Parthenope, Paolo Sorrentino perde la sincerità di È stata la mano di Dio e la forza della Grande Bellezza - Il Fatto Quotidiano

Cinema

Parthenope, Paolo Sorrentino perde la sincerità di È stata la mano di Dio e la forza della Grande Bellezza

di Anna Maria Pasetti

“La Bellezza è come la guerra, spalanca le porte”. Non ha dubbi il pensoso personaggio interpretato da Gary Oldman quando si trova al cospetto di una giovane donna talmente bella da sconvolgere l’anima e annientare la coscienza, in altre parole da sfiorare la divinità. È Parthenope, nata dalle acque della città di cui porta il nome e l’essenza, “questa città indefinibile, Napoli, che ammalia, incanta, urla ride e poi sa farti male”: la culla natìa tanto magnifica quanto tragica che Paolo Sorrentino così ama descrivere.

Controcampo del precedente È stata la mano di Dio con cui costituisce un ideale dittico quale “omaggio napoletano”, Parthenope è l’unico film italiano in concorso alla 77ma edizione del Festival di Cannes. Con al centro la vita della protagonista – la prima donna nella filmografia sorrentiniana dopo una lunga carrellata di figure maschili – inquadrata dalla nascita nel 1950 fino al 2023, Parthenope (film e personaggio) insegue il respiro epico di un’esistenza passionale e sfuggente dentro e contro la Storia, nella imperturbabile ricerca della libertà, ma soprattutto nella perpetua quest di domande giuste e risposte pronte quale sintomo di un’intelligenza ribelle e mai sazia.

Studentessa brillante di Antropologia presso il lapidario prof Silvio Orlando, la ragazza interpretata dall’esordiente Celeste Dalla Porta porta con sé il dono e l’arma della seduzione irresistibile a chiunque, un fardello che però comporta solitudine, dolore, anche un pizzico di perfidia. In un mondo di concittadini restituiti come individui crepuscolari, autoriferiti, inermi e dediti al culto dei fantasmi, a sopravvivere è solo chi è dotato di ironia, qualità che pure salva Parthenope nel suo viaggio dal paradiso di Capri agli inferi della miseria dei vicoli, tra i misteri dei cavoni e gli amplessi dei camorristi.

Ma è chiaro che emergendo dalla sua penna e dal suo sguardo, quella creata e diretta da Sorrentino non può essere una donna qualunque: trattasi infatti di un’allegoria della città che le è consustanziale, quasi come il sangue di San Gennaro, fra il sacro e l’assai profano. Ed è qui, in questa ostinata volontà di eccedere nell’innalzamento dello sguardo dentro al simbolico, che il regista partenopeo s’inceppa, perdendo specie nella prima mezz’ora di film quella fluidità di scrittura e regia che solitamente lo distinguono. Per quanto infatti attinga al proprio tesoro immaginifico, soprattutto del citato È stata la mano di Dio (di cui sembra costituire il “ritorno” dopo l’”andata”) ma anche inequivocabilmente a La Grande Bellezza, Youth e The Young Pope, così come alla Roma di Fellini di cui sembra la flebile risposta titolatile “Napoli di Sorrentino”, di tutti questi Parthenope appare come la copia derivativa, appesantita da non poca autoindulgenza, arrovellata su se stessa nel suo altalenarsi tra istanti sublimi, non di rado conturbanti e disturbanti (Sorrentino resta comunque un eccelso metteur en scène) e cadute iper-estetizzanti.

Mancano insomma tanto la sincerità emotiva dell’autobiografico sulla propria infanzia e adolescenza È stata la mano di Dio, quanto la forza prorompente de La Grande Bellezza pur con i suoi “tipi” eccentrici e caricaturali che sbeffeggiano intellettuali, borghesi e miliardari. Napoli, bellissima e maledetta, generosa e cinica, così come la sinuosa e altera Celeste / Parthenope non bastano dunque all’ultimo premio Oscar italiano per edificare un potenziale ed ennesimo sontuoso affresco corale dove, tra gli altri e ancora non citati, recitano Isabella Ferrari, Biagio Izzo, Luisa Ranieri e Stefania Sandrelli. Co-produzione italo-francese, Parthenope verrà prossimamente distribuito nelle sale italiane dalla neonata PiperFilm.

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