L'ex ministra Marta Cartabia: «La parola carcere non c'è nel testo della Carta» | Corriere.it

L'ex ministra Marta Cartabia: «La parola carcere non c'è nel testo della Carta»

diPaolo Foschini

La presidente emerita della Corte Costituzionale: «Rieducazione e interventi sociali, reinserimento vuol dire più sicurezza per tutti». Riforme e giustizia riparativa

La cosa pazzesca di quando a farti leggere un testo è qualcuno che davvero «la sa» - come si dice - è che all’improvviso ti apre gli occhi sul fatto che nel testo c’è già scritto tutto, bello chiaro, e che ancora più chiaro e spesso più importante in certi casi è quello che non c’è. Così Marta Cartabia - presidente emerita della Corte Costituzionale (prima donna a esserlo) poi ministra della Giustizia con il governo Draghi, oggi tornata al suo mestiere di prof di Diritto costituzionale alla Bocconi di Milano, la città in cui si era laureata con una tesi sulla possibile esistenza di un «Diritto costituzionale europeo» - quando le spieghi che vorresti intervistarla sull’articolo 27 della Costituzione e sulla sua applicazione attuale nelle carceri italiane sente per prima cosa la necessità di precisare, con la pazienza di chi è costretto a spiegare quel che chiunque ai suoi occhi dovrebbe ricordare: «Intanto occorre attenersi al testo dell’articolo. È vero che in genere si è soliti collegarlo al tema del carcere. Ma basta leggerlo, in realtà, per vedere che in questo articolo la parola carcere neppure c’è».

Oddio... non c’è!
«Infatti si parla solo di pena, senza specificare. Anzi, sempre per stare al testo: “le pene”, al plurale. Il che significa certamente da parte dei nostri Costituenti la consapevolezza di un tema ineludibile, quello delle sanzioni per i comportamenti portatori di un disvalore. Ma indica anche che il “come” di tali sanzioni è tutto da immaginare. E noi dobbiamo stare attenti a non sovrapporre l’esistenza innegabile di una tradizione carceraria al fatto che tale tradizione, diciamo pure abitudine, non si possa cambiare».

Vede che ci siano stati passi avanti in questo senso?
«Quelli compiuti negli ultimi decenni sono appunto consistiti, soprattutto, nell’immaginare pene diverse dal carcere. Oltre naturalmente, nel 2007, all’abolizione completa della pena di morte che proprio l’articolo 27, nell’ultima riga, fino ad allora consentiva che fosse regolata dalle leggi militari, in tempo di guerra».

E poi?
«Direi che alcuni passi avanti ci sono stati. Sia attraverso le misure alternative alla detenzione, che vengono decise dal magistrato di sorveglianza spesso dopo che il condannato è comunque passato dal carcere; sia oggi attraverso le pene sostitutive, che invece sono decise dal giudice a conclusione del processo. E quindi permettono di evitare il passaggio dal carcere, dove non è necessario: e questo fa una bella differenza. La messa alla prova può essere assegnata addirittura prima della sentenza, sospende il processo e se il percorso si conclude bene evita anche l’iscrizione nel casellario. Lo scopo ultimo è quello di uscire dal tunnel mentale che prevede il carcere come unico sbocco della sanzione penale. Idea che, come abbiamo visto, nella Costituzione non c’è».

È uno dei punti della riforma voluta da lei come Ministra.
«E mi risulta che attualmente le persone fuori dal carcere con misure o pene alternative siano oltre 70mila rispetto a circa 65mila, se non più, in carcere».

Che sono comunque il doppio dei detenuti degli Anni 80, con trenta suicidi nei primi quattro mesi del 2024.
«Numeri tremendi. A maggior ragione se si pensa che allo stesso tempo i reati più gravi sono diminuiti in modo verticale. Mentre il sovraffollamento è tornato ai livelli del 2012, quando con la famosa sentenza Torregiani l’Italia fu condannata dall’Europa per tortura. Il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, ha definito recentemente il sistema carcerario italiano di oggi come una discarica sociale in cui finiscono perlopiù persone con problemi di dipendenza o psichiatrici. Che in stato di detenzione potranno solo peggiorare. In entrambi i casi si sconta la mancanza di strutture idonee, fuori dal carcere, in cui ricevere le cure di cui avrebbero bisogno».

Fin qui le modalità delle pene. E la loro funzione?
«L’articolo 27 su questo è chiaro: la parola chiave è rieducazione. Che a mio parere va intesa nel suo senso più ampio: dare una seconda possibilità, consentire a chi ora è in carcere di uscire con una prospettiva nuova sulla sua vita. Diciamo che modalità di esecuzione e finalità delle pene sono legate tra loro a doppio filo».

A che punto siamo?
«La Costituzione è molto realistica, indica una direzione da percorrere e infatti usa l’espressione “tendere alla rieducazione del condannato”: tendere a, suggerisce l’idea di un lavoro inesauribile, di un perenne avvicinamento a una meta mai definitivamente raggiunta. Ma indica anche che bisogna continuare a provarci, per conquistare ogni volta un metro in più».

Come? Con quali priorità?
«La prima che indicherei è interrogarsi sulle radici profonde della criminalità. E se, come suggerisce il direttore di San Vittore, la maggior parte dei detenuti vive situazioni di disagio sociale, cioè emarginazione, dipendenze, problemi psichiatrici, allora forse bisogna investire in strutture, istituzioni, comunità esterne al carcere che si prendano cura di quel disagio, in modo da prevenire la commissione di reati. Queste strutture mancano».

E quando comunque si arriva in carcere?
«Il carcere è un universo abitato da situazioni molto diverse l’una dall’altra. E sono tutte situazioni che richiedono competenze specifiche. Avere a che fare con detenuti in 41 bis è diverso dall’occuparsi di un detenuto che soffre di dipendenze o con problemi psichiatrici. La popolazione carceraria sta cambiando e questo ci porta all’altra priorità: la formazione continua di tutto il personale».

Lei da Ministra aveva visitato Santa Maria Capua Vetere, ora c’è l’inchiesta sulle violenze al minorile milanese Beccaria. La formazione basta?
«Non è l’unica cosa, naturalmente c’è la scarsità di personale da colmare e ci sono i problemi delle strutture, ma senza la formazione il resto sarà inutile. Quando sono arrivata al Ministero ho scoperto con stupore che non si facevano concorsi per le direzioni delle carceri da più di 25 anni. Ma oltre ai concorsi servono corsi, continui».

Ultimo punto, quello centrale: ma una società con meno carcere e più alternative, diciamo così, siamo sicuri che sia più sicura?
«Poco ma sicuro, parlano i numeri: un detenuto che ha fatto un percorso di reinserimento è meno incline alla recidiva, un ragazzo che in carcere ha subito violenze ne uscirà più violento. Basta vedere le statistiche. Se non per convinzione, facciamolo per convenienza: stare con la Costituzione vale sempre la pena».

10 maggio 2024 ( modifica il 11 maggio 2024 | 10:20)