di Massimo Palma

 

[È uscito in queste settimane Nelly Sachs, Negli appartamenti della morte, a cura di Matthias Weichelt, edizione italiana a cura di Anna Ruchat, Giuntina, Firenze 2024, euro 18].

 

I veri appartamenti

 

Nella sua ricezione non così vasta, Nelly Sachs figura spesso associata a Paul Celan. Separati da una generazione, i due condividono l’esilio, biografie travagliate, la rielaborazione poetica della Shoah, sofferenze psichiche sempre peggiori, una morte quasi simultanea (il 20 aprile del 1970 Celan, il 12 maggio Sachs). L’amicizia comincia nel 1954. Nell’epistolario celaniano è in una lettera del 2 maggio di quell’anno che compare per la prima volta della poetessa berlinese. Celan chiede che Papavero e memoria venga mandato a “Frau Nelly Sachs”, al “Prof. Albert Einstein” e al “Prof. Martin Buber”. Appena prima aveva chiesto di spedirne una copia in Belgio a Piet Tomissen, in qualità di recensore per la rivista “De Tafelronde” (non poteva sapere che Tomissen trent’anni dopo sarebbe stato l’editore di inediti e carteggi di Carl Schmitt)[i].

 

È in questa compagnia che appare Nelly Sachs: assieme al fisico geniale, al grande, proteiforme rappresentante dell’ebraismo novecentesco (onnipresente nelle Lettere dalla notte di Sachs, scritte in quegli anni), e a un allievo reticente di un giurista antisemita. Da quel momento il rapporto si sviluppò all’insegna di “dolore e consolazione”, come disse Celan delineando il “meridiano” che dalla sua Parigi conduceva alla Stoccolma dell’altra. Celan scorgeva in lei il senso di colpa del sopravvissuto, che tormentava anche lui: la ascoltò mentre gli spiegava che “ad Auschwitz non si soffrì quello che lei stava soffrendo”[ii]. All’inizio si confortarono, Sachs rivelò a Celan di sentire con lui la musica delle pietre – l’oggetto funerario ebraico per eccellenza e il significante più denso per il suo interlocutore, intrigato dalla geologia e dalla memoria del trauma, e figlio poetico di Sachs e del Coro delle pietre da cui la conobbe[iii]. Lei lo chiamava “caro poeta, caro essere umano Paul Celan”[iv]. Negli ultimi anni le malattie psichiche di entrambi si intrecciarono, portando a diffidenze: la scrittura di Celan verso di lei si fece troppo controllata, si inaridì[v]. Poi nel 1966 Sachs vinse il Nobel – l’incredibile ex aequo con Shemuel Agnon: invitò Celan alla cerimonia di consegna, ma Celan non andò con una scusa banale (“non è possibile realizzare il tuo desiderio, perché io, avendo protratto eccessivamente le vacanze lo scorso anno, non posso purtroppo chiedere dei giorni all’Ecole Normale”[vi]). Ma Sachs restò sorella, sorella ebrea[vii]. Quando la fine si avvicinava, Sachs ancora scriveva: “Paul, o caro, tanti auguri. Tutte le tue poesie sono con me, nel tempo del dolore”[viii].

 

Anche nella lunga, complicata storia di Paul Celan in Italia (narrata per filo e per segno da Dario Borso in un libro recente[ix]), i nomi di Celan e Sachs si sono incrociati subito. Ida Porena, già traduttrice di Trakl, provò nel 1965 la sua penna su alcuni componimenti del poeta bucovino (Ricordo della Francia, Tenebrae, Matière de Bretagne), proprio mentre stava per licenziare la prima traduzione italiana di Sachs (Al di là della polvere, Einaudi, 1966). L’anno prima Porena aveva accompagnato Celan alla necropoli di Cerveteri – non fu una gita come le altre: “Avevo la netta sensazione di camminare con un morto, con qualcuno che ‘ritornava’ nelle sue vere dimore, che ritrovava una strada ben nota”, raccontò molti anni dopo Porena[x].

Sono le dimore che da vent’anni costellavano l’immaginario poetico di Nelly Sachs, le “dimore della morte” del suo primo libro – come traduceva Porena.

