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Stacy Martin: «Sogno un kolossal con Tom Cruise»

E due. Dopo aver interpretato la musa di un regista di culto ne Il mio Godard, Stacy Martin è ora la musa di un grande pittore in Ritratto di un amore. Ma non ci ha preso gusto, proprio no. «Mi piacerebbe che i ruoli si invertissero, e che a fornire l’ispirazione fosse un uomo» sorride l’attrice francobritannica, soave e un po’ timida, lontanissima dal personaggio disinibito che nel 2013 l’ha lanciata in Nymphomaniac di Lars von Trier. E lontana dall’immagine che conoscevamo: diventata bionda per esigenze di scena, si è affezionata alla nuova tinta.

«Perché non girare un film su Rose Wylie, per esempio?» continua. «È un’artista britannica – quasi novantenne -incredibile! L’ho incontrata varie volte ed è meraviglioso il modo in cui parla del marito. Ho pensato: “Oh, che storia fantastica da raccontare, e che cambio di prospettiva sarebbe…“. Resta comunque importante guardare all’evoluzione dell’arte da una prospettiva femminile e rendere giustizia alle pioniere». Come la pittrice Marthe de Méligny, appunto, meglio nota come moglie di Pierre Bonnard, che viene per un (breve) periodo messa sentimentalmente in ombra dalla giovane Renée Monchaty. Marthe sullo schermo è Cécile de France, Pierre è Vincent Macaigne, mentre Renée ha il volto della Martin. La regia è di Martin Provost.

Stacy Martin: «Ribaltiamo le prospettive»

Cosa l’ha colpita di Renée?
La contraddizione tra le possibilità che le offriva la vita e la sua decisione di uccidersi. Era una studentessa che aspirava a dipingere e invece, quando si è innamorata, ha rinunciato ai sogni e si è conformata a una visione chiusa della coppia, con il chiodo fisso del matrimonio. Volevo esplorare come sia potuto succedere. Credo che io non farei mai lo stesso.

Conosceva le figure dei coniugi Bonnard?
No, per quanto sia appassionata e frequenti i musei sin da bambina: i miei genitori mi portavano spesso. Adoravo quei luoghi di incredibile libertà immaginativa: puoi vedere un capolavoro del XVII secolo e, accanto, un Jackson Pollock. Non hanno nulla in comune, ma proprio per questo ampliano le tue vedute.

È nata a Parigi; suo padre è francese, sua madre inglese; oggi vive a Londra… Con quale Paese si identifica?
Ho un interesse per le persone che mi pare molto francese (rimarrei ore sulla terrazza di un caffè a immaginare l’esistenza di uno seduto vicino a me o di chi passa laggiù per strada) e un sense of humour molto inglese. Però, francamente, mi sento soprattutto un’attrice fortunata a parlare due lingue: posso esprimermi senza monotonia, il cinema in Francia è così differente da quello negli Stati Uniti e da quello in Gran Bretagna!

Per complicare la situazione, ha trascorso gli anni della formazione in Giappone.
Sì, sono stata là dai sette ai tredici anni, un periodo che mi ha definito da parecchi punti di vista. La cultura è lontana dalla nostra: è assai basata sulla tradizione, sulla famiglia, sull’etica del lavoro, eppure estrema. Mi colpì la capacità di “empowerizzare” i bambini.

Stacy Martin, 34 anni. Padre francese e madre inglese, ha vissuto parte dell’infanzia a Tokyo, prima di trasferirsi a Parigi. Oggi vive a Londra. Qui con Cécile de France al Cannes Film Festival 2023 al photocall di “Bonnard Pierre and Marthe”. Cannes (France), May 22nd, 2023 (Photo by Rocco Spaziani/Archivio Spaziani/Mondadori Portfolio via Getty Images)

In che senso?
Un esempio: nelle classi sono gli allievi a distribuire i vassoi, a ripulirli e rimetterli sul carrello, non ricorrendo all’aiuto di adulti. Un’abitudine che ha contribuito a rendermi indipendente presto.

