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Campioni sulla collina: Oleksandr Pielieshenko, dal podio olimpico sfiorato alla morte al fronte in Ucraina

Oleksandr Pielieshenko aveva 30 anni, è morto il 5 maggio 2024
Oleksandr Pielieshenko aveva 30 anni, è morto il 5 maggio 2024 

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Fa strano: KIA. Killed in action. Ucciso in azione. Gergo militare. Non capitava più di leggerlo associato a uno sportivo e tanto meno a uno che alle Olimpiadi aveva sfiorato il podio. Invece il sollevatore di pesi ucraino Oleksandr Pielieshenko, quarto ai Giochi di Rio, è stato ucciso domenica scorsa mentre combatteva al fronte. Aveva perso il bronzo per 5 chili, ha perso la vita a 30 anni. «A crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio», cantava De André. E infatti Pielieshenko nella foto da soldato sembrava un altro, irriconoscibile dall’atleta sbarbato di Rio. Era stato due volte campione europeo, ma l’avevano fermato due volte per aver mancato i controlli antidoping. Si era arruolato appena l’Ucraina era stata invasa nel 2022 e tra lo sport e le armi aveva scelto di difendere la sua terra.

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L’idea che si passi da un’Olimpiade a una guerra suona bislacca, eppure i conflitti nel mondo esistono e sono sempre troppi. Oggi il corpo dei campioni è materiale protetto, ci si preoccupa per l’anca di Sinner, per la gamba di Goggia, per la caviglia di Stano. Nonostante lo sport italiano sia militarizzato e la divisa la portino tutti: da Jacobs a Iapichino, da Tamberi a Raffaeli, da Paltrinieri a Volpi, da Marini a Chillemi, da Tita a Palmisano, da Ceccon a Balsamo. Una volta la guerra era una partita inevitabile. 722 gli atleti partecipanti olimpici morti in azione o dispersi (Missing in action) nelle due guerre mondiali. Allora alla patria non interessava il tuo wellness, più eri campione e più ti toccava combattere, nell’idea che il corpo fosse al servizio del paese e non delle vanità personali.

C’era chi era già militare come il capitano Silvano Abbà, bronzo ai Giochi del ’36 nel pentathlon moderno (prima medaglia per l’Italia), ucciso in Russia da una raffica di mitra nell’agosto 1942, nella carica di Isbuscenskij, l’ultima di un esercito occidentale. Comandava il 4º squadrone del reggimento Savoia Cavalleria, che però era stato appiedato per l’occasione. A uno di quei cavalli, Albino, rimasto ferito a un occhio e a una zampa, reduce, fu assegnata dallo Stato una pensione a vita, caso unico tra gli animali.

Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma quello orientale non lasciava scampo. In Ucraina nel 1944 nei pressi di Kirovograd morì un sottufficiale tedesco di 30 anni che si chiamava Rudolf Harbig e portava i capelli biondi pettinati all’indietro. Era sassone, caporalmaggiore e paracadutista, era stato appena dimesso da un ospedale da campo tra Don e Volga, non doveva tornare su quel fronte, ma l’Armata Rossa stava lanciando la sua controffensiva sulla linea del fiume Dnipro e lui si mise al servizio dei compagni. Corse per salvarne uno, come aveva fatto nel ’36 nell’ultima frazione della staffetta 4x400 ai Giochi di Berlino per salvarne altri tre dalla sconfitta, riuscendo a vincere il bronzo. Negli 800 era stato eliminato in batteria a causa di un’infezione intestinale. Non stiamo parlando di uno qualunque, ma di un uomo che anticipò il futuro, di un campione che dietro faceva il vuoto, di un precursore per l’attenzione all’alimentazione (non beveva alcolici, né tè né caffè) e alla tecnica dell’interval-training sotto la guida di Woldemar Gerschler, allenatore e studioso di fisiologia. E soprattutto di un primatista del mondo: nel ’39 stabilì due record, quello sugli 800 che durò 16 anni e quello sui 400 metri detto il giro dell’asfissia. Harbig aveva 26 anni, veniva da una famiglia modesta, lavorava all’azienda del gas di Dresda, addetto alla lettura dei contatori e così costretto a lunghi itinerari in bicicletta sugli acciottolati della città: aveva costruito la sua capacità di resistenza alla fatica. Hitler lo mandò a morire come gli altri. Lo avesse preservato, Harbig era tipo da quattro medaglie d’oro. Una bella riposta all’americano Jesse Owens.

