“Il viaggio”, un racconto di - IL PENSIERO MEDITERRANEO

IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Il viaggio”, un racconto di

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quattro amici al bar

di Vincenzo Fiaschitello

Una tranquilla sera di primavera quattro amici inseparabili seduti al bar discutevano sul loro prossimo viaggio in Africa.

Si erano rivolti a una agenzia di viaggi d’avventura, perché la loro meta era la Tunisia, la terra che ha il capo nel mediterraneo e i piedi nel deserto del Sahara. Ed era proprio quest’ultimo territorio che essi desideravano esplorare. L’agenzia avrebbe pensato a fornire una esperta guida e tutto ciò che potesse servire per quella esperienza che presagivano indimenticabile: mezzi di trasporto, viveri, tappe prestabilite.

L’agenzia, però, aveva comunicato che ancora non riusciva a chiudere l’operazione, perché mancava l’ultima prenotazione. Infatti il viaggio era programmato per otto persone, più la guida. E fino a quel momento erano in sette, i quattro amici e tre di un’altra città, un giovane e due ragazze.

“Purtroppo il nostro amico Alessandro preferisce i suoi studi e non ama l’avventura. Potrebbe essere lui a far parte del nostro viaggio, ma si rifiuta”, così diceva Mario uno dei quattro giovani.

“Lasciate fare a me, disse Francesco, domani andrò a trovare l’intellettuale a casa sua e proverò con gli argomenti giusti a convincerlo”.

Il giorno dopo, infatti, Francesco si presentò di buon mattino a casa di Alessandro. Bevvero un buon caffè e cominciarono a chiacchierare.

“Sai, c’è una bella ragazza bionda di Parma che vorrebbe fare la tua conoscenza”.

“E tu come fai a conoscerla? Chi è?”

A questo punto Francesco dovette lavorare di fantasia e gli spiegò che, sì, la ragazza lui non la conosceva, ma l’agenzia che stava organizzando il loro viaggio in Tunisia gliene aveva parlato. Con lei viaggiavano anche due fidanzati. Era necessario che lui si decidesse al più presto, altrimenti l’unico posto disponibile rimasto poteva svanire da un momento all’altro. “E poi, continuò Francesco, tu ami molto le civiltà del passato, non puoi immaginare quanti reperti eccezionali da ammirare si trovano in Tunisia. Faremo un tour a bordo di due fuoristrada 4×4 comodi e climatizzati, attraversando immense dune di sabbia, piste pietrose, palmeti e incontrando carovane di beduini con greggi di dromedari e di capre”.

Alessandro ascoltava l’amico e crollava la testa. Poi d’un tratto disse: “E’ proprio bionda? Come si chiama?”

“Sì, così mi ha detto l’agente! Si chiama Cristina…Cristina    Polari”.

“Va bene, verrò! Fatemi sapere quel che serve e l’itinerario completo”.

Partirono il 15 maggio con un volo diretto a Tezeur. La guida li attendeva all’aeroporto con due superbe jeep bianche: i quattro amici si sistemarono sulla prima vettura con la guida e gli altri quattro sulla seconda. Naturalmente Alessandro, che già da qualche ora aveva familiarizzato con Cristina, era seduto accanto a lei e si scambiavano le loro impressioni alla vista di paesaggi, fino ad allora conosciuti solo attraverso le immagini pubblicitarie.

L’itinerario comprendeva la visita della zona attorno al Lago salato Chott el-Jédey e a sud Deuz, nota come la porta del deserto. Da lì in avanti l’avventura si faceva rischiosa: il deserto si estendeva come un oceano immenso con le dune di sabbia finissima. Quando si fermavano, scendevano dalle vetture e, come bambini impazziti, si rotolavano sulle dune gridando e ridendo.

Le tappe erano ben fissate nel programma di viaggio: a volte mangiavano in tende apparse all’improvviso dietro una duna, a volte in modeste case di piccoli villaggi, dove si fermavano a dormire. Spesso, nelle oasi dove i palmeti dall’alto sembravano tappeti che ricoprivano un pezzo di deserto e tutto intorno, a perdita d’occhio, l’oro della sabbia, si saziavano di datteri enormi, morbidi e dolcissimi, molto diversi da quelli cui erano abituati a mangiare in Italia.

Di solito, in ogni villaggio, si trovava un mercato, un suk più o meno ricco di mercanzie, e là facevano i loro acquisti, i souvenirs da portare a casa.