 

Non si trattava in realtà di un’opera prima. Ma, stabilitasi a Stoccolma, in seguito alla guerra Sachs aveva disconosciuto tutta la sua opera precedente. Lo sterminio degli ebrei d’Europa la spingeva a modificare la sua scrittura: ora doveva raccontare la Shoah. È così che nasce Negli appartamenti della morte, la raccolta poetica apparsa inizialmente nella DDR (per Aufbau) nel 1947, nuovo esordio di un’autrice già cinquantaseienne, mosaico di quattro cicli (Il tuo corpo in fumo per l’aria, le Preghiere per il fidanzato morto, gli Epitaffi scritti nell’aria, infine i Cori dopo la mezzanotte), e per la prima volta oggi tradotta integralmente in Italia da Anna Ruchat[xi]. Nasce sotto l’immediata impressione di un genocidio cominciato con la deportazione, la sottrazione degli ebrei ai loro luoghi, a volte borghesi come quelli degli ebrei tedeschi da cui Sachs veniva: “dai loro ‘appartamenti’, infatti, furono portati via gli ebrei, con tutto ciò che questi appartamenti avevano di domestico, più o meno accogliente, più o meno confortevole». Per questo Wohnungen va reso col più ‘basso’ ma concreto “appartamenti”, piuttosto che con “dimore”, come specifica Anna Ruchat[xii].

 

L’infranto si ricompone

 

Esiste dunque Sachs prima di Celan. Celan è il poeta dell’occhio, della visione enhanced dal dolore, del vegliare come vegetare e poi come crescita[xiii]. “La lacrima, a metà, / la lente più acuta, mobile / ti afferra le immagini”, recita la fine di Un occhio, aperto, da Grata di parole, il libro che Sachs considererà un nuovo Zohar[xiv]. Sachs invece non ha immagini né di sogno né di veglia: piuttosto ascolta[xv]. Reagisce alla Shoah seguendo la via nella polvere. E trovandovi l’unione mistica con la materia, segnata da quel sentimento riesumato dall’uso romantico, la Sehnsucht (“Comincia l’ora della nostalgia di tutta la polvere / che la morte ha abbandonato”, Sul fare del giorno)[xvi]. La nostalgia per tutti quei corpi tradotti in aria spinge ad attraversare la polvere e a sentire le voci soppresse della storia: sono due volti della combinazione alchemica degli elementi che caratterizzano la nuova poetica. L’ultima parte del libro è una sequenza di cori: i viandanti e i salvati, gli alberi e le pietre, i morti e le stelle, sono altrettanti volti parlanti, “di vittime / che disegnano il dramma del vostro sangue sulla parete” (Coro delle ombre). In questa voce non c’è tratto che non sia rituale, non c’è abisso che non guardi ancora a un “bambino esultante”, o a “scale degli angeli” lasciate “germogliare come tralci in un’aiuola” (Coro delle pietre). Se in Celan – che proprio a questa poesia rispose con Qualunque pietra tu sollevi – ovunque è cesura, e quindi tratto di distanziamento, in Sachs la rievocazione e ripetizione della ferita avviene nell’immersione rituale nella formula iterata e variata.

 

E attorno allo shofàr il Tempio brucia

E un uomo suona –

E attorno allo shofàr il Tempio crolla –

E un uomo suona –

E attorno allo shofàr la cenere riposa –

E un uomo suona –

 

(C’era un uomo)

 

Il rito sortisce i suoi effetti[xvii]. A volte consola, reincanta. Nega la sosta nell’oscurità e la ricerca assoluta del trauma, ma non la visione del male all’interno di una tassonomia della storia più evocata che avvertita.

Se nell’Eternità di Celan i vasi si svuotano, “scucchiaiano minestre / in tutti i letti / e campi (Lager)”, lasciando l’immagine del vaso vuota, in Sachs l’allusione al tiqqun è tenace: “guardatevi/ dal buttare con rabbia una pietra – / la nostra stirpe è attraversata dal soffio divino. / Si è raggelata nel mistero / ma può svegliarsi con un bacio” (Coro delle pietre).

 

Le domande alla polvere

 

Eppure il più delle volte Sachs nelle immagini balbetta. Nei suoi appartamenti si accumulano tante esitazioni quanta è la polvere che i suoi versi estraggono. Nel Coro dei salvati a un certo punto si legge:

 

Non mostrateci ancora un cane che morde –

Potrebbe essere, potrebbe essere

Che ci dissolviamo in polvere –

Sotto i vostri occhi ci dissolviamo in polvere

 

Se la polvere, come la sabbia, è il sintomo verbale del caduco, nel segno grafico gli onnipresenti trattini spezzano la lettura, fanno ansimare la comprensione[xviii]. Ogni trattino è una domanda che cerca ricomposizione mentre la nega. Ogni pulviscolo è nostalgia di un intero, ma è anche la commemorazione del momento della ferita: “mio amato, quale sabbia / ha notizie del tuo sangue?” (Ho visto un punto dove c’era una stufa). La Sehnsucht vive della polvere: la dispersione, per quanto traumatica, è la convalida stessa della fiducia mistica, dove la disperazione si inverte in speranza (“Forse però Dio ha bisogno della nostalgia, / dove andrebbe a finire altrimenti”), ma dove vale anche l’inverso. Dove quindi la teologia della storia – ebraica o borghese – si scopre a zoppicare, dove la consolazione è prima della follia, e si svuota di senso e direzione: “già circondata dal braccio della consolazione celeste / la madre impazzita sta / con i brandelli del suo intelletto strappato / con le micce del suo intelletto bruciato” (Già circondata dal braccio…).

