Il ritorno di Casty su Topolino, con un nuovo, grande fumetto d'avventura - Fumettologica

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FocusIntervisteIl ritorno di Casty su Topolino, con un nuovo, grande fumetto d'avventura

Il ritorno di Casty su Topolino, con un nuovo, grande fumetto d’avventura

Sin City, il capolavoro di Frank Miller, in un'edizione "ultra-limited", disponibile in solo 300 copie numerate.

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Casty a Comicon Napoli 2024 durante una sessione di dediche al suo stand nella Artists’ Hall | Foto di Andrea Fiamma per Fumettologica

Si dicono tante cose di Casty. Che è il ponte fra la tradizione disneyana di Romano Scarpa e Floyd Gottfredson e la modernità; che è un fumettista d’avventura, abile narratore di atmosfere tanto inquiete quanto bonarie; che è uno dei migliori autori italiani degli ultimi vent’anni. Che è, insomma, un classico in divenire.

Sono tutte verità che dimenticano forse la caratteristica più marcata delle storie di Casty: la costruzione di mondi. Dotato di un ottimo spirito inventivo, che si tratti di vicende colossali o contenute, a Casty non manca mai l’immaginazione, la capacità cioè di creare mondi lontani, concetti intriganti, ambientazioni fantastiche, visioni, personaggi.

Classe 1967, Casty, nome d’arte di Andrea Castellan, cominciò a lavorare nel 1993, quando, dopo essersi proposto a diversi editori, tra cui Sergio Bonelli, ricevette la convocazione di Silver, che gli propose di sceneggiare Cattivik e, in seguito, Lupo Alberto. Nel 2003 approdò al settimanale Topolino, prima scrivendo e poi anche disegnando alcune delle migliori storie Disney mai realizzate.

Nelle sue mani Topolino è diventato protagonista di storie thriller e fantasiose, innervate di un umorismo pacioso, leggero ma carico di messaggi, bilanciando un tono adulto e fanciullesco allo stesso tempo. Casty non ha perso nemmeno l’occasione di creare personaggi nuovi, come Eurasia Tost, indomita archeologa alla ricerca della civiltà di Atlantide, protagonista di un ciclo di storie molto apprezzate. 

Dopo otto anni dall’ultima avventura del ciclo, Casty è tornato in queste settimane su Topolino con un nuovo capitolo, Topolino e la Spectralia Antartica, che lo ha visto inoltre lavorare ancora una volta come autore unico dopo diverso tempo.

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Una tavola della prima puntata di “Topolino e la Spectralia Antartica” di Casty

Com’è stato tornare a lavorare come autore unico su una storia, per giunta del Ciclo di Atlantide?

È stato un lavoro appassionante ma anche parecchio faticoso: ho ricevuto l’incarico di riprendere il Ciclo a dicembre 2023, con consegna a marzo 2024: 116 pagine in 120 giorni. Significa produrre quasi una tavola completa (scritta, disegnata e inchiostrata) al giorno.

Ho avuto liberi Natale e Capodanno… anzi, Capodanno no, ero sul tavolo a disegnare e mandavo gli auguri agli amici con allegati i disegni della Spectralia. [ride] Ma ne valeva la pena, ci tenevo molto a realizzarla.

La storia era già pronta?

La storia era pronta a livello di soggetto ma, per quanto uno abbia in testa la trama nel suo insieme, quando la sceneggi devi sistemare un sacco di cose: il giropagina, le gag, tagliare il superfluo, mettere a fuoco ogni passaggio. C’è voluto un po’ di tempo per sistemare i testi e perfezionare tutto.

È stato il progetto più dispendioso della tua carriera, a livello di fatica?

Diciamo che è nel podio dei tre più faticosi. [ride] Nel 2009 realizzai Topolino e il mondo di Tutor: 61 tavole, in 21 giorni. Era una storia per la giornata mondiale della Terra, realizzata su indicazioni della redazione, che desiderava un’avventura sull’ecologia scritta da me, perché era un tema molto nelle mie corde. 

