Mdou Moctar - Funeral For Justice (2024)

di Gianfranco Marmoro

Ci sono molte chiavi di lettura utili per comprendere la grandezza di "Funeral For Justice", settimo album, secondo per la casa discografica Matador, del chitarrista Mdou Moctar e della sua band.
Per Mahamadou Souleymane (vero nome di Mdou Moctar) è stato complesso gestire il ruolo di musicista insieme a quello di cittadino di una terra, la repubblica del Niger (da non confondere con la vicina Nigeria), sconvolta da un colpo di stato che ha messo al comando, per la quinta volta, un regime militare dittatoriale di destra. Bloccati in America e turbati dalle sorti dei propri cari, Mdou Moctar e compagni hanno criticato il nuovo governo che ha spodestato Bazoum, ma non hanno lesinato critiche anche nei confronti della Francia e della politica coloniale - concentrata soprattutto sullo sfruttamento intensivo delle riserve di uranio - che ha portato il paese al tracollo finanziario.
"Funeral For Justice" non nasce in seguito a questi recenti eventi - l'album era già pronto prima del colpo di stato - le istanze sociali e politiche di queste nove canzoni sono infatti le stesse di sempre: per Moctar, il colonialismo e la scellerata politica africana sono al centro di una ormai lunga carriera, come per tanti artisti militanti, costretti a un sofferto esilio.

Tematiche bollenti e una rovente musicalità afro-rock sono un binomio perfetto per un progetto destinato a lasciare un segno profondo nell'anno in corso. La furia chitarristica e strumentale di "Oh France" viaggia di pari passo con le invettive nei confronti della Francia colonialista, colpevole di efferati crimini nei confronti della popolazione del Niger; ed è ancor più frenetica e impetuosa la splendida "Sousoume Tamacheq", atto di denuncia sulla difficile situazione dei Tuareg sfollati dalla propria terra, nonché manifesto culturale di quella lingua natia, Tamacheq, che anni di sopraffazione politica e sociale rischiano di cancellare definitivamente dal paese africano.

Musicalmente "Funeral For Justice" è un altro eccitante e originale manufatto di rock-blues contemporaneo. Il tanto evocato paragone del chitarrista Mdou Moctar con Jimi Hendrix ha una valenza profonda: il musicista africano non insegue le imbarazzanti soluzioni estetiche di molti artisti blues, né imita (al pari di Hendrix) le estenuanti digressioni tecniche dei funamboli delle sette note. Il suo virtuosismo tecnico non è mai autoindulgente, i riff sono fluidi, veloci, in continua trasformazione. Ogni nota di queste nove tracce è un taglio netto alla normalizzazione ("Imouhar"). Nella potente e originale "Tchinta" e nella oscillante malinconia desert-blues di "Takoba", c'è tutto l'ardore di una terra fiera e orgogliosa della propria identità.

È toccante e intenso il messaggio finale dell'album, "Oh mondo, perché sei così selettivo riguardo agli esseri umani? La mia gente piange mentre tu ridi", affidato alla delicata preghiera di "Modern Slaves", ennesimo monito nei confronti di quei politici che dovrebbero aver cura della propria gente nel rispetto della diversità e della dignità umana. Un messaggio potente e sincero, per un album di egual forza e valore artistico e culturale.

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