S/language & s/confinamento (II parte) - segnonline
BRASSAÏ, Mockup originale per la realizzazione della tapistry Nocturn, 1968-1972. © Estate Brassaï - RMN-Grand Palais / © Centre Pompidou/Dist. RMN-GP/ Georges Meguerditchian

S/language & s/confinamento (II parte)

Il contributo si propone di analizzare il nodo cruciale della riflessione del segno-vandalo all’interno del regime discorsivo della modernità e tarda modernità: è davvero concepibile una società senza graffiti? E l’immagine di un segno non coercitivo che va oltre l’immagine del graffio occidentale come connessione tra language (retinico) e slanguage (aretinico)? Un viaggio all’interno di uno sfavillante “tatuaggio” metropolitano, quello dell’antropologia più matura, e una riflessione che ci pone davanti a una risposta molto particolare alle due domande fondamentali della modernità: cosa è il graffito e cosa è la società che lo contiene

Colui che più viaggia molte cose avrà da raccontare, ricorda un proverbio; e nell’immaginario collettivo il narratore è spesso qualcuno venuto da molto lontano – aggiunge Walter Benjamin nelle Illuminazioni. Ma al racconto di viaggio, inteso come attraversamento di spazi geografici, si sovrappone il motivo del viaggio interiore, alla ricerca di una nuova o della vera identità segnica. Nella coincidenza di vita e scrittura di cui si nutre l’autobiografia cittadina, vi è un momento in cui il cerchio si chiude e i segni si rivelano, i graffiti si addensano e il linguaggio si materializza. Il rotolare senza mai fermarsi a riposare o a mettere radici del solitario “tumbleweed segnico” (la licenza lessicale viene da rotolacampo) – quel gomitolo di erba secca, racchiuso nelle proprie radici, trasportato dai venti autunnali, con il quale Jorn si era identificato – al fine termine nell’identità del segno. 

Il viaggio, e con esso il racconto, si conclude laddove aveva avuto inizio: nel cuore dei segni cittadini, nelle pulsioni tra language e slanguage. Qui il writer, angelo o dannato, artista o artigiano, kool killer o graffitaro, attende impaziente sulla soglia del «confine» o dello «s/confine»; ma il fluire della narrazione, così come il procedere del passo non sembrano trovar pace: “lasciami decifrare ancora segni, lasciami lo s/bombolettare, lasciami calato nei graffiti e nelle conoscenze che sono di qua o di là del retinico” – lamenta il mio amico Shlomo, che ormai ha ritrovato la propria dimora nella soglia tra il “language e lo slang”, nell’immaginazione cittadina, ma anche, letteralmente in una casa che non è una casa, nell’abitazione delle tag, delle graph e delle “moralità sconfinate”.

Lo sconfine occupa un posto preminente nella conformazione dell’ambiente urbano, in quanto segno collettivo. La vita quotidiana, fino ai suoi più piccoli aspetti, condiziona la traccia dei confini e degli sconfini urbani: lo spazio in cui la “soggettività semica” lavora, si riposa, ha rapporti sociali e si diverte (forse!), insieme alle condizioni fisiche o psicologiche che rendono questo spazio più o meno interagibile, come anche tutte le interrelazioni semiotiche vitali, i segni che accolgono la maggior parte delle attività umane, cioè la strada, tutta la struttura della “città senza confine”, determinano e definiscono l’evoluzione archi-ambientale. Quando però si parla di segni urbani, nascono le contraddizioni. Le diverse opinioni presentano due grandi e profonde divergenze: una fra i criteri e gli interessi di coloro che costruiscono e i criteri e i bisogni di coloro che la vivono; l’altra, che, in realtà, è la conseguenza della prima, tra il costruito, considerato come oggetto dell’arte, come artisticità diffusa, e l’insieme degli edifici e delle costruzioni che costituiscono realmente l’habitat semiotico urbano. L’architettura, una delle sei arti classiche, è spesso considerata solo in rapporto ai capolavori del passato: templi greci, circhi romani, chiese romaniche, cattedrali gotiche, palazzi rinascimentali o barocchi eccetera; in altri segni, quei tipi di edifici che gli storici dell’arte classificarono tra i segni artistici più evoluti. 

