Sergio Rubini: “Con Dr. Jekyll mi affaccio sugli abissi dell’anima” - la Repubblica

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Sergio Rubini: “Con Dr. Jekyll mi affaccio sugli abissi dell’anima”

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L’attore al Teatro Bellini di Napoli porta la sua rilettura del celebre personaggio di Stevenson

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Come in una vera crime story, promette paura, suspence, sangue gelato. “Ma non il terrore che provai bambino, nel ‘69, davanti al Jekyll tv, con quei raccapriccianti occhi bianchi di Giorgio Albertazzi quando diventava il belluino Mr.Hyde”, ricorda Sergio Rubini divagando sul ‘suo’ Il caso Jekyll, dal 14 al 26 al Teatro Bellini di Napoli che lo produce: la sua più recente, originale e, in questo caso tutta in chiave psicanalitica, rilettura teatrale, da un’opera letteraria dopo Dracula, Delitto e castigo.

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Il punto di partenza qui è il celeberrimo racconto di Stevenson del 1886 sul medico che sperimenta su di sé una cura per il disturbo mentale e finisce per creare un ‘doppio’ malvagio, una storia che tutti conoscono, come Amleto, e che nell’immaginario della gente fa il paio con l’orrore-attrazione per le creature mostruose. “Noi siamo andati da un’altra parte, verso la psicanalisi e l’esplorazione delle zone oscure dell’animo umano”, spiega Rubini, regista, coautore con Carla Cavalluzzi dell’adattamento e interprete nel ruolo del narratore, mentre lo straripante, ‘doppio’ protagonista, Jekyll-Hyde, è Daniele Russo. “Abbiamo spostato in avanti di oltre vent’anni la vicenda, più vicina ai primi approdi scientifici di Freud e poi di Jung e la creatura mostruosa non è il ‘doppio’ che scaturisce da una pozione, classico escamotage della novellistica ottocentesca, ma è ‘l’ombra nera’ che alberga dentro di noi, quel lato oscuro con cui, come diceva Jung, ogni uomo deve fare i conti, una porta pericolosa dentro il nostro animo, che tuttavia, talvolta, bisogna aprire. E che nel nostro spettacolo condurrà a una sorpresa finale, di cui non dirò nulla perché la suspence è una parte importante”.

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Oltre settanta film da attore, e forse è un primato a 64 anni, quattordici da regista (l’ultimo I fratelli De Filippo era proprio bello), con la libertà “dell’intruso del teatro” – e la frase è sua - Rubini ha fatto un serio lavoro di riduzione e ricucitura del testo di Stevenson: ha aggiunto il personaggio della moglie di Jekyll, ha voluto, nel suo stile antirealista, una installazione di Gregorio Botta intorno a cui creare suggestioni anche spaziali (“i trucchi e gli infingimenti, le falsificazioni del teatro non mi sono mai piaciuti, preferisco un oggetto d'arte in scena come questo, che io da regista devo saper rendere teatrale”), e ha immaginato il medico e il mostro come due immagini della stessa persona: “Hyde è un Jekyll denudato: calvo, non bello, non amato, si modifica quando si veste da Jekyll che ha bella capigliatura, è alto… come se scoprendosi Hyde, si volesse travestire da qualcosa per accettarsi. A chi piacerebbe andare in giro mostrando la propria nudità, nudità non del corpo ma dell’anima? Hyde è la parte più vera dell’essere umano, forse non la più simpatica, la parte meno bella, oscura. Ma Jekyll fa un'operazione sana, perché individuare la propria ombra e dialogarci è ciò che va fatto. In quella parte oscura dove c’è ciò che non amiamo di noi stessi, in fondo, c’è anche la spinta verso la nostra creatività. L’errore di Jekyll è di varcare quella soglia solo: senza l’aiuto di un analista, ci si può fare male”.

Sergio Rubini ci ha mai fatto i conti? “Io? Io sono in analisi da più di un ventennio, e francamente penso che un artista debba affacciarsi sull'abisso dell’anima se vuole saperla raccontare. E’ la malattia dell’artista, se vuole. Se poi mi fa la domanda: lei si è mai affacciato? Be’ dovrei dirle che mi auguro di sì. Mi auguro di non aver avuto timore di farlo”.

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Da poche settimane Rubini ha terminato le riprese di una miniserie tv su Giacomo Leopardi su cui è impegnato da tre anni e che si potrebbe già vedere nei palinsesti Rai dal prossimo autunno. “Venticinque anni fa con Domenico Starnone avevamo già provato a fare una cosa simile, ci tennero in ballo a lungo, per poi non farne niente. Grazie al cielo le cose sono cambiate e con Angelo Pasquini e Carla Cavallucci siamo riusciti a scrivere questa nuova sceneggiatura che ha convinto tutti e di cui siamo chiaramente orgogliosi e spaventati perché il nostro Leopardi dovrà affrontare il grande pubblico televisivo. Però in questo momento in cui sento la Rai sotto attacco, se sia ancora o no un servizio pubblico… bè io credo che come nel caso della nostra produzione, la Rai abbia fatto un servizio pubblico. Dirò di più: un po’ di sano populismo culturale non mi dispiace. Voglio dire il fatto che un'azienda di Stato provi a fare cultura è una cosa che va sostenuta, e forse anche noi artisti dovremmo essere più fieri di lavorare in Rai piuttosto che per piattaforme straniere. E’ così spudorato, se la nostra storia la raccontiamo noi?”.

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