BIENNALE ARTE 2024 | La pittura riconquista la Biennale - Il Giornale dell'Arte

Mahku - Movimento dos Artistas Huni Kuin (padiglione centrale ai giardini)

Foto Matteo de Mayda. Cortesia di La Biennale di Venezia

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Mahku - Movimento dos Artistas Huni Kuin (padiglione centrale ai giardini)

Foto Matteo de Mayda. Cortesia di La Biennale di Venezia

BIENNALE ARTE 2024 | La pittura riconquista la Biennale

Il curatore Adriano Pedrosa apre le porte a una moltitudine di outsider, migranti ed esuli in patria. Il Sud del mondo porta a Venezia un’esplosione di segni e colori e svela i molteplici volti di un «continente dell’arte» sommerso e sospeso tra storia e presente

«Stranieri Ovunque», ma di casa a Venezia. La 60ma edizione dell’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, aperta tra i Giardini e l’Arsenale fino al 24 novembre e già visitatissima, è esattamente come il suo curatore, il brasiliano Adriano Pedrosa, che l’ha concepita. La celebrazione dell’artista queer, del migrante, dell’outsider, dell’indigeno, per usare le sue categorie, provenienti dal Sud del mondo. Guardando all’America Latina, all’Africa, all’Oceania, all’Oriente Medio ed Estremo e, per una volta, lasciando da parte l’arte occidentale, ridotta ai minimi termini. 

Una mostra dichiaratamente risarcitoria, dunque, nei confronti di questa tipologia di artisti, quasi tutti, viventi e no, mai presentati alla Biennale, così come lo era stata due anni fa «Il latte dei sogni», la Biennale di Cecilia Alemani, in quel caso nei confronti delle artiste. «Spesso i curatori della Biennale Arte, ha dichiarato Pedrosa, scelgono titoli molto inclusivi, che permettono loro una selezione molto ampia, ma nel mio caso non è così. Mi interessava una visione dell’arte contemporanea basata su questa tipologia di artisti e non mi sono posto il problema se sia quella in questo momento dominante oppure no. Tra due anni un altro curatore potrà fare, se crederà, una Biennale completamente diversa». Ed eccoci allora di fronte a una mostra coloratissima. Dove la pittura predomina, spesso con la figurazione animistica tipica di tanta arte indigena, amazzonica, africana od oceanica che sia. E, insieme a essa, spicca l’arte tessile, con un occhio attento alla dimensione dell’alto artigianato, spesso collettivo. 

Yinka Shonibare e, in alto, Claire Fontaine (Corderie all’Arsenale). Foto Marco Zorzanello. Cortesia di La Biennale di Venezia

C’è anche il minimalismo animistico

La frase del titolo della mostra, «Stranieri Ovunque», appunto, tratta dal lavoro del duo artistico Claire Fontaine, presente sia nel Padiglione Centrale dei Giardini sia all’Arsenale, con le sue installazioni luminose al neon, è dunque il passepartout per ciò che si vede in questa rassegna che Pedrosa ha diviso draconianamente in due filoni. Artisti del Nucleo Storico, riferiti soprattutto al secolo scorso, e del Nucleo Contemporaneo. 

Una linea chiara fin dalle due grandi installazioni che segnano l’ingresso del Padiglione dei Giardini e delle Corderie dell’Arsenale. Da una parte il grande e variopinto murale del collettivo brasiliano Mahku (Movimento dos Artistas Huni Kuin) che raffigura, immerso nella vegetazione tropicale, il ponte-alligatore, simbolo del mito del passaggio dal continente asiatico a quello americano. E dall’altra, invece, la monumentale installazione di cinghie sospese che paiono raggi di luce nella penombra, che è valso il Leone d’Oro per il Miglior Artista della Mostra al collettivo Maori Mataaho, neozelandese, che l’ha realizzata. Nella sezione dei Giardini, dopo una nuova versione dell’installazione «Exile is a Hard Job», dedicata alla condizione dell’immigrato e opera dell’artista turca Nil Yalter, premiata con il Leone d’Oro alla carriera insieme all’italo-brasiliana Anna Maria Maiolino (entrambe mai selezionate prima per la Biennale), presente in mostra con una delle sue grandi installazioni in argilla, si accede al primo dei Nuclei Storici che Pedrosa ha voluto per la sua esposizione: quello dedicato alle «Astrazioni». 