Ma i campioni erano usa e getta: al paracadutista Luz Long, tedesco della buona società di Lipsia, l’argento del ’36 nel lungo non servì a molto. Aveva anche aiutato Owens a visualizzare lo stacco con un fazzoletto bianco di fianco alla pedana. Non poteva farsi i fatti suoi? Dare una mano all’avversario, nero, nipote di uno schiavo dell’Alabama, sostenerlo nel momento in cui è in crisi, offrirgli la strategia vincente, ma sono cose che si fanno in un’Olimpiade in casa? Figurarsi la gioia di Hitler a cui avevano detto «Kein problem, mein Fuhrer», e che problema c’era, quella gara per la Germania era fatta, già vinta. Peccato che Owens voli a 8,06 metri. Anche Long muore a 30 anni nel ’43, senza aver conosciuto il figlio, in Sicilia, a Niscemi, centrato da una sventagliata di mitra, quattro giorni dopo lo sbarco degli alleati. Almeno a Harbig a Dresda hanno dedicato uno stadio e un cenotafio («Solo i dimenticati sono morti») mentre Long viene seppellito nella fossa comune, senza tanti onori, nel cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia a Catania.

Le guerre non guardano a nazionalità, aristocrazie e se ne sbattono degli ori. Il barone giapponese Takeichi Nishi è campione olimpico a Los Angeles nel ’32 a cavallo di Urano nella prova equestre di salto a ostacoli. Lui è di casa a Hollywood, è amico degli attori Mary Pickford e Douglas Fairbanks. Dieci anni dopo la parola friend scompare, c’è stata Pearl Harbor. Nel marzo 1945 il barone, 42enne, alla guida di un drappello di soldati giapponesi sull’isola di Iwo Jima si trova circondato. Gravemente ferito, alla resa preferisce spararsi un colpo in testa. Addosso gli trovano un pezzo di criniera di Urano, che aveva comprato in Italia con i suoi soldi (l’esercito aveva rifiutato l’acquisto) e il frustrino usato a Los Angeles. È nel film Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood. Per chi alle storie dei samurai preferisce quelle tra uomini e animali, Urano non gli sopravvisse: senza il suo cavaliere morì una settimana dopo.

Sergiy Stakhovsky
Sergiy Stakhovsky 

Dormono, dormono sulla collina altri atleti e campioni. E c’è chi invece il turno di servizio lo interpreta diversamente. Che il tennista ucraino Sergiy Stakhovsky, a metà gennaio 2022 avesse smesso appunto di servire, interessò a pochi. Ai Giochi di Londra 2012 era uscito al primo turno, nella classifica mondiale non era andato oltre il numero 31, ma nel 2013 a Wimbledon da 116esimo aveva battuto al secondo turno Roger Federer. Un mercoledì nero per King Roger, in tribuna c’era gente che esclamava: I can’t believe it. Bisognava crederci invece: 96 volte a rete, 72 colpi vincenti, e tutti nel giardino del re, dominatore a Church Road per sette volte. A 36 anni, Stakhovsky, moglie e tre figli, si ritira e sceglie di trasferirsi a Budapest per gestire un’azienda vinicola. Nel febbraio 2022 è in vacanza con la famiglia a Dubai quando si sveglia con il telefono che squilla: sono i suoi genitori. La Russia ha invaso l’Ucraina. Cosa vuoi fare, gli chiede la moglie Anfisa. «Devo andare. Ho rappresentato il Paese per tutti i 18 anni della mia carriera. Mi sono alzato in piedi per l’inno, l’ho cantato, sono andato alle Olimpiadi. Quell’emozione è sempre in me». Stakhovsky non è obbligato a tornare in Ucraina, i genitori con tre figli sono esentati. Ma lui si arruola volontario. Il suo non è un vero addio alle armi: prende il fucile al posto della racchetta. All’inizio pattuglia Kiev, poi presta servizio in un’unità di mortai che spara sulle linee russe. Ha divorziato, ogni tanto torna a salutare i figli, loro non sanno che va in prima linea: «Per raccontargli cosa? Che ho combattuto, che ho ucciso, che ho visto uccidere? Che differenza farà per loro? Non porterà nulla di positivo nelle loro vite». I figli lo coccolano e gli dicono: «Papà, non andartene». Per questo lui parte quando loro dormono.

C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones sembrava una canzone vintage, rischia di avere repliche. Muhammad Ali, riservista, oro a Roma ’60, rifiutò di arruolarsi contro i vietcong, Tommie Smith, campione olimpico dei 200 metri a Mexico ’68, quello del pugno nero, fu congedato dall’esercito per «attività anti-americane». Il suo battaglione partì per il Vietnam senza di lui. Nessuno tornò vivo. Diceva Shimon Peres: «Nello sport si vince senza uccidere, in guerra si uccide senza vincere».

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