La fucina di Castelli: “Cerco la vita che accade” - la Repubblica

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La fucina di Castelli: “Cerco la vita che accade”

La fucina di Castelli: “Cerco la vita che accade”
Nello studio dell’artista in zona Madonna di Campagna tra opere incompiute e idee cercando il filo della personale alla Fondazione Bevilacqua, curata da Farronato
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Un cortile in zona Madonna di Campagna racchiude lo studio di Guglielmo Castelli, che si schiude come un luogo incantato, sospeso nella luce che entra da finestroni e lucernari. C’è un caos vitale ed elegante, un odore di pittura che galleggia tra cavalletti, tele, colori, libri, tavoli, divani e sedie cinesi, mentre attorno si spargono vetrine con collezioni di cose raccolte, trovate, ereditate. Sono giocattoli, carte da gioco, oggetti affascinanti che si portano dietro storie. Insieme animano un laboratorio in forma di wunderkammer, una fucina di pensiero, di materia, di lunghi processi attraverso cui i quadri di Castelli prendono vita, mescolando universi plurali in una pittura surrealista e simbolista insieme, raffinata e colta, fiabesca quanto inquietante. Lo stesso meccanismo di disvelamento prezioso accade in ogni sua opera e anche nel catalogo della sua personale alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia (fino al 7 luglio), che ha debuttato nei giorni della Biennale d’Arte. Si ispira a un libricino di filastrocche correttive per bimbi ansiosi- «una sorta di self-portrait», dice e sorride-, che ha incontrato alla Public Library di New York due anni fa.

D’altronde anche la personale che allora stava allestendo da Mendes Wood (che insieme a Roa Gallery sono le sue gallerie) nasceva da “Demonios familiares”, romanzo postumo di Ana María Matute. Le pagine di “Improving songs for anxiuos children” sono da aprire con pazienza, a mano, conquistandone l’interno una ad una, armati di garbo e di un tagliacarte. Tra le immagini che riproducono le opere in mostra (dove per la prima volta la pittura si è fatta anche scultura in maquette, ricami e collage su stoffa), appaiono così gli oggetti dello studio, i loro dettagli, sguardi intimi che permettono di comprendere meglio l’identità della sua pittura. Una sorta di tensione che confina con il desiderio, con ciò che si vede e ciò che si cela, che si immagina e percepisce. La tela non è una superficie ma una quarta parete teatrale che affaccia su una grande messa in scena, uno spazio abitato e profondo, labirinto di mondi osmotici, contaminati con la moda e il teatro. «E bisogna entrarvi dentro, muoversi, vedere cosa accade», dice. Castelli, classe 1987, ricorda gli inizi, quando all’Accademia Albertina non si iscrisse a pittura ma a scenografia. In quegli anni «iniziò la collaborazione con Vogue Italia, Sara Maino e Franca Sozzani mi proposero una rubrica dove esprimere con il disegno il mio punto di vista su brand famosi e su giovani talenti. Intanto con Film Commission lavoravo sui set come assistente nel reparto costumi».

Eccoli il teatro e la moda. Prima di questa personale alla Fondazione Bevilacqua, curata da Milovan Farronato, ci sono state tappe importanti di un percorso internazionale in continua ascesa. La residenza Bethanien a Berlino nel 2016, «una svolta, dove ho iniziato a usare l’olio e sono arrivate le grandi dimensioni. È allora che ho capito di essere figurativo tramite un’astrazione: mi interessa l’accadimento che i corpi attuano nello spazio del quadro, corpi che arrivano tramite una rarefazione. C’è una rimozione, un’aggiunta, un tornare indietro, un entrare nel dettaglio». Stesso anno in cui la rivista Forbes lo inserì tra i primi dieci under 30 europei più influenti nell’arte, e poi nel 2020 la Quadriennale d’Arte a Roma, con l’acquisizione da parte del Castello di Rivoli. Ora Castelli è al lavoro per una collettiva a Los Angeles e una personale da Mendes Wood a San Paolo nel 2025, ma non solo. Il progetto è già iniziato, un lungo lavoro che si relaziona allo spazio dove esporrà e che germinerà, come sempre, da un quadro, il primo, l’incipit ideale della storia che inizia.

Su un grande tavolo dello studio sono aperti decine di quadernetti e fogli con disegni e schizzi, «la parte più privata, quella fondamentale nel mio lavoro, il disegno, che non ho mai esposto, da cui comincio: raccolgo, seleziono e compongo come fosse un collage. Il resto, viene dopo». Sarà un altro grande cantiere di pensiero e raccoglimento, di ore dedicate quotidianamente alla pittura, in questo studio ritagliato via dalla mappa urbana dove sembra che si aprano porte, passaggi su altri mondi, vicini e lontani, fatti di memoria personale, di racconti, voci, libri, film. Un tempo e un luogo circolari. Una dimensione interiore che risuona forte e si fa forme cangianti, che sembrano muoversi davanti agli occhi, vive e spietate. «Non metterei mai un dito in bocca a un mio personaggio».

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