Spesso i segni del costruito vengono identificati con i suoi monumenti e i suoi luoghi storici; mentre i segni dell’abitare contemporaneo, mancante di referenze stilistiche o formali classicamente codificate, viene trascurata ed è vista come risultato semiotico s/linguistico e non come continuità del gesto storico del costruire.

Anonimo – 2023

Si può affermare, infatti, che l’architettura come approccio progettuale è ignorata dal grande pubblico. Il semplice rapporto tra l’utente segnico, il produttore segnico e il costruttore ha perso sempre più significato. Le esigenze del cittadino, origine di questo rapporto, vedono diminuire la loro importanza sotto la spinta di un insieme di forze economiche, il cui promotore, che è l’impresario, diventa l’elemento principale del processo della costruzione; in questo modo l’architettura viene considerata da un punto di vista del tutto liberale-utilitaristico, cioè quello del rendimento del capitale-produttivo.  Di fronte a questa situazione progettual-finanziaria, la persona che ha bisogno di una dimora, di un luogo in cui lavorare o di un centro di in-formazione (lo dico sia a livello mediale che pedagogico), disporrà come unici elementi di giudizio per la sua scelta, di quelli imposti dalle condizioni capitalistiche del momento. Il cittadino è stato dunque escluso da ogni decisione dell’abitare o dell’habitat, non solo per quanto riguarda i criteri estetici con cui saranno costruiti gli edifici che vivrà, ma anche per quanto concerne i criteri di adattamento del soggetto e dell’oggetto abitativo visto in rapporto ai suoi bisogni specifici. 

Questa spaccatura, questo sconfinamento tra le forze che provocano il processo di formazione, di evoluzione e trasformazione dell’ambiente sociale e il cittadino, molto spesso succube dei risultati di questo processo, è un fatto che sta alla base della problematica segnica tra il “do ut des semiotico” dei nostri giorni. Nei secoli passati, fino alla metà del XVIII l’architettura si era sviluppata in un quadro unitario. Le forme, i metodi di lavoro e di progettazione, gli interessi e il comportamento dell’architetto, del cittadino e del produttore cambiavano secondo l’epoca e i luoghi, ma si sviluppavano nel quadro di rapporti capitali e ben definiti tra l’architettura e l’organizzazione sociale. I problemi particolari e le soluzioni variavano, ma la natura del costruire reso alla società dall’architetto – proprio secondo la traduzione che egli gli attribuiva, ovvero dei segni del progetto che si trasformavano in segni del lavoro abitato – coincidevano: di qui la pianificazione dei risultati e delle conseguenze segniche ottenute. Possiamo, quindi, affermare che, generalmente, l’opera della costruzione classica corrispondeva ai bisogni storici della società del tempo, nel suo insieme, e della pianificazione della domanda storica. 

D’altra parte, i valori estetici del progetto antico, per la loro fonte grammaticale e la loro pianificazione, in tutti i punti corrispondeva allo stato sociale e politico dell’epoca nel loro insieme e alla progettazione del cittadino di quel momento sociale; la loro corrispondenza in tutti i segni integrati agli altri fattori che sono intervenuti nel processo di costruzione, sono più facili da interiorizzare e permettono anche di spiegare le caratteristiche della struttura della città. 

