Napoli, 2 gennaio 1960, la Nazionale di calcio batte la Svizzera 3 a 0. Gianni Minà è al suo primo vero articolo. Nella sala stampa dello stadio, tutta fumo di sigarette, casino e battutacce, lima fino allo sfinimento il suo pezzo. Troppo. Ci tiene a fare bella figura col direttore di Tuttosport, Antonio Ghirelli. Squilla il telefono. «Pronto, sei Minà?». «Sì». «Senti, sono Ghirelli. Volevo capire dalla tua voce se tu sei uno stronzo o un egoista, perché se sei uno stronzo, be’, non ci servi, non ci serve chi mette in crisi la macchina del giornale perché non capisce i tempi e non rispetta le consegne; se invece sei un egoista devi andare affanculo» – foto | video
NELL’ARCHIVIO DIGITALE – «A ripensarci quasi mi vengono le lacrime, ero all’esordio, avevo vent’anni, e fino ad allora il mio direttore mi aveva parlato sempre dolcemente», ha scritto Gianni Minà nella prima testimonianza che la moglie Loredana Macchietti ha voluto mettere nell’archivio digitale che gli ha dedicato a un anno dalla sua scomparsa (giannimina.it). «La dolcezza, il rispetto, la volontà di non aggredire mai i personaggi che intervistava sono stati la cifra stilistica di mio marito», racconta Loredana, madre di due delle sue tre figlie e complice di tante avventure professionali. «Pensare che in famiglia era anche feroce, esigeva rigore su tutto, era impegnativo. Ma invece di lanciarci i piatti, noi due quando litigavamo ci lanciavamo le poesie. Arrivava un momento in cui mi lasciava un foglio sul cuscino, sempre con una poesia di Pablo Neruda, e io capivo che era il segnale di pace. Me ne ha regalata una anche pochi giorni prima di andarsene».
Gianni Minà, addio al grande giornalista: aveva 84 anni, lo ha tradito il cuore – guarda
Qual era? «Amore mio, se muoio e tu non muori, non concediamo ulteriore spazio al dolore: non c’è immensità che valga quanto abbiamo vissuto».
Come è iniziato il vostro lungo viaggio insieme? «Venivo dal mondo del sociale. Mi trovai ad aiutarlo come dattilografa per un libro sulla boxe, nostra comune passione».
Bizzarro: due persone miti appassionate di uno sport che, per quanto i francesi chiamino “la noble art”, è pur sempre fatto anche di sangue, violenza. «Attenzione: come assistente sociale frequentavo Primavalle, le periferie dove una palestra di boxe è luogo di riscatto, rispetto, dignità. I pugni li prendi con regole precise. Questo è l’aspetto del pugilato che affascinava entrambi».
Chi tra i due fece il primo passo e trasformò la collaborazione in storia d’amore? «C’è voluto un sacco di tempo. Avevamo caratteri simili, testardi, ispidi. Mi sono innamorata di Gianni perché era quel che vedevi, non c’erano inganni, non tradiva mai la sua essenza e da donna capii subito che questa cosa era rara e preziosa. A dirla tutta, il primo passo credo di averlo fatto io. Dopodiché, nel 1994, lui mi chiese di sposarlo, e io gli risposi che non era questa la mia ambizione. Sono una donna molto indipendente, lo sono rimasta sempre, anche quando ho iniziato a fare la produttrice esecutiva, la regista, l’editrice. Ma quello stesso anno ci sposammo, anche se Fidel si stupì molto».
Gianni Minà, l’intervista a Paolo Rossi: “Da quando fulmine di guerra?” – guarda
Fidel nel senso di Castro? «Sì, proprio lui, Fidel Castro. Io e Gianni andavamo a Cuba dalle quattro alle sei volte l’anno, avevamo anche l’impegno di gestire la rassegna annuale di cinema italiano al Festival Internacional del Nuevo Cine Latinoamericano. Quando Castro seppe che ci eravamo sposati, mi chiese: “Ma perché lo hai fatto? Lui è brutto. Potresti divorziare, metterti con un uomo cubano”».
Che cosa gli rispose? «Gli dissi scherzando che il divorzio in Italia era complicato e lui volle sapere tutto sulla nostra legge in merito. Era un uomo curiosissimo. Pensi che una volta gli portai una copia di Latinoamerica, la rivista che Gianni dirigeva con Alessandra Riccio, e subito lui, soppesando una pagina,mi disse: “Ah, questa carta viene dalla Cecoslovacchia”».
Sa che il giornalista Valerio Riva definì polemicamente una delle quattro interviste di suo marito a Castro, “la più lunga in ginocchio”? Accusavano Minà di non essere obiettivo. «Conservo ancora le lettere di fuoco che mio marito spedì a Castro nel 2003, quando fece giustiziare tre uomini che avevano dirottato una nave per andare negli Stati Uniti. Girò anche interviste a 35 dissidenti cubani, che nessuno però volle mandare in onda. Mi rasserena sapere che metterò tutto nell’archivio, è il motivo per cui non mi sono abbandonata al lutto in gramaglie. So che un pezzettino di lui, della sua onestà intellettuale, arriverà a chiunque».
