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Il Castello della Metola, dove nacque Margherita nel 1287, era una fortezza posta sulla cresta di un’alta montagna, situata nella parte meridionale di Massa Trabaria. In quell’epoca tardo-medioevale Massa Trabaria, già possedimento dello Stato Pontificio, incuneata tra le potenti città di Firenze, Arezzo e Perugia, era stata proclamata Repubblica da Papa Innocenzo III e solidamente fortificata per la sua posizione strategica. Tutta la regione era aspramente montagnosa e coperta da fitte boscaglie; le strade erano scarse e primitive; i villaggi sorgevano isolati. Il castello della Metola dominava dall’alto tutta la zona godendo di una splendida vista sulla via maestra che univa le città di Mercatello e di Sant’Angelo in Vado; era stato costruito con un sistema tale di difesa da risultare pressoché inespugnabile.
Per questo, quando il padre di Margherita, Parisio, lo aveva conquistato togliendolo agli abitanti di Gubbio, aveva suscitato un tale entusiasmo per la sua valorosa impresa che gli era stata offerta la fortezza e tutto il vasto possedimento che la circondava. Lassù, Parisio aveva portato la giovane sposa Emilia ed aveva atteso con gioia la nascita di un erede che perpetuasse il suo nome. Quale nobile condottiero, ricco ed orgoglioso, pieno di sogni gloriosi per l’avvenire di quel figlio, aveva ordinato grandi festeggiamenti per il lieto evento, ma la delusione dei due sposi non poté essere più cocente quando s’accorsero che era nata una bambina cieca e deforme, destinata ad essere gobba e storpia.
L’orgoglio chiuse il loro cuore ai sentimenti di amore materno e paterno: decisero di nascondere a tutti la loro disgrazia affidando la bimba ad una donna di servizio e ordinandole di tenerla sempre nascosta. Nel modo più segreto possibile fu portata alla cattedrale di Mercatello per essere battezzata col nome di Margherita, soltanto perché il cappellano della fortezza lo aveva chiesto.
Margherita, crescendo, manifestò una straordinaria intelligenza e imparò ben presto ad orientarsi girando per il castello, senza mai avvicinarsi alle stanze dei genitori che non volevano correre il rischio di incontrarla. Un giorno — Margherita aveva sei anni — vennero alla Metola alcuni visitatori e mentre la piccola si recava nella cappella a pregare, fu vista da una delle dame ospiti, che ovviamente fu incuriosita dalla presenza di quella bambina cieca e storpia.
Per evitare in futuro di correre ancora il rischio che quella sua figlia deforme venisse scoperta, Pariso escogitò un piano: fece costruire una cella vicino alla chiesa di Santa Maria della Fortezza, che si trovava a quattrocento metri dal castello, in piena boscaglia, e vi rinchiuse la figlia costringendola a vivere come una reclusa, con l’unica possibilità di passare il tempo a pregare, in attesa che da una finestrella le venisse porto un po’ di cibo.
In quella gelida prigione, consapevole di essere rifiutata per il suo fisico anormale, Margherita avrebbe potuto crescere con l’odio in cuore per il trattamento subito, ma Dio vegliava su quell’anima a Lui cara e illuminò la sua intelligenza con la divina sapienza, facendole comprendere che era stata creata per amarLo e trovare così eterna e perfetta felicità. La bimba capì che per raggiungere un alto grado nell’amore di Dio, non è necessaria la vista, né un fisico perfetto, ma soltanto seguire l’esempio di Gesù Crocifisso e unire le nostre sofferenze alle sue. Nove anni rimase in quella cella, ricevendo frequenti visite dal cappellano che la istruiva nelle vie di Dio e rare visite dalla mamma.
Per amore di Gesù si impose dei lunghi digiuni e riuscì a procurarsi anche un cilicio. Mantenne il suo temperamento allegro e luminoso, accettando il dolore fisico e morale come una grazia speciale del Signore.