A partire dal XIX secolo i rapporti produttivi dell’architettura con lo spazio urbano si trasformano radicalmente e questa rottura del confine, questa dissociazione come la chiamerebbe Remy de Gourmont, colpisce anche la sua espressione segnica. Da allora non si può definire l’architettura e le sue funzioni affidando un valore di preminenza agli aspetti estetici, perché l’estetica sfugge all’assimilazione produttiva e agli interessi culturali ed economici del periodo storico. I segni della produzione mettono in rapporto con la società codici nuovi, in realtà molto distanti da quelli tradizionali. Il segno del costruire moderno – rispondendo a Bruno Latour – non è una questione di conflitto tra moderno, post-moderno e antimoderno: anche i post-moderni si rifiutano di prendere in considerazione gli ibridi (forse non siamo mai stati moderni, così come non siamo mai stati postmoderni o altra cosa). Esso nasce piuttosto da mutazioni paradigmatiche: tecniche sociali e culturali provocate dalle conseguenze della rivoluzione industriale della metà del XVIII secolo. Cos’è, dunque, la modernità? Ma la domanda vale anche per la post-modernità, così come la risposta è oppositiva quanto l’interrogazione. Bisogna smettere di essere moderni, perchè forse è il caso di smettere di essere anti-moderni o post-moderni: in sostanza non è il canto del cigno dell’arte occidentale, ma il primo passo in direzione della costruzione di un nuova costituzione, di una nuova metafisica che i complessi fondamentali della comunicazione e del linguaggio potrebbero chiamare “metafisica sperimentale”. L’arte, in altri termini, non è morta; va soltanto progettata secondo rinnovati principi di semantizzazione (i riferimenti sono a Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni, tr. it. di G. Lagomarsino, C. Milani, Elèuthera, Milano, 2018, in part. p. 28 o p. 58). Ma fino all’inizio del Novecento, il movimento moderno non si estende, non si trova un metodo materiale di realizzazione dei principi architettonici conseguiti nel lungo tempo classico e non si riesce ad individuare quel collegamento necessario tra teoria dei segni e pratica dell’accettazione (attiva e passiva). Intanto, mentre l’apparizione di nuove semiosi urbane favorisce il rinnovamento delle espressioni architettoniche, sorgono miriadi di contraddizioni parallele a quelle più generali della società. Ormai la spinta ispiratrice dell’architettura non è più determinata da bisogni sociali condivisi, ma dalla speculazione finanziaria su di essi, in funzione di interessi monetari o ideologici privati. Quello che, secondo gli studiosi e gli storici dell’architettura moderna, era un sistema di forme e contenuti universalmente accettabili, è lontano dall’applicazione pratica, e il vuoto creatosi tra l’ideale teorico e la realtà quotidiana sempre difficilmente aggiustabile. 

Secondo l’ICOM (International Council of Museums): “Il Museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente: le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone (ndr: direi che soprattutto le espone, isolandosi nella sua caoticità espositiva) a fini di studio, educazione e diletto”. Si dà il caso che con la mutabilità persona-ambiente, con le conquiste tecnologiche di questi ultimi anni di storia, conquiste che realmente hanno trasformato il volto fisico di almeno mezzo pianeta (se non di tutto, riprodotto più volte), ciò che è istituzione permanente del luogo specifico di esposizione è diventato “dis-istituzione im-permanente” dello sconfinamento cittadino. 

Il Museo è il nome attribuito dagli antichi ai templi consacrati alle Muse ed alle scuole di lettere, arti e scienze. Oggi si chiama così ogni collezione di oggetti artistici sia dei tempi antichi che moderni. I Musei sono distinti in base alle loro raccolte, non soltanto di oggetti d’arte: esistono infatti anche Musei numismatici, archeologici, di scienze naturali, di storia, del progresso scientifico, dell’industria e della vita vissuta, così come esistono i musei del simulacro writer, che sarebbero una replica del teatro metropolitano. Così come il Museo sorge e si forma quando col progredire della cultura e del senso artistico le genti apprezzano il valore di opere e di resti che non possono più conservarsi nel loro luogo originario, soprattutto per ragioni di vetustà, così per paradosso eclatante si profila all’orizzonte un arte plurale, non riconducibile ad alcuna rassicurante cornice narrativa di tipo evolutivo. 