Ma fra i tempi di scrittura e l’approvazione mi rimasero solo 21 giorni per disegnare: significava realizzare tre tavole al giorno, più o meno. Mi chiesero se eventualmente potevano affidarla a tre disegnatori diversi, ma io garantii che l’avrei consegnata in tempo realizzandola da solo: fui puntualissimo, ma la mia schiena non ne fu per nulla contenta.

E l’altra faticaccia?

Tutto questo accadrà ieri. Io e Massimo Bonfatti avevamo due anni di tempo per realizzarla, ma per motivi su cui non mi dilungo arrivammo a 30 giorni dalla consegna con solo una dozzina di tavole effettivamente pronte: il resto è stato quindi disegnato e inchiostrato in un mese. Finivo di disegnare alle quattro del mattino mentre gli uccellini si svegliavano!

Tempistiche a parte, Topolino e la Spectralia Antartica è stata davvero complessa da realizzare: la trama è ricca di flashback e colpi di scena come nelle mie storie più classiche. E riguardo al disegno ho cercato di affinare ancor più la mia tecnica, con vignette molto dense e impegnative, soprattutto nelle parti finali. Ho inoltre inchiostrato e colorato personalmente parecchie tavole.

La redazione e chi ha letto la storia in anteprima l’ha apprezzata molto, ma ovviamente a decretare il successo di una storia è sempre il pubblico che acquista il giornale, ovvero i lettori, grandi e piccoli, di Topolino. Vedremo.

Hai dei dubbi?

Sai, può anche essere che questo tipo di avventure sia diventato… demodé. Non so. L’ultimissima generazione di lettori è stata abituata a un tipo di narrazione molto più pacato, spesso con risvolti intimisti volti a delineare più nel dettaglio il carattere dei diversi personaggi. 

La Spectralia invece ti prende e ti scaraventa in un vortice senza sosta di avvenimenti e informazioni che devi giocoforza assimilare per poter godere a pieno della storia. Bisogna leggerla con concentrazione, e forse non tutti i lettori, oggi, sono disposti a fare questo sforzo per un’avventura con Topolino.

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Una vignetta da “Topolino e la Spectralia Antartica” di Casty

Questo può essere vero per i lettori più piccoli, ma penso che i tuoi ammiratori adulti non aspettino altro che storie così.

Hai ragione, però io penso sempre a tutto il pubblico, anche quello più giovane. Pensa solo al fatto che nella storia è presente Eurasia, un personaggio di ormai 20 anni fa: per dei bambini di 10 anni, che leggono adesso il settimanale, venti anni significa il passato remoto. 

Al tempo invece era un bel riferimento a Lara Croft e alla serie Tomb Raider, videogiochi e film spopolavano. Resto dell’idea comunque che se un personaggio è valido, e ha qualcosa di nuovo da raccontare, resiste a ogni moda.

A te sembrano passati 20 anni?

No, perché queste storie le ho in testa da anni, mi ronzano nel cervello continuamente. Per riprenderle è stato sufficiente aggiornare le trame alle nuove tecnologie: oggi abbiamo smartphone, droni, Google Maps… In pratica si è trattato solo di svecchiarle, modificando opportunamente alcuni passaggi.

Comunque dicevi che un primo feedback positivo su Topolino e la Spectralia Antartica già l’hai avuto dalla redazione.

Sì, è piaciuta molto… altrimenti, ovviamente, non l’avrebbero approvata. [ride] C’è stato comunque un minimo di negoziazione, consapevoli io e loro che la sensibilità generale rispetto a vent’anni fa è molto cambiata, nel senso che oggi vi sono molti argomenti e situazioni che non sono più ritenuti adatti a un pubblico di bambini. 

Lo sforzo maggiore per me è stato infatti mantenere integra la trama della storia e assecondare nel contempo le nuove richieste da parte dell’editore. Alla fine credo che possiamo ritenerci entrambi soddisfatti di quanto ottenuto.

