta.





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(1) Giacinto Spagnoletti Otto secoli di poesia italiana da S. Francesco d'Assisi a Pasolini Roma, Newton, 1993

(2) Isabella di Morra, Rime, a cura di Gianni Antonio Palumbo Bari, Stilo Editrice, 2019.


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