È in questo quadro che si produce la cosiddetta “svolta etnografica” dello slanguage, che per altro non si dà nei modi di un rapporto diretto ed esclusivo con l’antropologia museale ma molto spesso attraverso il filtro dei cultural studies (in particolare dei visual culture) e del pensiero post-coloniale. Si tratta peraltro di rapporti dinamici, in cui i diversi interlocutori si modificano nel corso dell’interazione: la stessa storia dell’arte può così rientrare in gioco perché si modifica anch’essa. Da un lato gli artisti continuano a lavorare sulla parete del Museo, sul supporto legittimato dalle Muse, mimando e parodiando le tradizionali pratiche museali-etnografiche per denunciare gli effetti oggettivanti (da Marcel Broodthaers e Hans Haacke a Jimmie Durham e Fred Wilson) oppure per condensare la contemporaneità in straripanti cabinet de curiosités (ad esempio le installazioni di T. Hirschhorn) dall’altro troviamo il vandalismo resistenziale di Jorn che apre la strada al post-situazionismo metropolitano dei graffiti di New York, di Los Angeles e adesso di tutto il mondo. Nell’area concettuale, per esempio, gli artisti sociali riformulano il loro percorso di diserzione dalla galleria e dal museo, nei termini etnografici del lavoro sul campo: Gabriel Orozco, Christian Muller, Renée Green, etc …; ma la frontiera rimane sempre l’intervento sul linguaggio della tradizione colta, che agisce sulla élite intellettuale e forse anche un po’ trash! E tra il Museo e il campo, tra il retinico e l’aretinico, tra il muro della celebrità e il muro dell’anonimato, esplode la doppia proposta dell’archeologia del segno moderno, riprendendo e oltrepassando la tematica duchampiana e surrealista del ready-made e dell’objet-trouve (Mark Dion, Meschac Gaaba et alias) si congiungono con la pratica vandalico-graffitistica mediamorfizzando il muro di Support-Surface e risemantizzando, così come intervenissero sul quadrato-nero-su-bianco di K. Malevic!

Anonimo- 2023

Le prese di posizione in favore del segno per il segno metropolitano riuscirono ad affermarsi compiutamente nel momento in cui venne liquidato ogni rapporto con una realtà estranea alla strada ed all’esistenza dell’opera sulle pareti della Bidonville. L’astrazione dalle Muse del Museo aveva contribuito a sviluppare l’idea di un’autosufficienza della segnatura metropolitana, preoccupata soprattutto del suo stato di anonimità. Privata di contenuti correlati con il mondo delle Muse, privata di ogni linearità linguistica, esclusa dai rapporti con una qualunque trascendenza espositiva accademica, l’arte del graffio, come ci racconta Brassai, poteva concentrare ogni suo interesse su un action painting originaria e metropolitana. Stravolgendo il motto di Reinhardt Art as art, il vandalismo rompe con l’ascesi per consacrarsi alle gioie del segno metropolitano: retinico e a-retinico. Inconsapevolmente, e senza per questo accantonare lo spontaneismo quotidiano, soggettivo e sociale, alcuni graffitisti, ovvero i soggetti attivi di un writerismo endogeno ed esogeno, mediale e istintivo, comportamentale ed estetico, biografico e pubblico, adottano tuttavia un atteggiamento più distaccato “nel” e “col” Museo, un approccio vandalico-biografico, contro-analitico e disturbatamente critico.

