di Luca Fumagalli

Stimato tra gli altri da Virginia Woolf, che lo ritrasse nei panni del protagonista nel romanzo La stanza di Jacob, da Ezra Pound, dal giovane T. S. Eliot, da Siegfried Sassoon e da Francis Scott Fitzgerald, Rupert Brooke è uno di quegli scrittori che le circostanze hanno voluto tramutare in mito. Difatti, se la natura lo aveva dotato di un eccezionale avvenenza e di un talento nel comporre versi, la morte precoce sull’isola greca di Sciro, mentre con i commilitoni si apprestava a prendere parte alla campagna di Gallipoli, lo ha consacrato a emblema di quei giovani volontari britannici, entusiasti e talentuosi, che si sacrificarono per la patria durante la Prima guerra mondiale. A tal proposito si citano spesso i primi versi de Il Soldato, il suo componimento più celebre del periodo bellico: «Se dovessi morire, pensate solo questo di me: / c’è un angolo di un campo straniero / che sarà per sempre Inghilterra».

Classe 1887, Rupert Brooke era il secondogenito di uno dei maestri della prestigiosa scuola di Rugby dove, secondo la tradizione, era nato l’omonimo sport. La precoce passione per la lettura e la scrittura lo convinsero, una volta raggiunta la maturità, a frequentare il King’s College di Cambridge. Lì strinse molte amicizie, tra cui quella con St. John Lucas, una sorta di mentore che lo introdusse alla poesia decadente. Appassionatosi al teatro e alla recitazione, il giovane Brooke fondò la Marlowe Society e più avanti, incuriosito dalle idee socialiste, divenne presidente della sezione universitaria della Fabian Society; prese inoltre a frequentare vari circoli letterari e diversi membri del gruppo di Bloomsbury. Gli studi, dapprima classici poi di letteratura inglese, la bravura nell’attività fisica, la simpatia trascinante e la vena poetica lo resero presto uno studente molto popolare, con conseguente corollario di relazioni sentimentali. Dopo la pubblicazione nel 1911 della sua prima raccolta, Poems, viaggiò parecchi mesi in Francia e Germania, riuscendo al suo ritorno a ottenere una borsa di studio grazie a una tesi su Webster e i drammaturghi elisabettiani. Con il critico Edward Marsh, segretario di Churchill all’Ammiragliato, nel 1912 diede alle stampe il primo volume di Poesia Georgiana e l’anno successivo, in seguito a un grave tracollo nervoso, intraprese un viaggio negli Stati Uniti, in Canada e nei mari del Sud. Per Brooke quello fu un periodo singolarmente sereno, testimoniato da alcuni dei suoi componimenti più lirici, inclusi poi in 1914 e altre poesie (1915), e dalle sue impressioni di viaggio, raccolte nel 1916 sotto il titolo Lettere dall’America. Nel frattempo si era arruolato nella Royal Navy Volunteer Reserve come sottotenente. Partecipò alla spedizione di Anversa per poi morire il giorno di San Giorgio del 1915 su una nave ospedale francese ancorata nel Mar Egeo a causa di un’infezione degenerata velocemente in setticemia.

Tra i sedici poeti della Prima guerra mondiale onorati nell’ardesia all’abbazia di Westminster a Londra, Brooke per molto tempo è stato vittima di una fama postuma e fuori misura che lo ha inchiodato tanto alla leggenda quanto a un mieloso sentimento patriottico, mettendo in ombra l’altra vena più autentica della sua produzione, ossia quella delle piccole cose, della domesticità e della vicinanza alla natura. La Grantchester lodata nella poesia omonima, agognato ritiro dai trambusti della mondanità londinese, diventa nei suoi versi il ritratto di un tessuto nazionale fatto di piccole comunità bucoliche, un ecosistema etico ed estetico di affetti e bellezze naturali destinato inesorabilmente a essere spazzato via da quella modernità galoppante di cui la guerra è solo il riverbero più spietato. Il richiamo al mito della Merry England si fa poi evidentissimo quando Brooke passa a celebrare la semplice vita agreste sullo sfondo di un paesaggio d’Arcadia (e poco importa se ciò che viene descritto abbia più o meno corrispondenze con la realtà storica, quello che al giovane posta interessa catturare non è la verità dei fatti, quanto una sfumatura dell’animo). 

Né va dimenticato come nei suoi versi più riusciti venga esaltata quella che lui stesso definiva la transience, la fuggevolezza, la precarietà della vita e dei sentimenti umani, e come tra le sue carte non manchino una manciata di liriche – etichettate ugly poems – in cui la satira si fa corrosiva, a tratti violenta, a rimarcare il vile e il disgustoso dell’esistenza. Pure alcuni frammenti ritrovati tra il suo equipaggiamento militare paiono indicare una nuova direzione che la poesia di guerra di Brooke stava prendendo nelle ultime settimane di vita, caratterizzata da un crescente sentimento di orrore.

A presentare per la prima volta al pubblico italiano l’affascinante parabola biografica del noto poeta soldato ci ha pensato l’anglista Paola Tonussi con l’ottimo Rupert Brooke. Lo splendore delle ombre (Ares, 2024), un volume che ripercorre passo dopo passo la carriera umana e letteraria di un autore non così apprezzato come meriterebbe (almeno alle nostre latitudini). Oltre a una prosa scorrevole che mai scade nel lezioso didascalismo, l’altro grande pregio del libro è l’ottimo apparato iconografico, purtroppo merce sempre più rara in testi di questo tipo. La Tonussi, a partire da un lavoro di ricerca accurato e supportato da un apparato bibliografico davvero consistente, analizza le molte contraddizioni che definirono Brooke come uomo e come poeta, riuscendo nel difficile compito di restituire al lettore il suo vero volto al di là di ogni mitizzazione e di ogni riduzione di comodo.

Il libro: Paola Tonussi, Rupert Brooke. Lo splendore delle ombre, Ares, Milano, 2024, pagine 376, Euro 24,80.

Link all’acquisto: https://www.edizioniares.it/prodotto/rupert-brooke/



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