Non è un mistero che le storie Disney abbiano molti paletti, che cambiano a seconda dei periodi storici. In questo che stiamo vivendo ogni argomento è potenzialmente divisivo e quindi pericoloso per Topolino, incluso l’ambientalismo, che è stato un tema su cui il settimanale fu all’avanguardia negli anni Ottanta. Per voi autori il lavoro sta diventando più difficile?

Per certi versi sì. Ci sono limiti comprensibili e accettabili, altri che invece lo sono meno. Ma poi dipende: se riesci, nonostante i vincoli, a realizzare una storia avvincente, che abbia un senso logico e con magari anche un bel messaggio per i lettori, lo sforzo si fa. 

Sono vent’anni (e più) che scrivo solo storie in maniera onesta, cioè che intrigano e divertono me, prima di tutto. Divertire sé stessi è importante, se vuoi fare bene questo lavoro. Altrimenti è meglio dedicarsi ad altro. Poi, ovvio, la pubblicazione e la diffusione è molto, molto importante per uno scrittore, ma non è per me lo scopo imprescindibile, quando scrivo una storia.

E intanto il tuo Ciclo di Atlantide sta andando avanti con un nuovo capitolo. 

Sì, e vorrei davvero riuscire a portarlo a termine, questa volta. Se penso all’esordio di Eurasia e alle motivazioni che portarono alla sua creazione, mi piacerebbe che una volta conclusa l’avventura atlantidea anche altri autori la utilizzassero, senza vincoli. Per me sarebbe un onore.

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La variant cover di “Topolino 3570” per Comicon Napoli 2024 illustrata da Casty

Come mai tutti questi anni di attesa? Nel finale di Topolino e il raggio di Atlantide sembrava che l’avventura successiva fosse dietro l’angolo.

Considera che in strutture grandi, come appunto la Disney, cambiano spesso le persone e di conseguenza cambiano i piani e le linee guida editoriali. Subentrano altre priorità. Io cerco comunque di condurre un mio progetto di ampio respiro, che negli anni mi ha portato a scrivere storie diversissime tra loro per toni, argomenti e personaggi utilizzati. Sempre però in primis assecondando quelle che sono le richieste della direzione.

C’è stato un momento in cui mi furono chieste storie più corte e urbane. Io ne feci alcune con Topesio, che vennero bene. Ma il problema non è mai la lunghezza, la lunghezza di una storia è funzionale a ciò che deve dire.

Forse vado in controtendenza, ma nella mia memoria di lettore sono rimaste molto di più le storie brevi (Topolino e gli incontenibili Squee, Topolino e l’elettromistero di Natalimburgo, Atomino, Topolino e l’elemento qualsivoglia): ci sono delle invenzioni giocose, immaginifiche, tenere, che mi riconnettono al piacere delle storie.

Quelle che citi sono alcune delle storie che più mi diverto, letteralmente, a scrivere: le storie one-shot, di trenta pagine o poco più, in cui devi riuscire a intrattenere, spaventare, divertire il lettore nel tempo di lettura di una ventina di minuti. 

Tantissimi mi dicono che la loro storia preferita è Topolino e il cappotto da un dollaro, che se non ricordo male non arriva a trenta pagine. È la prova che se una storia è fatta bene ed emoziona, la lunghezza ha un’importanza relativa. Poi, ovvio, la dimensione kolossal da 60 e più pagine dà già da sola una maggior rilevanza alla storia, ma non è una assoluta garanzia di “storia memorabile”.

Il pubblico di riferimento di Topolino sono i bambini, ma è evidente che una grossa fetta dei lettori sia rappresentata da un pubblico adulto, che apprezza molto le tue storie. Tu quando scrivi che lettore hai in mente?