Fu tirata fuori da quell’orribile luogo a causa della guerra: Massa Trabaria era stata invasa dai nemici e se fossero arrivati vicini al castello, avrebbero scoperto la fanciulla prigioniera. Margherita finì in un luogo peggiore, cioè nella cantina del palazzo di suo padre a Mercatello, con un pagliericcio ed una vecchia panca per arredamento e le regole dei carcerati da osservare. Niente più conforti religiosi, come Santa Messa, Comunione, visite del cappellano, ma una tremenda solitudine e tanta angoscia per gli esiti della guerra. La fede e la fiducia in Dio l’aiutarono a superare la prova di quelle tribolazioni e a fortificarsi per il terribile cambiamento di vita che l’aspettava.
Cessato il pericolo della guerra, i genitori decisero di condurla a Città di Castello, sulla tomba di Fra Giacomo, un francescano morto da poco tempo in fama di santità, nella speranza che un miracolo potesse donare la luce agli occhi spenti della loro figlia e guarirla dalla sua deformità.
Il viaggio attraverso gli Appennini per giungere nella valle del fiume Tevere, sulle cui sponde sorge Città di Castello, fu lungo e disagevole, né Margherita poté godere della vista del panorama; il peggio però l’attendeva proprio là dove il seme della speranza avrebbe dovuto fiorire in gioia per l’avvenire: delusi dal mancato miracolo, i nobili castellani della Metola presero la via del ritorno di nascosto, abbandonandola a se stessa per liberarsi per sempre di lei.
Quando la ragazza (era intorno ai quindici anni) se ne rese conto, il buio intorno a lei fu più fitto e il gelo le morse il cuore: possibile che fosse stata abbandonata in quella città del tutto sconosciuta? Eppure questa era l’amara realtà!
«Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» dice il salmista: fu così anche per lei. Dopo un breve tempo trascorso come mendicante, senza un tetto sotto il quale ripararsi dalle intemperie, Margherita trovò una calda accoglienza presso le famiglie povere della città che la ospitarono a turno, ammirandone la gentilezza, la pazienza e l’inalterabile serenità. Con la preghiera continua ella ricompensava i suoi benefattori, ottenendo grazie di ordine materiale e morale alle loro famiglie.
Intorno ai vent’anni fu accolta in un monastero dove, con il cuore traboccante di gioia, iniziò il suo cammino di perfezione spirituale impegnandosi ad osservare la Regola propria di quell’Ordine di cui l’antico biografo non ci rivela il nome. Purtroppo in quel monastero si era spento il primitivo fervore e le monache vivevano nella rilassatezza e nello spirito mondano; dopo un po’ di mesi, la condotta di quella novizia cieca che si atteneva in fatto di silenzio, di povertà, di clausura e di raccoglimento alle prescrizioni della Regola, divenne un fattore di disagio nel convento, un tacito ma eloquente rimprovero per la comunità.
Poiché Margherita rifiutava ogni compromesso con la sua coscienza pur sapendo che rischiava di perdere ancora una volta la sicurezza di un tetto per l’avvenire, fu dimessa dal monastero e si ritrovò sola e abbandonata per la via. La grazia di Dio l’aiutò ancora una volta a superare il difficile momento col pensiero che anche Gesù era stato rifiutato dai suoi e che lei ora non poteva ritirare l’offerta che aveva fatto di se stessa a Dio fin da piccola.
Un nuovo genere di sofferenza l’attendeva: la derisione e il disprezzo pubblico di chi spargeva chiacchiere malevole sul suo conto, insultandola con frasi sprezzanti e motivando la sua cacciata dal monastero col fatto che non era stata in grado di adattarsi alla vita delle monache per mancanza di virtù.
Fu in questo doloroso periodo che la povera cieca incontrò nella chiesa della Carità, affidata ai Frati Domenicani, le Mantellate, laiche appartenenti all’Ordine della Penitenza di San Domenico, che vivevano in casa propria ma osservavano una Regola austera ed indossavano l’abito religioso domenicano.
Margherita vi fu accolta, benché venissero ammesse soltanto donne vedove in età matura, perché ella dava prova di seria virtù e perché il suo fisico menomato la metteva al riparo da qualsiasi leggerezza di gioventù. Così la povera mendicante senza tetto divenne anche pubblicamente sposa di Cristo: quale sorte migliore poteva desiderare colei che agli occhi degli uomini pareva un brutto scherzo della natura? Come San Paolo, ella poteva proclamare: «Chi mi separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la fame… la cecità, il fisico deforme? Ma in tutte queste cose sono più che vincitrice per virtù di Colui che mi ha amata».
