Il grande climber Tommy Caldwell: “Scalo e racconto l’urgenza di salvare il nostro pianeta” - La Stampa

Lo spirito del luogo. Ti assale uno stato di irrequietezza. Tommy Caldwell parla di «ansia», quella che ormai insegue soprattutto i giovani, la preoccupazione per l’ambiente, per il destino del nostro pianeta. «E di tutti noi», dice lo scalatore che ricorda come la «comunità degli alpinisti non può non sentire quanto sta accadendo perché i segni in montagna sono esasperati, ghiacciai in agonia». Lo scalatore di fama mondiale è nato in Colorado, ma le sue pareti, la sua montagna sono nel parco dello Yosemite, in California. E quei mille metri verticali di granito di El Capitan sono quasi un’ossessione per lui. «Parola negativa… però, certo è la mia parete, più che per altri. È la mia grande avventura». Il bosco di conifere, le cascate e quel gigantesco monolite che ha al centro una piega emergente, non a caso definita «The Nose», il naso.

In quella valle a «U» non si può che amare la natura, respirarla. E quel respiro è storia. Ecco lo spirito del luogo. Caldwell, con l’amico Kevin Jorgesen, sulla parete più difficile, anzi ritenuta dai più impossibile, è diventato leggendario: 19 giorni sulla «Dawn Wall», 900 metri di verticalità con rare asperità e tutte minuscole, quasi come arrampicare su una lavagna.

Eppure lui sul palcoscenico del palazzetto dello sport di Cuneo, davanti a 1.500 persone, sembra scivolare via, raccontare quell’impresa che stupì il mondo più in fretta di quanto dovrebbe perché deve arrivare al punto, a quello che fa oggi, «tentare di dare coscienza per questa nostra Terra che maltrattiamo». Quando la valle a «U» dello Yosemite era soltanto della natura, un uomo venuto dalla Scozia, un ingegnere che ci capitò alla fine dell’Ottocento, ne rimase abbagliato. Si chiamava John Muir. L’eredità ambientalista è la sua. Perché vide la meraviglia e la volle preservare a tutti i costi. Dissero che era un pazzo. Perché aggettivava i terremoti, le valanghe o le alluvioni come se fossero beni preziosi, gioielli. E osò contrastare il pensiero comune indicando quella «U» dalle pareti lisce di granito figlia di ghiacciai scomparsi. Per i geologi la valle era figlia di terremoti devastanti. Si sbagliavano.

E Caldwell ha respirato quella storia, la volontà incrollabile di Muir. A Cuneo, sul grande schermo alle sue spalle compare il titolo della sua serata: «Anything is possible». Perché sono quelle tre parole che nel gennaio del 2015 gli scrisse in un telegramma di complimenti il presidente degli Stati Uniti Obama.

E Tommy racconta che lui non l’ha letto: «Il mio telefono aveva bloccato quel messaggio». Lo lesse dopo, ne fu sorpreso. Era già accaduto nel 1961 che un presidente (John Kennedy) vergasse parole di elogio per un alpinista. Telegramma che raggiunse Riccardo Cassin quando riuscì a salire l’immensa parete Sud del McKinley, il Denali, la montagna più alta del Nord America. Allora Tommy ha capito «che con il racconto delle scalate potevo far pressione sulla politica, sulla società perché si pensi a tutelare, conservare il nostro mondo». Muir non era famoso, se non come persona stramba che si era costruito una capanna vicino alla cascata nello Yosemite, ma riuscì a trascinare nella vallata, all’inizio del Novecento il presidente Theodore Roosvelt. Arrivò con la scorta, ma ben presto rimase solo con l’ingegnere venuto dalla Scozia. Dormirono all’addiaccio e si svegliarono coperti da un velo di neve. Lo Yosemite diventò intoccabile, parco nazionale.

Caldwell al pubblico divertito, ma soprattutto sorpreso, racconta di quel «momento surreale in vetta al Capitan. Dopo 19 giorni ero felice e anche un po’ triste. Un miracolo, eravamo stati fermi dieci giorni in parete per aspettare che la ferita al dito di Kevin guarisse e poi in due giorni siamo arrivati in cima. Surreale, completamente immerso in un posto così bello e con un amico così caro. È come se finisse una storia d’amore». E dopo tanta notorietà (c’erano quindici televisioni al piede del Capitan) Tommy si è domandato che fare. Incontra un altro genio dell’arrampicata dello Yosemite, Alex Honnold che senza alcuna sicurezza ha arrampicato la via «Freerider» e il documentario che lo ha testimoniato vince l’Oscar. Anche il film di Caldwell e Jorgesen ha un successo strepitoso. In più Tommy e Alex vincono il Piolet d’Or, un altro Oscar, ma dell’alpinismo, per aver fatto l’attraversata del gruppo del Fitz Roy, in Patagonia. «Ci conoscevano tutti - dice Caldwell -. La nostra voce contava e diventiamo padri e allora è cambiato tutto, il futuro ha un altro orizzonte, coincide con il destino del pianeta». E così ecco che le loro avventure hanno un obiettivo in più, salvare ciò che l’uomo sta distruggendo, il territorio selvaggio.

La meta è l’Alaska. Tommy: «Ho pensato di andarci in bicicletta, di arrampicare lungo il viaggio e di aver come scopo di salvare la foresta di Tongass. Un posto nobile che è in pericolo, disboscamenti, cave. Ne ho parlato a Washington, al Senato, ma, mi son detto, io faccio altro, io scalo e allora ho legato le due cose, scalare e raccontare con le mie avventure la necessità di tutelare il territorio». Dal Colorado all’Alaska in bici, quasi quattromila chilometri e di mezzo anche un pezzo di oceano. «Ne ho parlato a Alex - racconta Tommy -. E subito mi ha detto “no, se lo faccio mia moglie chiede il divorzio”. Lui aveva un accordo con National Geographic per un documentario su scalate in Africa. Gli ho detto convincili a cambiare meta. Insomma, si è convinto lui e anche il National. Siamo partiti». Due mesi, Colorado, Winsconsin, British Columbia, tutto in bici, poi barca a vela e approdo in Alaska. Meta. La catena del Devilstone, la Roccia del diavolo, monolite che sembra il Fitz Roy oltre la foresta di Tongass. Scalano di tutto e attraversano l’intero gruppo del Devilstone. Missione compiuta «e messaggio per la foresta di Tongass lanciato».

Il documentario si vedrà a ottobre. Tommy Caldwell saluta Cuneo: «Questa è la grande sfida, combattere l’ansia ecologica. Cercare di sensibilizzare, di far cambiare la politica. E se non ci ascoltano, lottiamo».

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