La direttrice Cecilia Bernardo interviene al Congresso

Cecilia Bernardo

L’intervento della direttrice de La Magistratura Cecilia Bernardo nella giornata conclusiva del Congresso dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo.

Cecilia Bernardo

Buongiorno a tutti,

oggi, con questa terza giornata, portiamo a compimento il percorso di questo 36^ Congresso Nazionale dell’Associazione nazionale magistrati.

Prima, però, di introdurre con qualche parola l’ultima sessione di questo Congresso, è, per me, un piacere, prima ancora che un dovere, rivolgere un caloroso saluto alla splendida città di Palermo che ci ha ospitato in questi giorni, mostrandoci le sue meraviglie. Un ringraziamento sentito va, poi, alla Giunta dell’Associazione nazionale magistrati di Palermo che ha contribuito, in modo decisivo, alla organizzazione del Congresso: se tutti noi abbiamo potuto godere di una ospitalità così piacevole, lo dobbiamo, in primo luogo, ai colleghi della Sezione locale che tanto si sono impegnati in questo lavoro.

Infine, un ringraziamento va a tutti voi che ci state seguendo con tanta attenzione; la partecipazione di un numero così alto di colleghi è segno della vitalità dell’Associazione e del fatto che tutti i magistrati, pur nella naturale dialettica delle opinioni, in essa riconoscono una vera e propria «casa comune».

Davvero, grazie a tutti voi.

Venendo, ora, al Congresso, quello di questi giorni è stato un percorso che ci fatto riflettere sui temi cruciali del nostro essere magistrati. Perché, davvero, affrontare i temi della interpretazione della norma e della imparzialità del giudice vuol dire, in ultima analisi, toccare il cuore della nostra attività e del nostro ruolo all’interno della società.

Nell’aprire, quindi, i lavori di questa giornata conclusiva, che sarà intensa come intense sono state le precedenti, mi limito a qualche breve considerazione introduttiva.

Negli ultimi anni il dibattito sul ruolo del giudice e della giurisprudenza si è molto arricchito.

In effetti, la concezione del diritto come sistema di norme poste dal legislatore ed applicate, quasi meccanicamente – o, verrebbe da dire, quasi meccanicisticamente – dal giudice, attraverso un processo logico deduttivo, appare in declino.

Il giudice come bocca della legge è una visione certamente superata.

Emerge, al contrario, un sistema ordinamentale costruito sulla base di una pluralità di fonti normative e di una legislazione che, sempre più spesso, si risolve nell’enunciazione di clausole o principi generali. Ed ovvio che, in un simile contesto, la giurisprudenza – e quindi, in ultima analisi, il giudice – assume un ruolo decisamente centrale.

Ed ecco, allora, che si rende necessario, per il magistrato come per lo studioso del diritto, interrogarsi sul riconoscimento della giurisprudenza come fonte del diritto nel novero della molteplicità delle fonti, sul rapporto tra fonti statuali ed extrastatuali, sulla creatività della giurisprudenza e sui limiti dell’interpretazione, sul rapporto tra i poteri e quindi potere legislativo e potere giudiziario, sulla imparzialità – interna ed esterna – del magistrato.

Questi sono i temi che abbiamo toccato in questi intensi giorni.

Vorrei dire, senza nessuna pretesa di avere una soluzione definitiva, che un punto di equilibrio tra le diverse visioni va necessariamente trovato.

Se, infatti, come dicevo, la visione del giudice come bocca della legge è certamente superata e se, pure, tutte le nostre decisioni devono avere come stella polare la Costituzione italiana, non sarebbe giusto neppure scivolare in estremi opposti.

La prevedibilità della decisione è, ancora oggi, un valore importante alla quale dobbiamo comunque cercare di orientare il nostro lavoro.