Volarono i giorni previsti dal contratto di viaggio.

Sulla via del ritorno, la guida propose di fare una breve sosta in una piccola oasi, fuori dall’itinerario, dove viveva un suo amico tunisino con la famiglia. Sarebbe stato felice di rivederlo e avrebbe offerto a tutti una buona tazza di tè.

Giunsero verso le prime ore del mattino, quando il sole era ancora clemente. Un palmeto, alcune tende e due o tre case attorno, erano tutto ciò che interrompeva l’immensa distesa di dune di sabbia.

Videro la guida che salutava calorosamente il suo amico, che gli era andato incontro.

Alessandro aveva poggiato i suoi occhiali e il suo Rolex sul cofano della macchina e con la poca acqua rimasta nella borraccia si rinfrescava il viso e i polsi. All’improvviso una specie di piccolo uomo-scimmia con una agilità straordinaria balzò sul cofano, afferrò l’orologio e in pochi istanti sparì in mezzo al palmeto.

La guida e il suo amico avevano visto da lontano la scena e si avvicinarono. L’uomo, per nulla preoccupato, gli spiegò che quello era l’ultimo suo “figliolo”, che spesso si divertiva a fare questi scherzi. Non c’era da allarmarsi, perché di lì a poco sarebbe ritornato e avrebbe riportato quel che aveva preso. Alessandro cercò di spiegare che si trattava di un Rolex molto costoso a cui teneva tanto.

Entrarono nella sua casa per riposarsi e già la sua donna mesceva il tè in piccole tazze graziosamente dipinte.

L’amico della guida cominciò a raccontare di quello strano ragazzo:

“Qualche anno fa, è passata una carovana di beduini. Uno di loro aveva con sé una sorta di gabbia e dentro era chiuso un essere simile a un fanciullo, ma dall’aspetto di una scimmia: non parlava, digrignava continuamente i denti, le unghie delle mani e dei piedi lunghissime, lunghi i capelli che gli scendevano fin sulle spalle, sempre piegato sulle gambe, non resisteva molto nella posizione eretta. Chiesi al carovaniere se voleva cedermelo e quello fu felice di liberarsene per un sacco di datteri. Prima di andarsene mi disse che lo aveva trovato e catturato ai margini dei boschi di Ain Draham, sulle montagne del nord, e di stare attento perché era abituato a mordere”.

Quella descrizione fece venire in mente ad Alessandro i vari casi dei cosiddetti bambini-lupo di cui di tanto in tanto le cronache dei giornali riportano notizie, ma soprattutto il caso di Victor, il famoso fanciullo selvaggio dell’Aveyron, in Francia. Nel ‘700, nonostante il clima di ottimismo illuministico, di fiducia nella ragione e nella capacità degli uomini di istruire e diffondere il sapere a tutti, studiosi di grande fama come Jean M. Gaspar Itard e Edouard Séguin dovettero arrendersi dinanzi alla impossibilità di educare il fanciullo ritrovato nei boschi.

Come poteva un uomo semplice, analfabeta, senza strumenti adeguati, pensare di poter recuperare un bambino con l’intelligenza, il linguaggio, il pensiero, gravemente compromessi da anni vissuti lontano dalla società umana?

Ma non si poteva più aspettare. La guida li sollecitava perché ancora la strada era lunga per raggiungere l’aeroporto di Tezeur-Nefta. L’amico della guida si scusava, ma era sicuro che avrebbe recuperato il prezioso orologio e prometteva che l’avrebbe portato personalmente fino all’aeroporto.

Le cose andarono diversamente. Prima di giungere a Nefta, una pattuglia della polizia fermò il convoglio. Controllarono i loro documenti e ispezionarono i bagagli. Nello zaino di Alessandro trovarono la tavoletta d’argilla che aveva acquistato da un mercante del suk. La rigirarono tra le mani, poi quello che sembrava il capo d’un tratto divenne sgarbato, quasi violento. Volle sapere chi era il proprietario dello zaino e senza che nemmeno la guida potesse dire qualcosa in sua difesa, Alessandro fu spinto entro la camionetta e partirono sollevando una nuvola di sabbia.

Dopo qualche chilometro fermarono la camionetta e si diressero verso una roccia ai fianchi di una collinetta.