 

Il volume comprende quella porzione degli Epitaffi scritti nell’aria che fu possibile accogliere (altri che rimasero fuori[xix]). Tra questi spicca quello dedicato alla Pittrice, autobiografico, metapoetico, con un’immagine perturbante di capelli morti (anche per la simultaneità con la Fuga di morte celaniana).

 

Dipingo la sabbia che un tempo era carne –

o capelli dorati o capelli neri

o i baci o la tua mano adulatrice

sabbia dipingo, sabbia – sabbia – sabbia –

 

Senza canto

 

La ricomposizione di Sachs è senza canto. Sachs asciuga, rende puramente nominali le immagini, trabocca di referenti orridi. Anche se il bambino assassinato è la premessa alla “nostalgia di nuovi splendori” (Coro delle cose invisibili), il morto che parla cita “il coltello dell’addio”, rendendo continua l’immagine dello scannamento:

 

Da quel momento il coltello dell’addio mi tagliò

In due il boccone nella gola –

Venne fuori all’alba con il sole

 

(Parla un bambino morto)

 

Se la parola è offerta alle masse di dispersi, di scomparsi, i versi devono farsi espressione di una ricettività totale, dedita alla restituzione del dolore – di qui i sintomi di una tensione insostenibile[xx]. L’edizione di Ruchat traduce con una letteralità che suona correttamente disturbante. Per esempio nella lirica iniziale, Oh i camini: dove la prima strofa di Porena suonava: “Oh, i camini / sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo per l’aria –”, invece ora si legge: “Oh i camini/ sugli ingegnosamente progettati appartamenti della morte/ quando il corpo di Israele saliva in fumo / nell’aria –”. O il terribile Coro dei non nati (Porena traduceva ‘nascituri’, e cambia tutto), dove Ruchat sceglie una lingua secca, asciutta, amaramente fedele. I versi si distendono, si allargano senza inseguire una cantabilità. Puntano all’immagine.

 

Noi non nati

Già la nostalgia comincia a lavorare in noi

Le rive del sangue si allagano per riceverci

Come rugiada ci caliamo nell’amore

Ancora le ombre del tempo si allungano come domande

Sopra il nostro segreto

 

E “come farfalle” (il mirabile Schmetterlingsgleich tedesco) anticipa un “come voci di uccelli” subito abbassato dall’abissale “vendute alla terra”. Gli elementi (“se solo sapessi cosa dicono gli elementi”, La candela che ho acceso per te) si combinano e mutano, i loro composti umani risalgono per poi cadere ancora: “salivi su una montagna di sabbia / vano procedere verso di lui” (La demente).

 

In questo libro di Sachs, troppo vicino al trauma per pensarlo, il lamento non si esaurisce, non compie alcun processo, risuona in un paesaggio di segni isolati[xxi], di pause, di cristalli di immagini ingestibili (“l’animale di pezza, già diventato vivo/ nell’amore”, Oh notte dei bambini che piangono). Le mani che sono state bambine (“stringevate un’armonica a bocca, la criniera / di un cavallo a dondolo”), ora uccidono. Lo sguardo stupefatto davanti alle mani che tengono “ormai solo la morte tra le mani” (Mani) è lo sguardo davanti allo sterminio. Incredula di fronte alle parole che mimano il male, la poesia di Sachs le pesa prima di offrirle all’oblio. Il detto chassidico raccolto da Buber e posto in calce a Tu commemori – “ogni cosa dimenticata / tu la commemori fin dall’eternità” – segna l’esatto confine su cui sostare prima di ogni guerra.

 

Note

 

[i]  Ad Alfred Günther, 2 maggio 1954, in P. Celan, «etwas gar und ganz Persönliches», Briefe 1934-1970, a cura di B. Wiedemann, Suhrkamp, Berlin 2019, pp. 158-159. Schmitt non era certo ignoto a Celan, amico di Rudolf Schroers.

[ii] Citato in Wolfgang Emmerich, Nahe Fremde. Paul Celan und die Deutschen, Wallstein, Göttingen 2020, p. 226. Ivi, pp. 226-228, una ricostruzione breve e puntuale del rapporto.

[iii] Celan a Sachs, 7 maggio 1960: «è grazie a questa poesia che la conosco […]. È lì che ho trovato Lei, Nelly Sachs», in P. Celan – N. Sachs, Corrispondenza, a cura di A. Ruchat, Giuntina, Firenze 2017, pp. 40-41.

[iv] Sachs a Celan, il 9 gennaio 1958, ivi, p. 13.