Su Raiplay si può vedere Cercatore di storie, un’antologia del percorso professionale di Gianni Minà. A un certo punto, si fa riferimento a Natural Born Killer, un film del regista americano premio Oscar Oliver Stone. In una scena, qualcuno chiede: “Come si chiama quel giornalista italiano che ha intervistato Fidel Castro?”. Gli rispondono: “Minà, si chiama Gianni Minà”. Ma nella versione italiana hanno tagliato questo passaggio. «Gianni a un certo punto ha avuto anche difficoltà a lavorare, lo sanno tutti. Ci pativo più io di lui, soffrivo molto per un’ingiustizia che mi macerava dentro. Ma lui non era mai asservito al potere e si proiettava sempre sul futuro, scherzava: “Loredana, dobbiamo proporre un format, perché tanto quando muoio te lo fanno fà”. Ebbe un grandissimo successo con i dvd della storia di Maradona allegati alla Gazzetta dello Sport».
Gianni Minà e la storica intervista a Diego Armando Maradona – guarda
Lui e Maradona divennero amici. «Diego si fidava di Gianni, che pure non gli ha lesinato critiche quando secondo lui le meritava. Maradona era sicuro che Gianni non avrebbe mai tradito la verità. Ricorda il contenzioso con il fisco italiano? Su tutti i giornali finì la storia dell’orecchino con diamanti che gli fu sequestrato appena mise piede in Italia per un’intervista. Lei ha mai visto pubblicata con la stessa enfasi la notizia dell’assoluzione di Maradona da parte della Corte di Cassazione? Gianni era sicuro della sua innocenza, perché aveva studiato gli atti. Si figuri che la Guardia di Finanza era venuta persino a casa nostra per cercare il contratto dell’intervista che Diego rilasciò a mio marito, ma non esisteva nessun contratto, lui con Gianni ha sempre parlato solo in amicizia».
In compenso a casa vostra c’erano spesso personaggi che hanno fatto la storia della politica, della letteratura, del cinema. «Lula, l’attuale presidente del Brasile, mentre io preparavo da mangiare, faceva da babysitter alle nostre bimbe. Gianni lo conobbe che era ancora un metalmeccanico, tramite un postino toscano, Antonio Vermigli, in contatto con lui perché ogni anno partiva per fare volontariato in quel Paese».
C’era anche Robert De Niro, un timido come suo marito. «Lo sanno in pochi, ma Bob parla italiano, e con Gianni lo ha sempre fatto. Ogni volta che veniva a Roma, voleva incontrarlo e lasciava sulla segreteria telefonica messaggi in un buffo italiano-molisano».
Suo marito è riuscito persino ad andare sul set di C’era una volta in America di Sergio Leone, realizzando il sogno di ogni cinefilo. «Sì, proprio lì si sente che De Niro di primo acchito risponde in italiano a Gianni. La loro amicizia era molto riservata, ci sono cose che mio marito non divulgava come giornalista. Andò su quel set perché era amico anche di Sergio Leone e più o meno in quel periodo si realizzò la famosa cena al ristorante con lui, De Niro, Mohammad Alì e Gabriel García Márquez, immortalata da una fotografia che in effetti emoziona tanto. Gianni doveva vedersi solo con Mohammad Alì, ma gli altri lo vennero a sapere e lo chiamarono: “Vogliamo esserci anche noi”».
Voi però non avete mai fatto vita mondana. «No, mai. Stavamo a casa nostra, Gianni si considerava un gitano sedentario».
Gianni Minà, la camera ardente è una sfilata di volti noti – guarda
Che insieme a “boxeur latino”, la definizione che gli regalò Paolo Conte, è una meravigliosa descrizione. «Quella di Conte nacque in seguito a un mio regalo. Mio marito mi donava sempre la stessa cosa: orchidee bianche. Una volta provai a dirgli di cambiare, me le comprò rosa. Io invece un giorno gli presi un cd di Paolo Conte e glielo spedii ad Asti chiedendogli di autografarlo per Gianni. Mi tornò indietro con la frase: “Al boxeur latino”. Mio marito s’innamorò talmente tanto di quella definizione che la usò come titolo della sua autobiografia».
È vissuto circondato da donne, con tre figlie. Che tipo di padre era? «A Marianna (avuta dalla prima moglie Georgina Garcia Menocal, ndr), che oggi vive a Città del Messico, è riuscito a trasmettere anche il suo tifo sportivo, si sono sempre fatti lunghe telefonate in cui parlavano di calcio, delle partite del loro amato Toro. A Francesca e Paola si rivolgeva come fossero due adulte, fin da quando entravano nel suo studio con il ciuccio».
Gitano sedentario, boxuer latino…Ma la sua definizione di Gianni Minà invece qual è? «Penso sia stato una bella persona».
Giovanna Fumarola
Oggi ©RIPRODUZIONE RISERVATA