Che trip la California dark e naïf di Jessica Pratt | Rolling Stone Italia
Cali nightmare

Che trip la California dark e naïf di Jessica Pratt

L’autrice di ‘Here in the Pitch’, uno dei dischi americani più apprezzati del momento, racconta la musica che l’ha influenzata. Love e Spirit, Wendy and Bonnie e Mamas and Papas, «luce e oscurità, nostalgia e perdita», le spiagge assolate dei Beach Boys e «qualcosa di sinistro in agguato»

Che trip la California dark e naïf di Jessica Pratt

Jessica Pratt

Foto: Maria-Juliana Rojas per Rolling Stone US

La prima volta che la senti è facile scambiarla per un’artista del passato. Effettivamente quella di Jessica Pratt sembra musica fatta decenni fa da un’artista caduta nel dimenticatoio e recuperata dalla cesta dei dischi usati in un negozio d’antiquariato del Midwest. E invece no, questo non è Langley Schools Music Project e lei non è Connie Converse. Nata nel 1987 a Los Angeles, Pratt fa indie folk dal 2012 e pochi giorni fa ha pubblicato il quarto disco Here in the Pitch.

L’album evoca con toni dark il sottomondo della Los Angeles degli anni ’60 e ’70. Lei adora i Beach Boys, ma pure Frank Zappa e Captain Beefheart. «Se hai la passione per quei tempi, tante cose si tengono assieme», dice. «La musica che faccio è spesso il prodotto dell’amalgama delle influenze che ho in testa».

In un ristorante etiope di Williamsburg, a Brooklyn, Pratt racconta a Rolling le canzoni e gli album che l’hanno influenzata nella realizzazione di Here in the Pitch. «Sono i dischi che ho sempre in testa o quelli a cui torno di continuo. C’è un tema che lega le mie nuove canzoni: il senso di nostalgia e di perdita. Ha due strati il disco, sotto c’è una sensazione strisciante di cupezza, sopra qualcosa di più solare. Adoro il conflitto fra luce e oscurità».

Pet Sounds

The Beach Boys

1966

«Sono patita dei Beach Boys. Non sono una completista, quello è il lavoro di una vita, ma per me Brian Wilson è un genio vero e Pet Sounds è probabilmente il mio album preferito di sempre. Roba gigantesca: le atmosfere, la ricchezza sonora, la relazione spaziale tra gli strumenti. Ecco, si sente lo spazio. Siamo tutti d’accordo, vero, che la maggior parte dei biopic è cringe? Il 98% è tremendo, sono commediole idiote. Non Love & Mercy, che mi pare bello soprattutto per le scene in studio, per l’attenzione ai dettagli, ai vestiti. Paul Dano è notevole nei panni di un giovane e ingenuo Brian Wilson sull’orlo della psicosi».

Strange Young Girls

Mamas and Papas

1966

«Adoro la musica di quell’epoca, eppure non conoscevo questa canzone fino a suppergiù cinque anni fa. È bellissima. Pensa alla limpidezza delle voci: ci sono dei versi cantati da Cass Elliot in cui puoi sentire la tessitura della voce, favolosa. È bella la melodia, ma pure il testo che è inquietante, data la leggenda che circonda il gruppo. È un po’ dark. Sono certa che un sacco di ragazze arrivavano dal Midwest e venivano risucchiate da quella babilonia. I Mamas and Papas erano grandi autori, eppure non sono stati presi sul serio, non a sufficienza. Io invece li metto allo stesso piano dei Jefferson Airplane, che pure non godono di grande credito. Forse erano accomunati dal senso dell’umorismo, ma è solo una teoria. È interessante il fatto che siano conosciuti più per le voci e le hit che per l’influenza che hanno esercitato».

Foto: Maria-Juliana Rojas per Rolling Stone US

The Red Telephone

Love

1967

«A parte il fatto che Forever Changes è uno dei più grandi album di sempre, e non lo dico solo io, è cosa universalmente accettata, per me The Red Telephone è un grandissimo inno al bad trip paranoico. È emotivamente tosto rispetto a cose più leggere dell’epoca. Arthur Lee dà l’impressione di essere un saggio. È come se stesse facendo sempre una qualche preveggenza. E canta che sembra un re. Ho letto il libro di Andrew Hultkrans della collana 33 1/3 su Forever Changes. È molto bello e definisce il tono di Arthur nel disco come paranoia dignitosa. Giustissimo. Il verso “a volte la mia vita è inquietante” è da sempre un mantra per me. Ho sempre visto il mondo come un’esperienza multidimensionale in cui si passa attraverso le onde psichiche di tutta la storia e di tutta l’umanità che ci ha preceduti. Lui pensa a queste cose, agli strati invisibili».

Genesis

Wendy and Bonnie

1969

«È un pezzo che non sento parlare di loro. Anzi, sai la cosa curiosa? Li ho scoperti perché un tizio, che immagino sia un vecchio rockettaro, ha lasciato un commento al mio video di This Time Around su YouTube scrivendo che gli ricordava Wendy and Bonnie. Non sapevo chi fossero. Ho scoperto che i loro genitori erano musicisti e che di cognome facevano Flower. E quindi sono Wendy e Bonnie Flower, bello manco fosse inventato. Genesis è un disco incredibile, che hanno fatto quand’erano giovanissimi. Sento una qualche affinità coi Beach Boys, lo stesso spirito naïf tipico della West Coast, con armonie e melodie basta. Tutto perfetto».

Foto: Maria-Juliana Rojas per Rolling Stone US

Looking into Darkness

Spirit

1975

«Gli Spirit non sono notissimi. Magari la gente li conosce per i dischi classici anni ’60 più che per i dischi d’inizio anni ’70 con Randy California, che sono quelli che invece preferisco. La produzione di Looking into Darkness ha qualcosa di etereo e le melodie sono uniche. Trasmette strane sensazioni. Lui è il tipo di musicista amato dai musicisti. E che tristezza che sia morto salvando il figlio che stava annegando».

Nature’s Gift

Itasca

2014

«Pur conoscendola, mi ero un po’ dimenticata di questa canzone che non ho ascoltato per un pezzo. È cupissima. Adoro la musica che trasmette emozioni ambigue, quell’enigma che non risolvi nemmeno seguendo il testo. È come se qualcosa di sinistro fosse in agguato da qualche parte e questa cosa è per me molto californiana. Lei è una chitarrista dotata ed è pure molto cool di persona. Ci s’incontra di tanto in tanto a L.A. Bravissima».

Da Rolling Stone US.