Le piacerebbe una trasferta professionale?
La lingua mi è familiare e sto cominciando a valutare…

Ricorda la prima “scintilla” per la recitazione?
Oddio, proprio la prima no, l’ho sempre fatto a scuola. Ricordo vividamente una recita in particolare, però, una di quelle a cui i tuoi genitori devono assistere e di cui sghignazzano per il resto della vita. (sorride) Ero sul palco come Cyrano de Bergerac (insensato, lo capisco) e dovevo fare un cambio di costume veloce per ricomparire nelle vesti di un’infermiera. Ma quella sera c’è stato poco tempo e alla fine, più che un’infermiera, c’era una suora. Per di più con il naso finto ancora in mano. (ride) La mia reazione fu duplice: “Terribile, ho sbagliato tutto!”. E: “Sono qui, nulla mi fermerà!”.

Stacy Martin, una carriera lanciata da un film-shock

Non l’hanno fermata. E quando aveva 21 anni è arrivato Nymphomaniac. Lo rifarebbe?
All’epoca avevo un’energia ribelle e la nudità, il contenuto sessuale esplicito non mi intimorivano. Adesso, a 34 anni, non accetterei d’apparire sempre senza vestiti.

Oggi come sceglie i film?
Onestamente, scelgo i registi. Mi incuriosiscono i colleghi che affermano: “Voglio interpretare questo ruolo…”. “Ok, va bene, ma cosa dici dello scambio con la troupe, delle riprese?”. Amo così tanto il cinema perché sono interessatissima a vedere come viene realizzato. Brady Corbet, con cui ho girato tre volte (per L’infanzia di un capo nel 2015, Vox Lux nel 2018 e The Brutalist nel 2023, ndr ), ha uno stile radicalmente diverso rispetto a Provost (anzi, sono uno l’opposto dell’altro) e qui è il bello!

Sta meditando di passare alla regia? Potrebbe dirigerla lei la pellicola su Rose Wylie.
Ci ho pensato, e tanti sostengono che sia una progressione naturale, ma non sono ancora pronta. E poi, come attrice, ho l’opportunità di collaborare con tre o quattro registi all’anno, mentre se mi concentrassi sul mio film ne farei uno ogni quattro o dieci…

La interesserebbe un kolossal d’azione, magari tratto dai fumetti?
Sì! Adorerei essere allenata mesi per trasformarmi in una guerriera o qualcosa del genere. Che adrenalina dover saltare con una moto da una scogliera come fa Tom Cruise (e non una controfigura!) in Mission: Impossibile – Dead Reckoning – Parte 1. Alcuni blockbuster tipo Marvel sono incredibilmente ben fatti, e li sottovalutiamo solo in quanto mainstream, convenzionali. Certa cinematografia americana è ormai un elemento imprescindibile della nostra cultura, ha influenzato ottimi registi e super attori provengono da lì. Prendiamo Harrison Ford: è una leggenda, e Indiana Jones è un’icona che rimarrà in eterno.

Il prossimo progetto, in attesa di un filmone (anche) commerciale?
Deve ancora uscire The Brutalist, che riporta all’attenzione una figura interessante e dimenticata: László Tóth, un architetto ebreo-ungherese che, dopo la Shoah, si trasferì con la moglie (sono impersonati da Adrien Brody e Felicity Jones, ndr) negli Stati Uniti. Venne accolto da un industriale (Guy Pearce, ndr) che gli affidò delle commissioni. Io sono la figlia del mecenate e ho un fratello gemello (Joe Alwyn, ndr ). Ho avuto l’opportunità di esplorare il lato oscuro degli esseri umani, il lato malvagio. Ed è stato fantastico. (sorride)

È famosa, amata dai registi e coccolata dagli stilisti. Come resta con i piedi per terra?
Grazie al mio cane, che ha bisogno di me, non se la caverebbe nel mondo da solo. Ne ho sempre desiderato uno, però a lungo ho rimandato per senso pratico, viaggiando di continuo. Un giorno ho deciso: “Ho davvero bisogno di qualcosa di semplice nel mio quotidiano”. È liberatorio non essere al centro dell’attenzione (io sono una che si mette addosso pressione). Avere lui e doverlo portare a passeggio è catartico, terapeutico. E salutare: percorro chilometri nei parchi londinesi…

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