«Bevi laddove beve il cavallo; il cavallo non berrà mai un’acqua sporca. / Prepara il letto laddove si stende la gatta. / Mangia il frutto mangiato dal vermiciattolo. / Pianta l’albero laddove scava la talpa. / Costruisci la casa laddove si scalda al sole la vipera. / Scava un pozzo laddove gli uccelli si annidano quando fa caldo. / Coricati e svegliati insieme alle galline, così il grano d’oro della giornata sarà / tuo. / Mangia più verdure e avrai gambe forti e cuore resistente come un animale / robusto. / Nuota più spesso e ti sentirai sulla terra come un pesce dentro l’acqua. / Guarda più spesso il cielo e non i tuoi piedi, così i tuoi pensieri saranno chiari e leggeri. / Taci di più e parla di meno e nella tua anima regnerà il silenzio e il tuo animo sarà pacifico e tranquillo».

Questo scritto, se mi consentite molto illuminato, appartiene a San Serafino di Sarov, un monaco cristiano ortodosso nato nel 1754 e canonizzato nel 1903. Per ironia della sorte il luogo della sua nascita, Sarov, vicino Novgorod (Russia), era considerata una città chiusa, poiché sede di un centro di studi sull’energia nucleare.

Siamo a due anni dal quarantennale (1986-2026) del disastro nucleare di Chernobyl che falciò forse più di 40.000 persone. Ci sono stati studi dedicati alle conseguenze sui territori colpiti ed anche sulla fauna che sopravvisse e che nel corso degli anni si è adattata a vivere. In specifico sono stati effettuati approfonditi studi in collaborazione i volontari del Clear Futures Fund sui cani randagi di Chernobyl che a causa delle radiazioni subite sono diventati di fatto una nuova razza geneticamente modificata e adatti a condizioni di vita quasi impossibile.

Il mondo animale per sopravvivere riesce ad adattarsi a casi di estreme difficoltà. È sbalorditiva, ad esempio, la selezione che le api compiono per succhiare il nettare evitando i fiori e le piante velenose e letali. Altrettanto stupefacente è la possibilità che hanno i volatili di fermarsi sui fili dell’alta tensione, senza rimanere folgorati.

Quando, però, ci si mette la mano dell’uomo, allora succedono i disastri. Lo sterminio degli avvoltoi del Bengala, nelle zone indiane, pachistane e del Tibet è stato un campanello d’allarme per tutta la terra, anche se il disastro concretizzatosi oltre una decina di anni fa, per ora rimane concentrato in quelle zone.

Siamo a conoscenza della diversa cultura delle popolazioni indiane che venerano la sacralità delle mucche e in zone interne anche abitudini umane che alla fine della vita, anziché l’inumazione o la tumulazione o la cremazione, preferiscono la «sepoltura celeste». In queste culture la presenza degli avvoltoi che sono gli spazzini dei corpi morti, è indispensabile. Ma negli ultimi decenni si sono verificate novità raccapriccianti, ovvero la moria degli avvoltoi, simile ad un’epidemia.

Inizialmente è stata attribuita a veleni sparsi nell’ambiente o a malattia contagiosa limitata a quella specie, invece le ricerche hanno rilevato che la grave insufficienza renale e le concomitanti gravi lesioni intestinali erano dovute ad un farmaco che gli avvoltoi assorbivano dalle carcasse degli animali o dai corpi umani deceduti che in vita erano stati trattati con un antinfiammatorio non steroideo, appartenente ai cosiddetti FANS, usato sulle mucche o in campo umano che ha distrutto gli avvoltoi (Gyps bengalensis, Gypstenurostris) con perdite stimate fino al 95%.

Le Associazioni naturaliste, i protezionisti, gli scienziati in Europa hanno lanciato un grido di allarme (con appelli su Science), perché non basta vietare con un trafiletto aggiuntivo alle norme l’uso di queste sostanze per gli animali da reddito. Dal momento che sono in serio pericolo anche i grifoni in Sardegna, le aquile e ultimamente un avvoltoio monaco morto in Spagna. Ma è indubbio che per una segnalazione certa, chissà quanti possono essere in pericolo o deceduti, dato che sono animali selvatici e vivono liberi sui territori. Già nel 2014 l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) si dichiarava preoccupata dopo le denunce della LIPU, WWF, LIFE BIRD per l’uso in Europa del medicinale in questione (Green &a Blue).

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