Lo calarono in una specie di pozzo profondo scavato nella sabbia. Braccia nervose lo afferrarono e guidato come un cieco, poiché i suoi occhi abbacinati dal sole non erano ancora pronti a quella oscurità, lungo un cunicolo che via via si andava allargando. A destra e a sinistra porte serrate da grossi catenacci. Ne aprirono una e lo chiusero dentro senza dire una parola. Alessandro sentì lo sferragliare del catenaccio e poi tutto cadde nel silenzio più ovattato.

Passarono i primi minuti e Alessandro si guardò intorno. Ora cominciava a vedere qualcosa. La cella era spoglia, due tavolacci a castello fissati alla parete e un piccolo tavolo costituivano tutto l’arredamento. La luce, una debolissima luce,

proveniente dal corridoio, filtrava da sotto la porta. Dall’alto una piccolissima finestra, un buco dal quale non sarebbe passata nemmeno la testa di una persona, catturava la luce del sole.

Eccolo, solo, indifeso, impaurito, in un luogo in cui nessuno avrebbe pensato a una presenza umana. Quand’ecco ad accrescere il suo terrore, urla di dolore agghiaccianti, prolungate, lo spinsero a gettarsi in un angolo della cella e a tapparsi con le mani le orecchie.

Dopo qualche minuto provò ad alzarsi e a distendersi sul tavolaccio. Sentì che qualcuno apriva la porta. Entrò un uomo con il capo coperto e con una lunga veste bianca che posò sul tavolo una piccola brocca d’acqua, un po’ di pane e una tazza fumante.

“Tu mangiare! Domani tu parlare, sentito urla? Prigioniero cattivo, punito molto!”

Allora era vero che qualcuno era stato torturato? Alessandro non si era sbagliato! Cominciò a battere le mani sulla porta, gridava dicendo di voler parlare con il console italiano, con un avvocato, con i suoi amici. Che era tutto un equivoco, che lui era innocente, che non aveva commesso alcun reato.

Tutto inutile. Nessuno venne ad aprire e la sua voce poco per volta si andò spegnendo.

Seduto sul tavolaccio con il capo tra le mani, aveva voglia di piangere. Malediceva il momento in cui si era fatto convincere a partecipare a quel viaggio. Ma si accorse che questi pensieri certamente non lo avrebbero aiutato.

Disse a se stesso:” E’ bene che riprenda la mia lucidità. Proviamo a ragionare: io sto qui chiuso in una prigione. Sono accusato di una colpa che non ho commesso, non credo proprio che mi vorranno torturare per farmi ammettere che quella tavoletta l’ho strappata dalla parete di un tempio, o peggio non credo che mi vorranno uccidere. E se lo faranno? Chi mi verrà a cercare qui, sotto il deserto. In fondo qui è come se fossi  sepolto!”

Questi e altri pensieri tristissimi gli venivano alla mente. Una nausea lo aveva afferrato e gli impediva di mangiare quel cibo dentro la tazza. Bevve solo un po’ di acqua. Si ricordava stranamente di quelle pagine che Silvio Pellico aveva scritto ne “Le mie prigioni”, quando svegliandosi in cella per la prima volta, ebbe la certezza che tutto era vero e che non era affatto frutto di un incubo notturno. Stessa sensazione terribile anche per Alessandro. La sua prigionia era vera.

Valeva la pena, pertanto, cominciare a pensare che di lì a poco potesse sopraggiungere la morte, dopo un interrogatorio-tortura.

La morte! Fino a quel momento della sua vita non aveva mai avvertito una prossimità così ravvicinata con la morte. E’ vero che ciascuno di noi nasce condannato alla morte, ma non sapendo quando potrà giungere, finisce col non pensarci. Nella sua situazione, ora, Alessandro sentiva la morte come il fiato di una cane infuriato che sta alle calcagna di chi fugge terrorizzato.

“ Quel tizio che mi ha portato il cibo, mi ha fatto capire che subirò la stessa sorte del poveretto che urlava disperatamente, se domani non parlerò. Ma come posso giustificarmi? Che cosa posso dire di più di quel che ho già detto al momento in cui mi hanno arrestato? Tutta colpa di quel color ocra, di quei segni misteriosi che hanno attirato la mia attenzione. Quella tavoletta d’argilla se ne stava in un cantuccio, trascurata, in mezzo a vecchie mercanzie. E quando l’ho presa in mano per ammirarla, quel furbo mercante ha capito subito la mia debolezza e ha alzato il prezzo. Io l’ho comprata, credendo di non commettere alcun reato”.

