Storia di condottieri e leader politici: da Napoleone a Figliuolo - la Repubblica

Il Venerdì

Da Napoleone a Figliuolo, generali e particolari

Il Ritratto equestre di Napoleone Bonaparte dipinto da Jacques-Louis David tra il 1800 ed il 1803 (Getty images)
Il Ritratto equestre di Napoleone Bonaparte dipinto da Jacques-Louis David tra il 1800 ed il 1803 (Getty images) 

Grandi strateghi, uomini d’azione, abili politici, patetici golpisti, geni diplomatici. e persino antimilitaristi. La storia insegna che i condottieri non sono tutti uguali. E che bisogna sempre dare a Cesare quel che è di Cesare

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SE volete comprendere la figura ideale del generale, allora dovete osservare con attenzione il celebre quadro che qui pubblichiamo: il ritratto equestre di Napoleone Bonaparte che attraversa le Alpi dal Colle del San Bernardo, momento chiave della campagna d’Italia che consacrò la sua leggenda militare.

Nel dipinto di David l’abilità dello stratega, capace di decidere le mosse vincenti e anticipare quella dell’avversario, è incarnata dal gesto sereno ed elegante della mano con l’indice puntato verso l’obiettivo. L’uniforme è sobria rispetto alle abitudini dell’epoca, con calzature pratiche e il mantello di stoffa pesante per scacciare il freddo: segno che condivide con i suoi uomini le privazioni della marcia. Le doti del condottiero sono rese visibili dal modo in cui domina un cavallo possente e nervoso: non solo ha evitato che l’armata si sbandasse durante la marcia tra le montagne, ma è riuscito a tenere alto il morale e spingerla all’assalto di un nemico superiore.L’ufficiale corso pochi anni prima aveva messo a segno un altro trionfo italiano: «Il 15 maggio 1796» è la frase iniziale della Certosa di Parma scritta da Stendhal «il generale Bonaparte entrò a Milano alla testa del giovane esercito che aveva varcato il ponte di Lodi e mostrato al mondo come dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avessero un successore». Il dibattito su chi sia stato il comandante più grande di tutti tiene banco da millenni.

I classici riportano un dialogo in cui Scipione l’Africano pone la domanda ad Annibale, il quale assegna il podio ad Alessandro Magno e il secondo posto a Pirro, il re dell’Epiro che sbaragliò i Romani con la carica degli elefanti. Nell’epoca digitale si è ricorsi a sondaggi social o elaborazioni affidate all’intelligenza artificiale per stabilire una classifica globale in cui compaiono nomi esotici come il nipponico Takeda Shingen o l’arabo Khalid ibn al-Walid che piantò la bandiera dell’Islam in Iraq e Siria.

La vetta però ancora oggi viene contesa tra Napoleone e Cesare, entrambi arrivati a cancellare la repubblica dopo avere accumulato popolarità sui campi di battaglia.

Il grande enigma del comando

In fondo le virtù di un generale – visione strategica e gestione degli uomini – rappresentano il viatico ideale per ogni disegno di potere. Chi è in grado di spronare i soldati ad affrontare lucidamente la morte spesso non fatica a manipolare le masse.