Le concrete modalità operative non sono più soltanto un insieme di mezzi messi al servizio della creazione astratta, ma dei pattern sociali dedicati alle pareti e ai supporti di cemento dell’architettura moderna. La soggettività della bomboletta, una volta praticata, una volta resa attiva, come ready-made, diventa il contenuto stesso dell’azione metropolitana. Mentre Support-Surface propone la decostruzione dei principi, i processi, le finalità, i mezzi, i costituenti elementari dell’arte, la scomposizione dell’opera nei suoi elementi basici (tela, cornice, supporto, piano e superficie, per un ritorno ad un nuovo grado zero della pittura) riporta l’arte definitivamente “fuori dal fuori”, un fuori che era già “fuori da se stessa”. Il segno che qui si ritrova sul gesto fotografato da Brassaï, è un segno-confine tra l’oggetto che serve a richiamare un altro oggetto o evento e la memoria dell’evento stesso. Il segno fotografico di Brassaï è una relazione fra due oggetti, e più precisamente è l’unione di una memoria di un’azione sociale e di una immagine sensibile, che vengono designati come immagine fotografica e come indice del graffito popolare urbano. Mentre la parte sensibile del segno (il significante) è oggetto di una percezione possibile, la parte concettuale (il significato) non ha esistenza fuori dalla sua relazione con il significante urbano: significante e significato sono posti nel medesimo momento, e se un significante senza significato è soltanto una cosa che non ha un senso, il significato senza il significante non è nemmeno pensabile. Non esistono segni fotografici, graffiti, dentro la comunità dei fotografi: il segno dei graffiti di Brassaï è sempre una documentazione di tracce lasciate nel vissuto urbano. Brassaï ha fotografato graffiti per le strade di Parigi per venticinque anni, dal 1930 alla metà degli anni ’50. Questo fotografo, cronista e novelliere francese di origini ungheresi ha catturato la Parigi notturna e segreta degli anni Trenta, durante il periodo di massimo splendore del Surrealismo. La rivista Minotaure pubblicò per la prima volta le sue fotografie, insieme a un testo sui graffiti, in un numero doppio di dicembre/gennaio (1933-1934). Per anni, Brassaï ha portato con sé piccoli quaderni, con i quali ha fatto rapidi schizzi di graffiti e ne ha registrato la posizione per fotografarli in condizioni di luce migliori o per vedere come si evolvevano. La collezione MACBA comprende un numero considerevole di fotografie di graffiti di Brassaï, scattate nel 1930, la maggior parte delle quali sono state stampate in un’unica tiratura nel 1950. In alcuni casi, i titoli indicano il nome della strada (Passage Prévot, Rue Perceval…) e tutti insieme comprendono il nome della sequenza. Brassaï li classificò secondo generi etnologici di sua invenzione: L’amour, Naissance du visage, La mort, Images primitives e La magie. Il riferimento all’automatismo e ai cadavres exquis nelle fotografie dei graffiti è inevitabile e riflette l’interesse di Brassaï per la natura meravigliosa dei ritrovamenti fortuiti, delle strade e dell’arte dei bambini e dei malati di mente. Ciò che affascina Brassaï è il gesto spontaneo dell’uomo moderno che indispettito, graffia il muro, per riappropriarsi della città industriale, un pò come gli uomini di Lascaux facevano per esorcizzare la paura della natura e approcciare alla forma più primitiva dell’alterazione. In questa serie di fotografie, che compongono una ricerca antropologica sull’originario grafico, sembra emergere l’inconscio collettivo dell’umanità che resiste alla regolamentazione della vita moderna, come direbbe Michel Foucault. Questi volti ridicoli e queste facce deformate trasmettono una strana energia vitale, uno spirito ludico e allo stesso tempo una visione aggressiva e stregata del mondo. La prima mostra di fotografie di graffiti di Brassaï si tenne al MoMA di New York nel 1956, con il titolo Language of the Wall. Graffiti parigini fotografati da Brassaï. La mostra è stata esposta all’Institute of Contemporary Art (ICA) di Londra due anni dopo. «Questi brevi segni non sono altro che l’origine della scrittura, di questi animali, di questi mostri, di questi demoni, di questi eroi, di questi dèi fallici, niente di meno che di elementi della mitologia».