Qui sono riunite opere di artisti sudamericani, africani e asiatici che hanno concepito questa espressione artistica diversamente rispetto alle geometrie dell’Occidente, ricorrendo a forme più organiche e colori più brillanti. Come nell’astrazione potente e sfumata della palestinese Samia Halaby, premiata dalla giuria della Mostra con una menzione. O nell’evocativo «muro» tessile della colombiana Olga de Amaral, che utilizza il tessuto come una scultura. Al centro della sala, la «foresta» di coloratissimi bambù della brasiliana Ione Saldanha, quasi un anello di congiunzione rispetto alla policromia delle tele che la circondano. Lungo il percorso anche interventi più politici, come l’ampia sezione fotografica dedicata alle immagini storiche della pesante colonizzazione di Puerto Rico da parte degli Stati Uniti o l’installazione video di Alessandra Ferrini, che ricostruisce polemicamente l’incontro tra Berlusconi e Gheddafi a Roma nel 2009 per la firma del trattato di amicizia italo-libica. Ma è soprattutto la pittura la protagonista di buona parte del Padiglione Centrale con i grandi, impalpabili dipinti minimalisti della cinese Evelyn Taocheng Wang, che tradiscono la sua fascinazione per le opere di Agnes Martin, a fianco delle terrecotte incise di Nedda Guidi. O con gli ipnotici monocromi grigi della filippina Maria Taniguchi. È una forma di minimalismo pittorico anche quello dell’inglese Romany Eveleigh, con i dipinti con inchiostro per stampante solcati da una miriade di minuscole «o». 

L’altra faccia pittorica della mostra è invece quella di una figurazione vivace e popolaresca di artisti haitiani come Philomé Obin e suo fratello Sénèque (altro tema toccato da Pedrosa, quello delle parentele artistiche). O quella animistica, con le sue figure che paiono simboli di Joseca Mokahesi Yanomami, della tribù amazzonica degli Yanomami. I nudi storici di Filippo de Pisis vengono messi curiosamente a confronto con quelli contemporanei che mostrano la vita quotidiana queer dello statunitense Louis Fratino. E sorprende una visionaria artista britannica del secolo scorso come Madge Gill con il suo monumentale murale figurativo a inchiostri colorati su calicò, popolato da minuscoli volti femminili, che ha le sembianze di una virtuosistica e maniacale allucinazione visiva, in una sorta di apparente sintonia con i dipinti multicolori del colombiano Aycoobo (Wilson Rodríguez), quasi un calendario figurato delle foreste amazzoniche. Spazio in mostra anche per la grande figurazione del «non colore» di un’artista mestrina trasferitasi in Francia come Giulia Andreani.

Nil Yalter (Padiglione centrale ai Giardini). Foto Matteo de Mayda. Cortesia di La Biennale di Venezia

Gli artisti ci guardano

Uno degli assi portanti di «Stranieri Ovunque» ai Giardini è un altro dei Nuclei di Storici voluti da Pedrosa, quello dei «Ritratti» realizzati nel XX secolo da artisti del Sud del mondo e perlopiù sconosciuti al grande pubblico. Uno dei grandi meriti di questa esposizione è infatti sicuramente la possibilità di entrare in contatto con un universo artistico portato per la prima volta alla luce in Occidente. Ci sono, ad esempio, Diego Rivera e Frida Kahlo con un bel ritratto cubista del 1915 e con un autoritratto di Frida, in cui lo stesso Rivera compare inscritto nella sua mente come un’ossessione. Ma più interessanti sono i ritratti di «sconosciuti», come quello, magnifico, di uno dei maggiori pittori modernisti algerini come Mohammed Issiakhem, «Femme et Mur», che raffigura un’altera donna algerina vestita nei suoi abiti tradizionali su un grande sfondo murale. Ma colpiscono anche le opere di artisti espressionisti come l’autodidatta indonesiano Affandi, che ricordano quelle di un grande pittore tedesco naturalizzato britannico come Frank Auerbach. Od opere di brillante realismo pittorico come quella di Lai Foong Moi, di Singapore.