Una tradizione nell’antichità, da Mario a Silla, da Cesare ad Antonio, da Tito a Diocleziano, che ha avuto i suoi ultimi epigoni europei in Francisco Franco e nel magiaro Miklos Horty, ammiraglio al vertice di una nazione senza mare, che però si sono limitati a reggere il Paese in nome delle case regnanti, senza mai impossessarsi del trono.Dopo la Seconda guerra mondiale questo passaggio però non si è concretizzato quasi mai, né nelle democrazie occidentali né nei totalitarismi comunisti. Dwight “Ike” Eisenhower, il comandante alleato che ha battuto il Terzo Reich, è riuscito a farsi eleggere alla Casa Bianca nel 1953 ma la sua presidenza è stata quasi paradossale per un militare: ha chiuso la guerra in Corea, impedito che l’occupazione franco-britannica di Suez innescasse un conflitto atomico e messo in guardia il mondo sulla rapace cupidigia dell’industria bellica. Celebre il suo discorso: «Ogni arma da fuoco prodotta, ogni nave varata, ogni missile lanciato significano, in ultima analisi, un furto ai danni di coloro che sono affamati e non vengono nutriti, hanno freddo e non ricevono vestiti». Molti sostengono che la disfatta di Hitler non sia merito tanto dello sbarco in Normandia guidato da Ike, quanto dell’avanzata delle divisioni corazzate di Zhukov su Berlino: alla morte di Stalin, l’autorevolezza del maresciallo sovietico è stata determinante per impedire che la macchina del terrore di Beria si impossessasse del Cremlino, pilotando la successione di Krusciov.Forse sulle sorti del Continente ha pesato ancora di più Charles de Gaulle, che di gloria al fronte ne ha raccolta pochina, ma in politica si è dimostrato un grande guerriero. Invece un ufficiale popolarissimo come Douglas MacArthur, indubbio protagonista della lotta contro i giapponesi nel Pacifico, fu rimosso dal comando in Corea per le velleità atomiche. «I vecchi soldati non muoiono mai, svaniscono», disse MacArthur annunciando la volontà di fare il Cincinnato. Poi invece si candidò alla Casa Bianca ma fu silurato alle primarie. Le procedure delle democrazie spesso non si addicono agli uomini d’azione, soprattutto a quelli che credono nei colpi di mano e rispondono «me ne frego» a chi rispetta manuali e regolamenti. Incursori e parà spesso in passato hanno mostrato insofferenza per le liturgie parlamentari, ma alla fine sono stati sopraffatti dalla lentezza e dalla complessità dei meccanismi parlamentari: vedremo come Roberto Vannacci, ex numero uno della Folgore, si misurerà con quelle di Bruxelles, se possibile più complesse di quelle nazionali. Ma dopo il patetico Tejero, il colonnello che nel 1981 ha assaltato il Parlamento di Madrid sparando e urlando «Todos al suelo!», nessun tintinnare di sciabole in Europa ha più minacciato le istituzioni.Certo, in un’era tempestosa anche le democrazie vanno in cerca di generali. Nell’ora cupa della pandemia abbiamo avuto Francesco Paolo Figliuolo – col cappello d’alpino che testimonia concretezza e suscita un rispetto affettuoso – che in tempi così rapidi da apparire miracolosi è riuscito a vaccinare gli italiani. Nello stesso periodo Donald Trump si è circondato di generaloni con grande esperienza bellica ed enorme seguito nelle caserme: John Kelly a capo dello staff; Michael Flynn e poi H.R. McMaster come consiglieri per la sicurezza; James Mattis come ministro della Difesa. Quella di Mattis – soprannominato “Cane Pazzo” o “il Monaco” – è stata la scelta il più sorprendente: un marine tutto d’un pezzo, che in Iraq dormiva nelle buche scavate nel deserto tra i suoi fucilieri, leggendo Sant’Agostino alla luce di una torcia. Pareva uno dei personaggi interpretati da Clint Eastwood: era stato liquidato da Barack Obama dal vertice operativo e pure con Trump è venuto ai ferri corti, dimettendosi in un silenzio carico di critiche. Se restiamo dalle parti del Pentagono, l’unico ad avere vinto una guerra tradizionale è stato Norman Schwarzkopf che nel 1991 ha sconfitto Saddam Hussein e liberato il Kuwait. Otto anni dopo, nel Kosovo, Wesley Clark realizza invece un primato probabilmente irripetibile: ottiene la resa della Serbia senza perdere neppure un uomo, usando soltanto gli aerei. Sono personaggi con biografie e stili molto differenti, che lasciano irrisolto quello che l’analista ed ex generale S.L.A. Marshall chiamava «l’enigma del comando», ossia quale sia la formula che rende vincente un ufficiale. Lui sosteneva che la risposta non andasse cercata nei manuali ma inventata volta per volta: «Dobbiamo puntare a una maggiore libertà di pensiero a tutti i livelli». Come faceva George Patton, che in Sicilia come nelle Ardenne, è riuscito a ribaltare gli schemi senza però farsi amare dai superiori né dai giornali. Mentre celebrità come Erwin Rommel erano notoriamente imperfette: la “Volpe del Deserto” brillava per acume tattico ma era priva di senso strategico. Tutti e due nel rapporto con i loro uomini adottavano i metodi prussiani di Federico il Grande: «Il comandante dovrebbe apparire amichevole con i suoi soldati, parlare con loro durante la marcia, far loro visita mentre cucinano, chiedere se vengono trattati bene e alleviare le loro difficoltà».

Non lasciar nulla al nemico

Come ha spiegato S.L.A. Marshall, veterano delle trincee e storico: «La necessità che un comandante sia visto in tutte le situazioni della guerra può essere considerata irriducibile. Non soddisfarla significa negare ai propri soldati un’iniezione di forza morale che non possono ottenere in altro modo». Con un tocco di humor, lo ha sostenuto pure Eisenhower: «Ho trovato che faceva un gran bene stare in mezzo alle truppe nella zona dei combattimenti. La mia presenza li rilassava. Ma non mi illudevo riguardo al motivo. Sapevo che stavano dicendo a loro stessi: “Ci deve essere meno pericolo di quanto pensavamo, altrimenti il vecchio non sarebbe qui”».In realtà, abbattere il condottiero è sempre stata una priorità perché la perdita del leader può far precipitare nel panico qualsiasi reparto. E non si tratta di una tattica relegata nel passato. Nel primo anno di resistenza, gli ucraini hanno creato squadre speciali per localizzare e colpire gli alti ufficiali russi. Nel 1943 gli americani hanno lanciato un’operazione su larga scala per intercettare l’aereo dell’ammiraglio Yamamoto ed eliminare l’ideatore di Pearl Harbor, mentre Erwin Rommel fu ferito dalle raffiche di un cacciabombardiere mentre dirigeva la reazione al D Day. E non mancano quelli passati alla Storia per gesti eroici. L’8 settembre 1943 Ferrante Vincenzo Gonzaga ai tedeschi venuti a intimare la resa della sua divisione rispose: «Un Gonzaga non si arrende mai» e fu ammazzato a tradimento. Il padre, Maurizio Gonzaga, era uno dei venti generali italiani che nella Grande guerra hanno ottenuto la medaglia d’oro per il valore mostrato sulla linea del fuoco. Nel caos di Caporetto tentò di fermare gli austriaci sul Natisone e una cannonata gli staccò tre dita della mano destra. Lui le raccolse e le infilò in un fazzoletto: «Non voglio lasciare nulla al nemico».

Sul Venerdì del 10 maggio 2024

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