Io penso sempre prima al lettore bambino, sicuramente: le cose devono essere esposte in maniera chiara, logica, divertente e interessante. In questo modo si riescono a far passare anche i concetti più complicati, poiché essere chiaro e logico non significa assolutamente scrivere testi banali; è una bellissima sfida per uno scrittore di fumetti riuscire a esprimere, nello spazio delle pochissime righe di un balloon, considerazioni che su un libro richiederebbero pagine e pagine scritte. E, nel contempo, far procedere la storia.

E poi ci sono i livelli di lettura, che sono il bello di tutta la produzione Disney classica, in generale. Quando pensi ai film per bambini, o ai fumetti del passato, ti accorgi che le storie più belle e memorabili sono quelle che possono essere fruite dai piccoli e, con ugual piacere, dagli adulti. Pensa che io ho letto da adulto la maggior parte delle storie di Gottfredson, che quando ero piccolo erano quasi irreperibili, e mi hanno folgorato tanto quanto mi avevano folgorato le altre che avevo letto da piccolo.

Cosa leggevi, da piccolo?

Topolino era il fumetto principale, che arrivava in casa grazie ai genitori, ad amici e parenti, insieme a Intrepido, Tex e altre pubblicazioni degli anni Settanta, prevalentemente fumetti italiani. Mi capitava anche di leggere Asterix, Tintin, Peanuts, Beetle Bailey… Insomma, ogni cosa che avesse delle strisce era mia!

Con l’arrivo degli anime in televisione fui comprensibilmente attratto dai cartoni giapponesi e poi, crescendo, da letture più mature. Ma coltivavo il rapporto con il fumetto anche facendolo: scrivevo e disegnavo fumetti ispirati prima ai personaggi Disney, soprattutto i Paperi, che all’epoca preferivo, e successivamente ai robottoni, per arrivare infine all’horror e alla fantascienza. Avevo questo sogno di fare il fumettista, da grande.

Però prima di provare a fare il fumetto da professionista hai aspettato diversi anni.

A un certo punto arriva l’adolescenza e cominciano a girarti tutt’altre cose per la testa… poi però arriva il momento in cui devi trovare il modo di mantenerti da solo e devi quindi trovare un lavoro, quale che sia. A venti anni io lavoravo in fabbrica. Poi ho iniziato a fare il grafico per svariate agenzie. Ho sempre e comunque continuato a scrivere storie per diletto, una cosa che ormai era nella mia natura e di cui non potevo fare a meno nemmeno se avessi voluto.

Cosa ti ha convinto a tentare la strada del fumetto?

Il desiderio di fare qualcosa per cui, appunto, mi sentivo nato. Anche quando lavoravo in fabbrica tornavo a casa, la sera, e disegnavo le mie storie. Nemmeno speravo, al tempo, di riuscire a coronare il mio sogno, anche perché non avevo la minima idea di come si facesse a entrare nel mondo dei comics. Provavo a mandare i miei lavori a diverse case editrici, ma era come mandare un messaggio in bottiglia che si perdeva nell’oceano. Ma per fortuna alla fine qualcuno quella bottiglia l’ha trovata.

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Una vignetta con Eurasia Tost, da “Topolino e la Spectralia Antartica” di Casty

Negli anni Novanta infatti ti proponesti come autore per Dylan Dog, senza successo, e per la casa editrice di Silver, che ti mise a lavorare su Cattivik.

Da Dylan Dog ricevetti una risposta bellissima, che ancora conservo, in cui si mostrava apprezzamento per i lavori presentati suggerendomi però di cercare la mia strada nel fumetto umoristico. All’epoca ci rimasi un po’ male (la mia ambizione era di fare il fumettista “serio”), ma il tempo ha poi dimostrato che la mia strada era effettivamente quella. 

