Ritmato dalla musica rock e ben rappresentato dalla bicicletta di Marlon Brando nel film cult Il Selvaggio (1953), lo streetwear nasce negli anni Sessanta come “terremoto di gioventù” – il cosiddetto youthquake – assia come desiderio di spostare l’asse narrativo dal conformismo borghese al nuovo. Di contro alla moda mainstream, lo streetwear rappresenta tutto ciò non si vede perché underground, “sottotterra”. Quando in anni più tardi, tra gli Ottanta e i Novanta, una parte dei giovani prende maggiore coscienza del fatto che il pensiero dominante non solo non rappresenta la sua realtà, ma la falsifica, vi oppone altro. È così che si inizia a parlare di street fashion, a significare un approccio al guardaroba più vicino alle strade e alla quotidianità, lontano allo stile asettico e pulito dei salotti conservatori. Si inizia a parlare anche di subculture, ovvero dei movimenti di ribellione giovanile: hipster, rockers, mods, skinheads e, più notoriamente, punk, sono nomi che entrarono nel vocabolario della modernità. L’estetica occidentale tradizionale viene altresì sconfessata dalle nuove generazioni, perché ritenuta noiosa. È in tale contesto che vediamo l’emergere di un’estetica di mezzo, fra lo streetwear e la sua declinazione sportiva, lo sportswear: il ‘nuovo’ preppy. Il marchio che, sul finire degli anni Ottanta, si fa interprete di tale estetica è Tommy Hilfiger. E il capo eletto a suo simbolo è la polo.

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Rich Polk//Getty Images
TommyLand Tommy Hilfiger, Primavera Estate 2017

È il 1968 quando, nel pieno del fermento hippie, Tommy Hilfiger, un giovane della piccola cittadina di Elmira, si reca in vecchi depositi newyorkesi per comprare jeans a zampa di elefante in stock e venderli agli studenti della sua città sul bagagliaio di una Volkswagen Maggiolino. All’epoca ha diciotto anni, poche centinaia di euro nel portafoglio e qualche prodotto racimolato qua e là: jeans, T-shirt, dischi e incensi. Apparentemente, non hanno nulla a che fare tra di loro. Ma, leggendo fra le righe, vi troviamo un incrocio di gusti musicali e correnti culturali ­ – e soprattutto, contro culturali – che faranno l’identità del marchio. Gli articoli in questione vengono venduti all’interno del negozio allora inaugurato da Tommy Hilfiger nella sua città natale, People’s Place, la cui traduzione è, significativamente, “Il luogo delle persone”. Si tratta infatti di un negozio fortemente calato nel contesto sessantottino, un luogo non solo di merci – T-shirt e jeans in primis – ma anche di musica, cultura pop, arte e dialogo. L’esperienza di People’s Place ha però breve durata: fallisce in poco tempo, schiacciato dalla concorrenza.

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Daniele Venturelli//Getty Images
Tommy Hilfiger, Autunno Inverno 2018/19

E tuttavia, dopo anni di gavetta e grazie all’incontro fortuito con Mohan Murjani, un investitore indiano in cerca di un giovane designer per lanciare una linea di sportswear, Tommy Hilfiger vede il delinearsi di una nuova possibilità. Nel 1985 viene fondato il marchio che porta il suo nome – seppur di proprietà di Murjani – e, con lui, lo stile preppy trova un nuovo versante di sperimentazione, ben ritratto nel classico dei classici dell’armadio by Tommy Hilfiger, la polo. Un termine presente nel vocabolario americano ancor prima che in quello della moda, i preppies sono i giovani americani delle Ivy League, le università private d’élite degli Stati Uniti. La loro uniforme vestimentaria prevede un numero limitato di capi basic, accezione peggiorativa di ‘semplici’: una maglietta in cotone con colletto, chiusa da due bottoni – la polo – e un paio di pantaloni di tela o, nella versione femminile, una gonna plissettata di media lunghezza. Nella sua operazione di messa a nuovo del modello preppy, Tommy Hilfiger estrae tali indumenti dal dominio del basic, per immergerli in una cultura ad ampio spettro fatta di icone del rock come i Rolling Stones e Jimi Hendrix, elementi sportivi – come le visiere da baseball o gli accessori da cheerleader – colori e nuove prospettive.

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“Ho sempre amato l’estetica classica delle prep-school, quella tradizionale delle Ivy League e i vestiti indossati dai marinai e atleti. Volevo prendere questi elementi familiari e senza tempo, per conferire loro un’attitudine più rilassata, moderna e cool” – questo, in sintesi, il pensiero di Tommy Hilfiger. La polo, un classico dell’armadio made in USA divenuto popolare negli anni Trenta, ovvero da quando il giocatore francese René Lacoste la mise a parte del suo ensemble da tennis, viene declinata dallo stilista in versioni inedite. Tela bianca di continue sperimentazioni, nel 1979 egli propone una prima versione, la 20th Century Survival Top, fortemente ispirata all’universo marinaresco, nel 1994 disegna un modello per il tempo libero, e nel 1995 definisce il design del suo modello più noto, la Tommy Hilfiger Classic Polo Shirt, con righe verticali di varia dimensione, verdi, rosse, blu e bianche, e logo miniaturizzato sul lato. Ne seguiranno altre, come la Sailing Polo, ispirata all’uniforme navale, l’Athletics, la Golfe la Slim, fino alla sua ultima declinazione, quella in formato vestito, indossata da Kendall Jenner nella campagna Kendall and Friends (2024). Piqué di cotone, motivo tricolore sul colletto – divenuto logo del brand alla fine degli anni Novanta – colori intensi e disposti a blocchi, righe verticali e motivi sportivi: questi sono infine gli elementi costituenti le polo di Tommy Hilfiger, che ci permettono di riconoscerle tra mille al di là dei singoli modelli.

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