Brassaï, « Graffiti », da « Images primitives », 1935-1950 – © Centre Pompidou / Photo A. Rzepka / dist. Rmn-GP, © Estate Brassaï

Con queste parole Brassaï commentò, nel 1933, la prima pubblicazione di alcune sue fotografie di frammenti di muri a Parigi. La serie Graffiti, su cui il fotografo lavorerà per più di 25 anni, conta più di 500 immagini, alcune delle quali ancora sconosciute.  Il risultato è uno sguardo originale e approfondito rivolto al gesto spontaneo «sul e nel muro». Un’arte che si vuole “preistorica” è anche un’arte che si vuole “antistorica”, cioè capace di proiettarsi sul piano dell’interiorità pura, slegata e autonoma dalla realtà esterna? Questo problema lo troviamo formulato, su un piano differente, ma affine, anche nei riferimenti di Kandinsky alla «facoltà di cancellare l’esteriorità» (V. Kandinsky, F. Marc, Il cavaliere azzurro (1912), SE, Milano, 1988, p.145), un tentativo di sviluppare una pratica che mostra di avere l’arte popolare, quella dei bambini, quella dei dilettanti – l’outsider artist in senso lato – intimamente anti-accademica. Ma proprio per questo più libera di avvicinare la sfera dell’inconscio senza filtri critici snaturanti. Una possibilità evidentemente aperta anche all’arte psicopatologica. Il mondo delirante del graffitaro spontaneo, documentato da Brassaï, non è in quanto tale un mondo irrazionale o lontano dal confronto sociale e pubblico, ma è certamente un mondo autoreferenziale, autistico, metropolitano, chiuso in se stesso e non disponibile al confronto con la realtà fuori dalla realtà della strada e col senso comune che non è altro che il senso comune occulto e nascosto dell’evidenza sociale anonima e urbana (vedi il mio contributo in Città senza confine, 1984). Bisogna allora riconoscere, come fa Brassaï, che l’arte della fotografia e del writer spontaneo ha rappresentato un modello per l’arte d’avanguardia proprio per la capacità di frantumare l’orizzonte del tempo storico e proiettare nell’immagine i contorni di un mondo interiore libero e immediato, prossimo alle sorgenti della Gestaltung e non contaminato da alcuna costrizione di natura storica e concreta, galleristica e museale. Si realizza nell’arte dei «writer spontanei», forse, il desiderio più profondo dell’artista moderno di regredire fino a recuperare la possibilità di un’espressione autentica e assoluta. Questo è il punto debole della nostra epoca, la sua tragedia e la sua contorsione, perché questa esperienza primaria preesistente al sapere, che è l’unica fonte di opere ispirate, sembra esserci rifiutata, sembra essere messa a tacere come l’esperienza autentica che scatuisce dalla voce diretta del popolo. Tuttavia, l’impossibilità di attingere alla dimensione originaria della creatività umana, non sembra riguardare soltanto i “writer spontanei”. Anche gli sperimentatori dell’arte moderna sono ben lontani dal realizzare l’ideale di un’espressione pura e antistorica. È un discorso che dovrebbe valere allora anche per la gestualità performatica di tutti i primitivi contemporanei, lontana quanto ogni altra forma di espressione dalle sorgenti creative originarie e più associate al sistema economico dell’arte. 

Non esiste, dunque, un prodotto artistico primitivo e originario, che sia manifestazione diretta della sfera della Gestaltung? Esiste nell’arte, intesa in senso ampio, un impulso regressivo (che il laboratorio di Città senza Confine ci ha permesso di osservare in azione) che è evidentemente proiettato alla ricerca di un contatto con l’inconscio e con la sfera pre-razionale della psiche. È a questa altezza che la riflessione di Brassaï ci aiuta ad assume i caratteri estremamente problematici del nostro contemporaneo, i caratteri sorprendenti del «documento fotografico» che enuncia il «graffio originario», ma anche le suggestioni della vita di tutti i giorni. 