Silver mi prese infatti tra gli autori di Cattivik, e lì scoprii che mi riusciva meglio far ridere che far paura. Mi trovavo benissimo col Genio del Mal’ e con tutta la banda: c’eravamo io, Massimo Bonfatti (che mi insegnò tantissimo nelle nostre telefonate fiume), Giacomo Michelon, Giorgio Sommacal, Piero Lusso e altri. Furono anni di grande entusiasmo e creatività, potevamo scrivere e disegnare praticamente di tutto. C’era la massima libertà di sperimentare in qualsiasi maniera e noi tutti la cogliemmo. 

Le storie diventarono più complicate e il personaggio quasi disneyano, un cercatore di avventure, solo un po’ più cattivo. Già all’epoca io ero quello delle “storie avventurose”. Il politicamente corretto non esisteva, ci divertivamo noi e si divertivano i lettori. La fiducia e l’apprezzamento di Silver nei miei confronti erano tali che nemmeno mandavo i soggetti, mi diceva semplicemente «mandami un paio di quelle tue, dai…». Proprio altri tempi.

Cosa ti spinse a passare in Disney?

Arrivai alla boa dei trent’anni e cominciai a pensare che sarebbe stato bello realizzare qualcosa che restasse nel tempo, che arrivasse a tanta più gente possibile. Le storie di Cattivik (e Lupo Alberto) erano divertenti e spesso impregnate di satira politica e sociale, ma restavano comunque confinate al pubblico italiano. Inoltre, dopo tante storie scritte, le dinamiche iniziavano a usurarsi e rischiavo di diventare ripetitivo. 

Fu così che ripensai a tutto l’immenso “archivio mentale” di storie di fantascienza, thriller e horror che mi sarebbe piaciuto in qualche modo trasformare in storie vere. Non riprovai però con Dylan Dog (o Bonelli in generale), ma cercai l’opportunità su quello che era stato il mio primo amore: Topolino.

In quegli anni avevo comunque continuato a lavorare come grafico: fu solo nel 2002 che decisi di dedicarmi esclusivamente al fumetto.

I tuoi genitori come la presero?

La mamma comprensiva, come tutte le mamme mi diceva di fare quello che mi rendeva felice. Un po’ meno mio padre, che non comprendeva come ci si potesse mantenere disegnando pupazzetti. Ma oggi sono entrambi soddisfatti e sono i miei primi fan. 

A me ha sempre sorpreso più che altro la reazione di alcuni miei amici, che pensavano facessi fumetti per hobby, nonostante avessi spiegato la natura del mio lavoro. Ai tempi di Cattivik, andarono in un’edicola a prendere un numero della testata e quando videro “testi di Casty” mi chiesero: «Ma come sei riuscito a far mettere il tuo nome sul giornale?». [ride]

Tu, invece, quando hai visto la tua prima storia pubblicata che reazione hai avuto?

Ero emozionato e convinto di avercela fatta. Solo pochi anni prima sembrava impossibile e invece avevo raggiunto l’obiettivo, pubblicare un mio fumetto. In realtà capii ben presto che, per farlo diventare effettivamente un lavoro, servivano un sacco di altre cose, serviva la disponibilità al sacrificio per rispettare le consegne, e avere anche una bella capacità di assorbire le delusioni. 

Serviva soprattutto allenare la fantasia: fare una storia non è difficile. Difficile è farne tante, tantissime, ogni mese, per anni. E tante volte mi chiedevo quanto potesse durare. Scoprii invece che le storie letteralmente sgorgavano, le idee arrivavano anche perché io desideravo fortemente che arrivassero. Ogni cosa che leggevo, ogni film che vedevo, ogni notizia alla tv, ogni situazione che vivevo diventavano spunti per una storia.

Quella di Cattivik è una produzione che, più di Lupo Alberto, è rimasta di nicchia. Uno si ricorda il personaggio, più che le sue storie.

Sì, vero, il personaggio era molto più celebre delle proprie storie ed è un peccato, perché nel mensile c’erano dei veri capolavori di umorismo che sarebbe bellissimo un giorno vedere valorizzati. Bonfatti poi in quel periodo era assolutamente strepitoso, un vero genio nello scrivere e nel disegnare. Nonostante il giornale vendesse bene, non è mai diventato un oggetto di studio o riscoperta.