Non considerare il tema della prevedibilità della decisione vuol dire avere una visione autoreferenziale del nostro lavoro; autoreferenziale perché non prende in considerazione la posizione degli operatori giuridici ed economici. E non capire che le nostre decisioni – che pure, in primo luogo, risolvono un “conflitto” tra determinati soggetti – si rivolgono, anche, agli operatori che, sulla base di quelle decisioni, conformano i propri comportamenti.

Prevedibilità della decisione non significa immobilismo della giurisprudenza, ma vuol dire guidare in modo «umano» i cambiamenti e l’attuazione della norma all’interno della evoluzione della società. Se non capiremo questo, prima o poi si invocherà una decisione frutto dell’intelligenza artificiale, con tutti i pericoli che una scelta del genere porta in sé.

Ecco allora che vengono in mente le parole che Carl Schmitt utilizza nello scritto intitolato, non a caso, «La tirannia dei valori».
«Un giurista che s’impegna nel diventare un attuatore immediato di valori dovrebbe sapere ciò che fa. Dovrebbe riflettere sull’origine e sulla struttura dei valori, senza prendere alla leggera il problema della tirannia dei valori e della loro attuazione immediata. Dovrebbe farsi un’idea chiara della recente filosofia dei valori, prima di decidersi a diventare valutatore, trasvalutatore, rivalutatore o svalutatore, e di annunciare, in quanto soggetto portatore di valori e dotato di senso del valore, le posizioni di un ordine gerarchico di valori soggettivo o anche oggettivo nella forma di sentenze dotate di valore legale».

Occorre chiedersi, infatti, se una giurisprudenza fondata sui «valori», sebbene valori costituzionali, non corra il rischio di cadere in un esasperato soggettivismo e occorre chiedersi se una tale evoluzione della giurisprudenza sia, in un’ultima analisi, rispettosa del principio democratico che sta necessariamente alla base delle scelte e del bilanciamento che il potere legislativo è chiamato, anche in attuazione dei valori costituzionali, a compiere.

Ecco allora che occorre trovare un punto di incontro tra le diverse esigenze.

E questo punto di incontro può essere trovato solo all’esito del «confronto». Ed il «confronto» tra idee diverse è stata la guida di questi giorni. Un confronto «interno» alla magistratura nel primo giorno quando sono intervenuti i dirigenti delle varie correnti; un confronto «esterno» con il mondo accademico e politico quello che abbiamo vissuto ieri attraverso la tavola rotonda che tanti spunti ha fornito a ciascuno di noi.

Mi avvio alla conclusione.

I temi che abbiamo trattato in questi giorni e che adesso andiamo a completare, i temi dell’interpretazione in tutte le sue forme, della prevedibilità della decisione, i temi dell’imparzialità del giudice, alla fine rimandano ad un’unica, possente domanda.

Che cosa è la giustizia?

Quella domanda – che cosa è la giustizia? – che, come disse Hans Kelsen in una famosa lezione del 1952, è una di quelle domande alle quali l’uomo «si è consapevolmente rassegnato a non poter mai dare una risposta definitiva, ma solo a formulare meglio la domanda stessa».

E, allora, termino questo mio breve intervento prendendo in prestito proprio le parole conclusive di quella lezione, quando Kelsen riconosce di non essere in grado di fornire una risposta alla domanda di cosa sia la giustizia. Dice, infatti, Kelsen «in effetti io non so, e non sono in grado di dirvi, che cosa sia la giustizia, quella giustizia assoluta alla quale l’umanità aspira. Devo accontentarmi di una giustizia soltanto relativa, e posso dirvi soltanto che cosa la giustizia sia per me. Dato che per la mia professione (e di conseguenza la cosa più importante della mia vita) è la scienza, per me la giustizia è quella giustizia sotto la cui protezione la scienza e, con la scienza, la verità e la veridicità, possono prosperare: è la giustizia della libertà, la giustizia della pace, la giustizia della democrazia – è la giustizia della tolleranza».

Grazie.