“Uno scempio, un danno grave arrecato alla civiltà millenaria del nostro paese!”, si affrettarono a dire quei poliziotti.

“Ma se è così, sono pronto a restituirla, a perdere il mio denaro per l’incauto acquisto. Ma che c’entra la prigione, la tortura, la morte?”

E di nuovo rispuntava la morte!

Doveva prepararsi. Aveva carta e penna: per fortuna non gliele avevano sequestrate. Gli venivano alla mente le lettere che i condannati a morte scrivevano alle madri, alle mogli, ai figli. In quegli ultimi momenti frenavano la loro disperazione, la loro angoscia e trovavano le parole più commoventi per il loro addio. Ma mentre la loro morte, il più delle volte, era dovuta a nobili sentimenti, ai valori più apprezzati dalla società, alla difesa della libertà, la sua morte era legata a un misero evento commerciale, penoso se non meschino.

Ora era al culmine dello sconforto.

In quell’istante sentì sferragliare il catenaccio. Due uomini in divisa entrarono, lo sollevarono quasi di peso dal tavolaccio e lo spinsero fuori lungo il corridoio. Lo fecero entrare in una specie di ufficio, dove c’era una guardia con un berretto rosso. Accanto a lui riconobbe con gioia il volto dell’amico della guida.

“Ecco l’orologio che il mio figliolo ti ha portato via. Fuori in strada ci sono i tuoi amici che ti aspettano. Puoi uscire da qui, solo se paghi una forte multa. I tuoi amici mi hanno detto che non avete con voi che pochi spiccioli per le piccole spese. Ho pensato che potresti pagare cedendo il tuo Rolex. L’ho già mostrato al capo e lui è disposto ad accettarlo. Cosa dici? E’ meglio per tutti se accetti di barattare così la tua libertà”.

E sottovoce aggiunse: “Nelle prigioni della Tunisia non è ammessa la tortura. Se hai sentito urla di dolore, non erano vere. Erano registrate: lo fanno per intimorire i prigionieri e fiaccare la loro forza di resistenza!”

Il capo, come lo chiamava l’amico della guida, ridacchiava mostrando i suoi pochi denti gialli e batteva nervosamente le nocche delle dita della mano sulla sua scrivania, ingombra di carte.

Alessandro ebbe appena la forza di accennare di sì.

Quando i suoi amici lo videro uscire da una porticina scavata nella roccia, fecero un piccolo applauso. Cristina lo abbracciò e, ripresi i loro posti in macchina, si avviarono velocemente in direzione dell’aeroporto.

Lasciarono sulla loro sinistra il Lago salato, le strane forme scolpite dall’erosione, i villaggi biblici che si succedevano uno dopo l’altro, i canyon con le pareti dirupate, i carovanieri con i loro tagelmust di colore indaco con cui avvolgevano la testa.

Alessandro, stremato dalla avventura della prigionia di poche ore, non aveva voglia di parlare, né di guardare il panorama. Eppure gli sguardi dei suoi amici erano tutti puntati su un incredibile tramonto del sole all’orizzonte, che iniziava a nascondersi tra le lontane ondulate dune del deserto.

Cristina, vedendolo così giù di morale, gli parlava, lo confortava, lo distraeva con qualche battuta scherzosa.

“Quando valeva il tuo Rolex? gli domandò.

Alessandro la guardò e poi con un sorriso le disse: “Quasi niente, era falso!”

Vincenzo Fiaschitello è nato a Scicli nel1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Concorso Nazionale a 119 cattedre -D.M. 30 giugno 1969).  Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola alla Facoltà di Magistero Università di Roma. Direttore didattico dal 1974, preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

E’ autore di vari saggi sulla scuola, di opere di poesia e di narrativa.

E’ presente nel sito Poesie Report On Line e nell’Antologia R. Pasanisi (a cura di) “Le mattine sono ancorate come barche in rada”. La poesia italiana contemporanea, Edizioni dell’Istituto di cultura di Napoli, 2023

Attualmente è redattore della Rivista culturale telematica “Il Pensiero Mediterraneo” (Redazione di Roma).

Vincitore della XXXIX edizione (2023) del Premio dell’Istituto Italiano di Cultura di Napoli e della rivista internazionale “Nuove Lettere” per la raccolta edita di racconti “Ginevra, racconti storici e non”, Avola, Libreria Editrice Urso, 2021.

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana (2 giugno 1997).


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