Con Topolino hai trovato invece un pubblico molto più grande e un contesto che ti ha permesso di sbocciare come autore. C’è stato un momento in cui hai capito di essere diventato Casty?

In realtà ancora oggi soffro un po’ di sindrome dell’impostore. Vent’anni fa uscivo dalla goliardica combriccola di Cattivik, un giornale appena nato, con un personaggio sì vecchio ma senza un grande retroterra editoriale. Eravamo un gruppo di autori giovani con un mondo da creare: massima libertà e zero responsabilità. 

Su Topolino entravo in redazione come l’ultimo arrivato. C’erano Cavazzano, De Vita, Cimino, Scarpa, gente che leggevo da piccolo e che erano leggende viventi. Arrivavo io a scrivere o disegnare e non pensavo minimamente al fatto che avrei potuto raggiungere il loro livello. Quindi, per anni, nonostante vedessi l’apprezzamento che ricevevo, ho avuto davanti dei maestri. 

Poi, però, vedi la gente andare in pensione. Vedi che il tempo passa. Vedi che la gente ti dice «ti leggo da quando sono piccolo», che era la frase che dicevo io a Cavazzano. È stato in quei momenti che mi sono accorto che stavo lasciando qualcosa di importante anch’io.

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Una vignetta da “Topolino e la Spectralia Antartica” di Casty

Il passo successivo della tua carriera di fumettista è stato quando hai iniziato a disegnare le tue storie. C’è stato un cambio di mentalità quando sei diventato autore unico?

A me è sempre piaciuto un sacco disegnare, fin da piccolo. Ho sempre scritto e disegnato le mie storie e da piccolo nemmeno pensavo che scrittura e disegno potessero essere due cose diverse. Quando sono arrivato a Topolino ero circondato da talenti meravigliosi, e parlo sia dei vecchi maestri sia dei colleghi della mia generazione. C’è sempre stata una certa soggezione nei loro confronti, sono disegnatori eccezionali e per giunta molti di loro hanno frequentato l’Accademia Disney. 

Disegnavano le mie storie in maniera stupenda, però mi accorgevo di non sentire queste storie mie al 100%: desideravo tantissimo imparare a disegnare in modo da poterle fare da solo. E così mi allenai tantissimo, per circa due anni, riempiendo fogli di mani, piedi, espressioni, pose. 

Non fu facile, ero ormai anziano per essere un esordiente: ero sicuro però che con l’allenamento sarei riuscito nel mio intento. Quando pensai di essere (relativamente) pronto, chiesi quindi di poter disegnare io stesso una mia storia, Topolino e le macchine ribelli. Fu solo quando fu pubblicata che mi accorsi che non ero affatto pronto. [ride]

Ora ti senti pronto?

Guarda, ho capito che in realtà non sarò mai pronto: mi basta sfogliare una mia storia anche di un anno fa per trovarci tutti i difetti e le imperfezioni, mentre in quel momento magari ero convinto di aver fatto tutto a regola d’arte. Una cosa però vedo che ho sempre fatto per bene: la recitazione dei personaggi. E credo che questa sia la cosa più importante.

Spesso mi sono chiesto: che tipo di disegnatore voglio essere? Alla fine ho scelto di cambiare leggermente lo stile in base al tipo di storia. Di certi autori ti basta vedere un albero sullo sfondo e già capisci chi l’ha disegnato. Questo è un pregio e un limite allo stesso tempo, perché in alcuni casi si perde la capacità di adattarsi al tono di determinate storie, pensa per esempio al tratto riconoscibilissimo di due autori totalmente diversi tra loro come Luciano Gatto e Fabio Celoni. Io ho preferito la versatilità a una riconoscibilità del segno immediata.

I disegni della Spectralia mi ricordano molto il segno di Massimo De Vita. Non so se per te era un riferimento voluto o lo vedo io.