[v] L’espressione è di I. Fantappiè, L’altro meridiano. Aktualisierung, tempo e metafora in Paul Celan e Nelly Sachs, in M. Baldi – F. Desideri (a cura di), Paul Celan. La poesia come frontiera filosofica, Firenze University Press, Firenze 2008, pp. 145-161: 150

[vi] Celan a Sachs, in P. Celan – N. Sachs, Corrispondenza, p. 109,

[vii] Cfr. Marcus May, Nelly Sachs, in Id.-P. Goßens-G. Lehmann, Celan Handbuch. Leben-Werk-Wirkung, Metzler, Stuttgart-Weimar, 2012, pp. 330-333: 330. L’espressione della “sorella ebrea” è in una dedica di Celan a Sachs vergata sulle sue traduzioni di Mandel’štam.

[viii] Sachs a Celan, 15-12-1969, in P. Celan – N. Sachs, Corrispondenza, cit. p. 124.

[ix] Dario Borso, Celan in Italia, Prospero, Milano 2020.

[x] I. Porena, Biografia “ma con misura”, in C. Miglio – I. Fantappiè (a cura di), L’opera e la vita. Paul Celan e gli studi comparatistici, L’Orientale, Napoli 2008, pp. 32-34. Sulla vicenda di Celan a Cerveteri, sulla poesia Mittags composta subito dopo (poi in Atemwende) e su quella Die Ewigkeit del 1967 (finita in Fadensonnen) si vedano le congetture biografiche di Giuseppe Bevilacqua, «Belfagor», Paul Celan a Cerveteri, vol. 66, No. 1 (31 gennaio 2011), pp. 39-45.

[xi] Ruchat ha già tradotto per Giuntina le Lettere dalla notte. 1950-1953 (2015) e la Corrispondenza con Celan (2017).

[xii] A. Ruchat, Nota alla traduzione, in Negli appartamenti della morte, pp. 123-126: 125. All’«educazione prettamente borghese ottocentesca, disastrosamente anacronistica”, rimanda Porena nella sua Introduzione alle Poesie (Einaudi 2006, pp. V-XV: V).

[xiii] È l’intuizione di Peter Waterhouse, In territorio di genesi. Saggio su alcune poesie di Paul Celan e Andrea Zanzotto, a cura di C. Miglio, Castelvecchi, Roma 2021, p. 50

[xiv] I. Porena, Introduzione a N. Sachs, Poesie, Einaudi, Torino 2006, pp. V-XV: VII, rileva come nello Zohar Sachs “capta per via intuitiva la lezione segreta: la funzione fondante che la parola riveste nei confronti del reale”.

[xv] Fantappiè, L’altro meridiano. Aktualisierung, tempo e metafora in Paul Celan e Nelly Sachs, p. 152.

[xvi] I. Porena, Introduzione, cit., p. XII: “Sachs la reintroduce con forza dandole una valenza mistica di “superamento dell’attuale, del possibile”.

[xvii] Chiara Conterno, Considerazioni sugli ‘Epitaffi scritti sull’aria’, in N. Sachs, Epitaffi scritti sull’aria, traduzione e cura di Chiara Conterno, con un saggio di Walter Busch e una nota introduttiva di Ferruccio D’Angeli, Progedit, Bari 2013, pp. 17-45: 42: “Questi testi seguono e imitano processi rituali. Innanzitutto ricordano il Kaddish”.

[xviii] R. Fertonani, Nelly Sachs, in Schemuel Josef Agnon – Nelly Sachs, Premi Nobel 1966, Club degli Editori, Utet 1979, pp. 506-520: 516: “[il] trattino (–) […] non è soltanto un espediente grafico ma, mentre da un lato significa il silenzio di fronte all’ineffabile, dall’altro ha lo scopo di spronare la fantasia del lettore-destinatario a colmare la lacuna”.

[xix] Il ciclo è tradotto nella sua integralità, comprensiva degli inediti, in Epitaffi scritti sull’aria, cit. Si fonda sui Werke. Kommentierte Ausgabe in vier Bänden, a cura di A. Fioretos, 4 voll. Suhrkamp, Berlin 2010-2011. Questa edizione contiene anche un’utile bibliografia (pp. 129-139), che si aggiunge a quella di Monica Lumachi in N. Sachs, Poesie, a cura di Ida Porena, Einaudi, 2006, pp. XX-XXII e a quella di Anna Ruchat in Lettere dalla notte, pp. 19-20.

[xx] Di ricettività pura ha parlato Walter Busch, L’epitaffio e il silenzio dei morti nell’epoca moderna. Trasfigurazioni di una forma letteraria, in Epitaffi scritti sull’aria, cit., pp. 3-16: 16.

[xxi] H.-M. Enzensberger, in N. Sachs, Al di là della polvere, pp. 5-10 “Come sabbia, la polvere è di casa nel deserto, lì quindi dove non esiste riparo”.

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