Mancata liberazione di immobile promesso da usufrutto e mancata estinzione di procedura esecutiva: preliminare risolto e caparra - PuntodiDiritto

Mancata liberazione di immobile promesso da usufrutto e mancata estinzione di procedura esecutiva: preliminare risolto e caparra

Confermata la legittimità della decisione del merito che abbia pronunciato la risoluzione del contratto preliminare atteso che l’inadempimento della promittente venditrice discendeva dal fatto di non aver effettivamente garantito la piena e libera disponibilità dell’unità immobiliare, all’atto della stipula del rogito notarile, da pesi nonché dal diritto di usufrutto, secondo quanto previsto dalla clausola n. 3 dello stesso contratto.

Il mancato rispetto della clausola n. 8, la quale ha recepito esclusivamente la volontà delle parti in merito alla mancata eventuale estinzione della procedura esecutiva e regolamentato tale ipotesi prevedendo, peraltro, la facoltà, non l’obbligo, del promissario acquirente di addivenire comunque alla stipula del rogito limitatamente alla sola nuda proprietà e per il 50% dell’usufrutto, giustifica la decisione adottata di risoluzione con condanna alla restituzione della caparra ricevuta alla firma.

E’ quanto ha stabilito la Corte di cassazione, Sezione 2 Civile, con l’ordinanza del 8 maggio 2024, n. 12568, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato la decisione resa dalla Corte di Appello di Bologna con la sentenza n. 2714 del 2018.

La vicenda

Con atto di citazione ritualmente notificato Lucullo Giovenale ha convenuto in giudizio, presso il Tribunale di Piacenza, Mevia Bruto sulla premessa che tra le parti era stato concluso un contratto preliminare di vendita relativo a un immobile di proprietà della Bruto sito in Castell’Arquato.

Sulla base dell’inadempimento della promittente venditrice, consistito nel non aver proceduto all’eliminazione dell’usufrutto gravante sul bene, l’attore chiedeva che il Tribunale accertasse e dichiarasse il minor prezzo dell’unità immobiliare, il trasferimento di questo, ex art. 2932 cod. civ.; in subordine la restituzione del doppio della caparra versata, il risarcimento delle spese sostenute per costi di manutenzione e di ulteriori danni indicati in € 50.000,00.

Si costituiva la convenuta Mevia Bruto contestando ogni avversa domanda e, in via riconvenzionale, chiedeva che il giudice, preso atto della legittimità del recesso operato ex art. 1385 cod. civ., dichiarasse il suo diritto a trattenere la caparra ricevuta, condannando, altresì, l’attore ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.

In sede di comparsa conclusionale Lucullo Giovenale mutava la domanda di esecuzione specifica in quella di risoluzione del contratto preliminare per inadempimento della controparte.

All’esito dell’istruttoria, basata sulla documentazione prodotta, il Tribunale di Piacenza dichiarava la risoluzione dei contratto preliminare per l’inadempimento della convenuta, che condannava alla restituzione della caparra ricevuta e al pagamento delle spese di causa. A seguito di appello interposto dalla soccombente Bruto, la Corte di appello di Bologna con sentenza n. 2714 del 2018 ha rigettato l’impugnazione, condannando l’appellante al pagamento delle spese di lite.

La Bruto ha, quindi, proposto ricorso per cassazione della decisione d’appello, con atto affidato a due motivi.

I motivi di ricorso

Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto un error in procedendo, ex art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., con riferimento all’art. 112 cod. proc. civ. per essere incorsa la Corte d’appello nel vizio di omesso esame e conseguente omessa pronuncia, avendo limitato il proprio “apparato motivazionale” a scarni ed ellittici richiami per relationem della sentenza di prime cure, senza, di fatto, nulla argomentare in merito alle ragioni per cui, la clausola n. 8 del contratto preliminare, non consentirebbe di escludere l’asserita inadempienza contrattuale della Bruto, nonostante la facoltà prevista in favore di Giovenale di procedere comunque alla stipula del rogito notarile limitatamente alla sola nuda proprietà della predetta e del diritto di usufrutto, per il sol fatto che, nella specie, si tratterebbe di facoltà e non già di obbligo, omettendo di considerare, sia la prevista riduzione del prezzo che, in alternativa, la risoluzione consensuale del contratto, con le conseguenze contrattualmente regolamentate.

Il suddetto “apparato motivazionale”, dunque, si risolverebbe in una mera motivazione apparente.

Con il secondo motivo la ricorrente ha prospettato la violazione e falsa applicazione di legge, ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., con riferimento agli artt. 1362 e 1363 cod. civ. per essersi la corte territoriale sottratta all’obbligo di interpretare il contratto.

La decisione in sintesi

La Corte di cassazione, con la citata ordinanza n. 12568 del 2024, ha ritenuto i motivi inammissibili e ha rigettato il ricorso.

La motivazione

Sul punto il Collegio ha rilevato che in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non la ricostruzione della volontà delle parti – che costituisce un accertamento in fatto non consentito in sede di legittimità – ma soltanto l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati , al fine di verificare se sia incorso in errore di diritto o vizi del ragionamento (Corte di cassazione, Sez. 3, 14 novembre 2003, n. 17248).

L’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Corte di cassazione, Sez. 3, 10 maggio 2018, n. 11254).

Nel caso in esame, di tutta evidenza, non è stata dedotta la violazione delle regole di ermeneutica contrattuale ma è stata chiesta una diversa interpretazione del contratto basata su una lettura delle clausole del contratto preliminare che non coincide con quella fatta propria dal giudice di prime cure e condivisa in sede di gravame.

Difatti, la Corte d’appello, senza incorrere nei vizi denunciati, ha affermato che la clausola n. 8 recepisce esclusivamente la volontà delle parti in merito alla mancata eventuale estinzione della procedura esecutiva e regolamenta questa ipotesi prevedendo, peraltro, la facoltà, non l’obbligo, del promissario acquirente di addivenire comunque alla stipula del rogito limitatamente alla sola nuda proprietà e per il 50% dell’usufrutto.

Ha affermato inoltre, con logico e motivato apprezzamento, che l’inadempimento della promittente venditrice discende dal fatto di non aver effettivamente garantito la piena e libera disponibilità dell’unità immobiliare, all’atto della stipula del rogito notarile, da pesi nonché dal diritto di usufrutto, secondo quanto previsto dalla clausola n. 3.

Avv. Amilcare Mancusi

Ciao, sono un avvocato civilista, ideatore e curatore del sito Punto di Diritto. Sono custode e delegato alle vendite presso il Tribunale di Nocera Inferiore. Mi occupo di consulenza e assistenza legale in materia di esecuzioni immobiliari, problematiche condominiali (sono amministratore di diversi condomini), risarcimento danni, famiglia, successioni e volontaria giurisdizione, consulenza alle aziende. Nel tempo libero sono un runner amatore e leggo con piacere noir e gialli italiani o romanzi di grandi autori moderni.

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