Per certe cose sì, ma ho guardato anche allo stile di inchiostrazione che usava Romano Scarpa negli anni Settanta, che tra l’altro era inchiostrato da Cavazzano in quegli anni, se non sbaglio. Molti dei segni “sporchi” della Spectralia si rifanno a quello stile. Si perde un filo in pulizia formale ma il tutto acquista una certa freschezza e vivacità, anche rispetto a certe mie storie passate.

Ecco, Romano Scarpa è uno di quei nomi, insieme a Floyd Gottfredson, che vengono sempre citati quando si parla di te. Sono accostamenti lusinghieri o alla lunga un po’ opprimenti?

Premesso che sono sempre onoratissimo di essere associato a tali Maestri, questo non significa che io copi il loro stile in maniera pedissequa. Lo vedo un po’ come il riconoscimento del fatto che sto portando avanti un Topolino fedele alla tradizione, pur adeguato alla modernità sia nel tratto che nella narrazione.  

Mi urta un po’, e rarissimamente succede, quando dicono che non riescono a distinguere un disegno di Scarpa dal mio. Considerato poi che Scarpa ha cambiato tre o quattro stili nel corso della sua carriera, e che anche io disegno un Topolino diverso da quello che disegnavo quindici anni fa, mi piace invece quando dicono «fai un bel Topolino classico, lo vedo e capisco subito che è tuo».

Qualche tempo fa sono andato a comprare dei pennarelli in un negozio e per provarli ho disegnato un piccolo Topolino su un foglietto. Compro i pennarelli e vado via. Torno dopo qualche mese e il proprietario mi chiede «scusi ma lei è Casty? Mia figlia ha visto il Topolino con il ciuffo e ha detto che esiste solo un disegnatore che fa Topolino con il ciuffo!». Non è che ha detto «è passato il fantasma di Romano Scarpa», ha riconosciuto che ero io. E questa cosa mi ha fatto tantissimo piacere.

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Una vignetta da “Topolino e la Spectralia Antartica” di Casty

Alla fine dimostra che hai aggiunto un pezzettino al canone di Topolino.

Questa cosa del ciuffo era una cosa inconsapevolmente riconoscibile, e in realtà la faceva anche Scarpa. Ma mi auguro comunque di aver aggiunto qualcosa all’interno di uno stile grafico delineato in maniera impeccabile già dagli anni Cinquanta e raffinato poi successivamente. 

Non credo di aver aggiunto poi troppe cose, ho forse giusto un po’ accentuato la simpatia di Topolino: ma anche lì, lui era già così in origine, sono state alcune caratterizzazioni date da certi autori negli anni a farlo diventare un po’ antipatico ai lettori. 

Per esempio, per me Topolino è un cittadino comune. Ogni tanto invece Scarpa l’aveva elevato a celebrità. O ancora: Topolino – ma questo lo faceva Guido Martina – non prende in giro Pippo. Sono aspetti che io cerco di sfatare nelle mie storie.

Ti sembra di essere oggi lo stesso fumettista che si inventava le storie di Cattivik?

L’entusiasmo è immutato: mi piaceva fare fumetti da piccolo e mi piace farli oggi. Continuo a scrivere nello stesso modo in cui scrivo da sempre. Voglio provare piacere nel raccontare, mi sveglio la mattina e devo arrivare alla scrivania avendo una voglia matta di fare la storia su cui sto lavorando. 

Quando scrivo, racconto un istante di un mondo: un istante che può essere un po’ triste, o invece molto divertente, che può essere un avvenimento epocale o un piccolo problema domestico. Perché io non vendo contenitori di plastica fatti in serie, vendo vasetti di creta fatti a mano: se ti va, apri e guarda cosa c’è dentro. Non ho l’ossessione di piacere a tutti e a tutti i costi. L’importante è fare bene ciò che ci si prefigge di fare in quel momento.

Leggi anche: “Topolino e il mondo che verrà”, il kolossal di Casty

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