Quella sfera pre-razionale che a volte si smuove nello slanguage dell’orizzonte pittorico e scultoreo – la sfera che l’arte psicopatologica, l’arte primitiva e quella moderna, tentano di rievocare – viene fatta risalire ad una struttura tipica della psiche umana, il «dominio dell’Immaginario» sociale, la sfera comprensiva di quelle che Brassaï definisce «les productions fantastiques de l’esprit humain»; una produzione che mette in crisi, totalmente, il concetto di possesso del mercato artistico borghese: il mito, la religione, il sogno, il delirio e, per l’appunto, l’arte “turbabile” e “turbata” dalla sua stessa spontaneità. Una struttura che è primitiva non già in senso cronologico, ma esistenziale e psicologico, una struttura che si fa segno per strada, una scrittura simbolica che si fa riconoscimento di se stessa su se stessa e che non vuole avere niente a che fare con le regole di sistemazione del Mausoleo Museale. Alterstorica, dunque, e non semplicemente preistorica, è il piano su cui si situa la ricerca estetica dell’arte moderna. Un piano che richiama la dimensione dell’inconscio collettivo, o – è un rimando tutt’altro che velato alla psicologia di Jung – la «région inférieure archétypique», che si cela a grandi profondità, molto al di sotto della sfera cosciente e più giù ancora di quella dell’inconscio individuale. 

Di questa realtà nebulosa, irrazionale e universalmente umana, il terzo occhio d’avanguardia di Brassaï ha creduto di rintracciare il riflesso nei prodotti artistici rimasti per strada, dei primitivi e degli irregolari tra i moderni adepti, genericamente accomunati dal fatto di praticare vie alternative al razionalismo classico. Ma questo non è forse un tratto tipico, e ben riconoscibile, dell’umanesimo contemporaneo? Il mondo della cultura, e quello della politica, non meno dell’arte figurata, hanno cercato di percorrere la strada che riconduce alla dimensione essenziale e originaria dello spirito umano, seguendo la traccia dell’arcaismo e del primitivo, non di rado allontanandosi in modo intenzionale dai ristretti confini del razionalismo.

Brassaï tocca in effetti molto da vicino la materia incandescente delle derive primitivistiche dell’arte e della cultura del ‘900. L’arte contemporanea, o almeno quella che cerca i suoi modelli nell’universo del primitivo e dello psicopatologico quotidiano, con il suo procedere ostinato verso le profondità dello spirito, partecipa certamente del carattere induttivo e alterato di tanta parte della cultura novecentesca. Ma non per forza vi sta dentro inerte come un tronco nella corrente della storia. Essa non è solo sintomo, ma anche strumento diagnostico del “disagio” dell’umanesimo contemporaneo ed è in questa chiave, mi pare, che Brassaï lo vuole documentare e leggere. Il suo impulso involutivo – l’indossare «il graffio come bassorilievo vandalico», che non per forza coincide con la volontà di negazione e liberazione definitiva dalle catene del pensiero razionale – può anche essere visto come ricerca, certo molto problematica, di un umanesimo più ampio, o come tentativo di dialogo con gli strati rimossi della civilizzazione occidentale, che più volte nella storia del Novecento riaffiorano nelle forme di una sinistra “barbarie rincorsa” e sedimentata in modo incontrollato. Il percorso a ritroso verso il mondo degli archetipi è dunque senza dubbio azzardato e sfuggente, ma anche necessario per riconoscere, nascosto dietro il volto levigato della modernità e della tecnica, quello primitivo del “bestione vichiano” (G.B. Vico), col suo linguaggio arcaico, straniante, ma tutt’altro che inattuale. Alla tela viene sostituito il muro o altre superfici ambientali, alla cornice viene sostituito il confine cittadino e il gioco del dentro e il fuori centro, al supporto museale vengono sostituite intere architetture che rappresentano la critica della Galleria d’arte e del Sistema Artistico Integrato e Confezionato (SAIC). Il linguaggio dei graffiti si attacca sul sistema del piedritto cittadino. Le precise caratteristiche strutturali dei muri metropolitani sono decorate dal dilagare dello slanguage. Ci sono alcuni segni metropolitani che, più di altri, semplicemente abbracciano il caos come parte ribaltante della loro stessa superficie, e non c’è modo di decostruirli per cambiare il loro approccio. Essere accanto a loro può essere un’esperienza turbolenta, una danza selvaggia tra le onde imprevedibili della vita quotidiana della metropoli. Eppure sono fatti così, per loro il caos è uno stato orizzontale di normalità.