Harakiri finale. Le preferenze: la buona, anzi pessima, idea di Meloni - HuffPost Italia

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Harakiri finale. Le preferenze: la buona, anzi pessima, idea di Meloni

Per dare “più voce al popolo”, che è diventato il suo mantra, Giorgia Meloni risuscita le preferenze. Se dipendesse da lei potremmo sceglierci non solo il premier ma pure i membri del Parlamento come del resto accadeva una volta, quando sulla scheda si scrivevano i candidati. Oggi invece non si decide più niente perché deputati e senatori sono imposti dall’alto, vengono nominati dai leader e quando si vota per un partito se ne accetta l’intero pacchetto di nomi, prendere o lasciare. Per cui l’idea di Meloni non è disprezzabile in sé; sulla carta, anzi, è la più democratica perché dà potere alla gente; viene addirittura da chiedersi per quale ragione trent’anni fa si abbandonarono le preferenze e fu adottato un sistema dove l’elettore non conta, o conta meno di zero. La risposta è semplice: ci fu Mani Pulite.

Qualcuno ha tirato in ballo Tangentopoli per la vicenda Toti, ma il paragone non regge, anzi è ridicolo. Questione di proporzioni. Nel caso in cui il governatore venisse condannato, si tratterebbe di un finanziamento per euro 73mila, più un cartellone pubblicitario preso in prestito. Quando crollò la Prima Repubblica, la politica inghiottiva miliardi (di lire, ma tanti comunque). I partiti si finanziavano coi soldi pubblici, che non bastavano mai; e per riempire il pozzo senza fondo pretendevano il pizzo finché il tappo un bel giorno saltò. I moralisti ne fecero una questione morale ma, banalmente, la politica viveva al di sopra dei propri mezzi, costava troppo; e le preferenze erano la prima fonte di spesa. Chi ha l’età lo ricorda. Intere città tappezzate di manifesti, cassette della posta inondate di lettere, altoparlanti per strada e comizi in ogni piazza, spot televisivi, pubblicità sui giornali, banchetti elettorali, comitati di galoppini per non dire del resto, compresi i pacchi di pasta gratis o le paia di scarpe in cambio del voto in certe zone d’Italia.

Correre alle elezioni aveva un prezzo bestiale. Costava più di quanto l’eletto avrebbe guadagnato nei cinque anni di Parlamento, eppure in tanti sgomitavano per arrivarci. Se qualche candidato abbiente poteva permetterselo (Giovanni Spadolini, per dire, a ogni elezione vendeva un appartamento) il grosso si finanziava in nero. E poiché non esistono i pasti gratis, purtroppo, le preferenze si reggevano sul mercato delle promesse o delle tangenti. Farsi eleggere per guadagnarci dopo. L’unica eccezione era il vecchio Pci perché, grazie alla disciplina, i voti andavano a chi decideva il vertice, la libertà non c’era. Insomma: un mondo malato su cui si accanirono i pm, da Antonio Di Pietro a Piercamillo Davigo, e l’intera classe dirigente finì in carcere o in libertà vigilata. Le preferenze vennero tolte così pure i finanziamenti pubblici (ne sono rimasti gli spiccioli). Cominciò l’era dei “nominati” e dei “listini”.

Adesso Meloni denuncia: il verticismo ha deluso, piuttosto che recarsi al seggio la gente se ne va al mare, bisogna rifondare il rapporto eletto-elettore. Potere al popolo, finalmente. Apprezzabile il suo coraggio. Ma la vera domanda è: cos’è cambiato rispetto ad allora? Per quale motivo dovrebbe funzionare oggi quello che trent’anni fa fu un disastro? Chi pagherebbe la corsa alle preferenze? Certo non lo Stato: a parte che affondiamo nei debiti, sovvenzionare i partiti sarebbe la scelta più impopolare. Non passerebbe mai, verrebbe bocciata, inutile perderci tempo rimpiangendo il passato. Quanto ai finanziamenti privati, ricorrervi sarebbe suicida. Come infilare la testa nelle fauci del coccodrillo.

Chi non avesse mezzo milione da spendere (tanto costa, per dare un metro, competere alle Europee) e volesse trovare uno sponsor, un mecenate, un finanziatore verrebbe avvolto da una nuvola di sospetto. Finirebbe presto o tardi nel mirino delle Procure quale potenziale corrotto. L’Italia non è l’America dove Donald Trump, per citare l’ultimo caso, può stipulare patti con Big Oil ottenendo un miliardo di dollari in cambio della promessa che cancellerà l’Agenda verde di Joe Biden. Là nessuno si sognerebbe di metterlo in galera per questo, al massimo per Stormy Daniels; da noi invece si formerebbe un ingorgo di toghe per arrestare Trump con l’accusa di corruzione, traffico di influenze, voto di scambio e tutto l’armamentario giuridico che è stato confezionato per combattere il malcostume; rappresentare degli interessi e averne un sostegno da noi è un crimine; ovvero è permesso a patto che sia completamente disinteressato, senza “do ut des”, senza riceverne nulla in cambio perché altrimenti svanirebbe la distinzione tra lecito e illecito.

Osvaldo Napoli, politico navigato, scuote la testa: “Fare il deputato, o il sindaco, o il governatore è diventato un azzardo eccessivo”. Difficile che personaggi onesti, perbene, con un mestiere e un briciolo di cervello siano disposti a correre questo rischio. Più facile che a lanciarsi nella scommessa siano nullafacenti, trafficoni o narcisi, col risultato di una selezione al contrario, avanti il peggio. Così è già adesso, con gli eletti catapultati nei collegi dai capipartito; figurarsi se dovessero farsi largo spendendo e spandendo.

Con le preferenze “faremmo un buon servizio alla nazione”, assicura la premier, non c’è sistema più bello, più partecipato per scegliere i rappresentanti. Ma di nuovo la domanda è: possiamo permetterci di moltiplicare le spese senza prima chiarire il confine del lecito? Se qualunque contributo resterà sospetto e se la politica resterà sotto schiaffo, le preferenze sarebbero l’ultimo degli errori, il harakiri finale. Metteremmo in scena un festival delle manette: la vittoria dei Torquemada, dei sepolcri imbiancati, dei moralisti di professione. E l’Italia scenderebbe un gradino più in basso.

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