Disobedience Archive - Marco Scotini (Corderie all’Arsenale). Foto Marco Zorzanello. Cortesia di La Biennale di Venezia

Il festival della Fiber art

La sezione della mostra che è invece allestita all’Arsenale segue la stessa impostazione ma accentua, anche per i diversi spazi, la presenza di installazioni e di grandi opere di Fiber art, accanto alla pittura e alla fotografia. Qui i colori sono più vivaci e anche l’arte indigena acquisisce ancora maggiore forza. Così la grande installazione di ringhiere metalliche dell’angolano Kiluanji Kia Henda introduce alle sue spalle quella tessile, sospesa nelle tonalità del giallo e dell’arancio, fatta di seta tinta con rammendi dalla palestinese Dana Awartani. E uno dei vertici dell’arte tessile della mostra è rappresentato sicuramente dalle grandi opere della libica Nour Jaouda, arazzi materici e tenebrosi frutto di una sapiente stratificazione di tessuti. Ma anche qui c’è spazio per un minimalismo di grande qualità, come quello dell’artista e poetessa visiva austriaca Greta Schödl, con una scrittura fine e minuta che si stende regolare sulla tela come sugli oggetti di marmo esposti, creando una sorta di vibrazione in chi guarda. Ma sono una sorpresa anche i grandi dipinti dalle calde tonalità e popolati di simboli dell’artista indigena americana Emmi Whitehorse o quelli della kenyota Agnès Waruguru, sospesi come lenzuoli nell’aria. 

Alle Corderie è presente anche un’altra delle sezioni storiche della mostra, quella dedicata agli artisti, soprattutto pittori, italiani di prima e seconda generazione emigrati all’estero, con i dipinti inscritti nei delicati supporti trasparenti di Lina Bo Bardi, architetta e artista che ha lasciato in Brasile un segno profondo. Dalla stessa Maiolino a Tina Modotti, da Eliseu Visconti a Cesare Ferro Milone, solo per citarne alcuni. Anch’essi, in buona parte, da riscoprire. E sempre all’Arsenale è anche Disobedience Archive, un progetto video di Marco Scotini, in questo caso centrato sulla diaspora e la disobbedienza di genere. È invece dedicata all’acqua la grande installazione centrale lungo il percorso del colombiano Daniel Otero Torres fatta di materiali raccolti localmente e riciclati, e dedicata all’impatto della crisi ambientale sulla vita degli emarginati colombiani. Riproduce l’architettura popolare a palafitte della comunità Emberà, lungo le rive del fiume Atrato, progettata per raccogliere l’acqua piovana e fornire agli abitanti acqua non inquinata. 

Proseguendo nel percorso della mostra, nell’area delle Artigliere, è impossibile non parlare di una delle opere più emozionanti dell’intera Biennale, quella dell’artista statunitense di origine cinese WangShui. Le grandi finestre dello spazio storico sono ricoperte da pannelli di alluminio che l’artista ha anodizzato e dipinto con immagini che scopriamo progressivamente alla vista, come se emergessero lentamente da un’altra realtà e che mettono in gioco la nostra percezione. Così come, nella stessa stanza, fa la scultura video multicanale assemblata con schermi Led intrecciati, che pulsa come fosse una creatura viva, attirandoci e disorientandoci allo stesso tempo. Altre linee espressive sono ad esempio quella della giovane artista di origine nigeriana Karimah Ashadu, premiata con il Leone d’Argento della Mostra per la migliore emergente, per il suo video «Machine Boys», dedicato ai giovani provenienti dal Nord agrario della Nigeria emigrati a Lagos e finiti a bordo di mototaxi illegali, ritratti nella denuncia con una forma di sottile sensualità. Non tutto, naturalmente, nella Mostra di Pedrosa, è dello stesso livello e forte affiora anche un certo senso di ripetitività nei binari molto precisi in cui si è scelto di muoversi. Ma è certamente di grande interesse il fatto che ciò che si vede qui a Venezia rappresenta spesso una piacevole sorpresa.

Anna Maria Maiolino (Arsenale). Foto Marco Zorzanello. Cortesia di La Biennale di Venezia

Enrico Tantucci, 06 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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