Entrando a far parte di una famiglia religiosa, Margherita trovò fratelli e sorelle ed un grande ideale per cui spendersi: contemplare Dio e trasmetterLo con la preghiera e la penitenza, poiché la cecità le impediva lo studio. Le preghiere, compresi tutti i 150 salmi, le aveva imparate a memoria. Di penitenze non era mai sazia, soprattutto dopo aver scoperto che San Domenico le praticava quale mezzo potente per ottenere la salvezza delle anime.
Nonostante le sue disgrazie fisiche, praticava un intenso apostolato di misericordia presso i malati e i moribondi e sollevava i cuori afflitti con una conversazione opportuna che tutto riconduceva all’Amore di Dio. Aveva una predilezione particolare per San Giuseppe e di lui parlava sempre volentieri, finché l’interlocutore era disposto ad ascoltarla!
Entrando nel Terz’Ordine Domenicano, cessarono per Margherita le difficoltà economiche perché fu accolta nella casa di una famiglia appartenente all’alta società, gli Offrenducci. Per un po’ di anni visse con loro, poi passò nella casa della famiglia Venturino, una vera reggia per quell’epoca. La Mantellata però chiese di avere per sé una stanzetta in disuso nella soffitta, priva di lusso e di comodità, per seguire la via tracciata da Gesù e non tradire la regola professata. Insieme alla padrona di casa cominciò a visitare i carcerati, che erano tenuti in condizioni veramente disumane, per dare loro qualche aiuto materiale, come vesti e cibo, e il conforto del sostegno morale e religioso.
Chiari segni soprannaturali in questi ultimi anni dimostrarono che Margherita era molto vicina al cuore di Dio e che lo amava di un amore sempre più puro e profondo. Due volte, mentre viveva con la famiglia Offrenducci, aveva predetto il futuro e le sue profezie si erano avverate; in casa Venturino ottenne la guarigione miracolosa di una fanciulla e fermò un incendio gettando il suo mantello tra le fiamme. Inoltre col contatto della sua mano guarì l’occhio malato di una consorella. Dopo questi fatti, la mantellata divenne sempre più celebre per santità in tutta la regione. Durante le sue intense preghiere veniva colta da profonde estasi, soprattutto se si trovava in presenza di grandi miserie e sofferenze, e questo le capitava sovente mentre visitava i carcerati. Si confessava ogni giorno e riceveva la Santa Comunione ogni volta che ne otteneva il permesso. Negli ultimi tempi, quando partecipava alla Santa Messa, «vedeva» Gesù Cristo Incarnato, benché i suoi occhi di carne continuassero a non vedere niente.
Al principio del 1320 Margherita capì che il lungo esilio lontano dal suo Dio stava per terminare: le sofferenze fisiche aumentavano, la sua anima purificata da ogni egoismo anelava soltanto a liberarsi dal corpo mortale. Morì il 13 aprile, seconda domenica di Pasqua, all’età di trentatré anni.
Gli abitanti di Città di Castello accorsero in folla a tributarle l’ultimo saluto ed ottennero che venisse sepolta nella chiesa della Carità. Numerosi miracoli si verificarono sulla sua tomba, che fu sempre circondata di grande venerazione.
Il corpo incorrotto della Beata, il cui culto fu autorizzato nel 1609 da Papa Paolo V, giace ora sotto l’altare maggiore della chiesa di San Domenico.
Nel cuore della piccola cieca, per un fenomeno di stigmatizzazione plastica, furono trovati tre piccoli globi recanti le immagini della Sacra Famiglia; questa scoperta ricordò l’amore di Margherita per il Verbo Incarnato, la Madonna e San Giuseppe, dei quali parlava sempre con ardore, e le parole che spesso aveva pronunciato: «Oh, se voi sapeste il tesoro che ho nel cuore, vi meravigliereste!».