Luca Guadagnino: il desiderio di persistere
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Luca Guadagnino: il desiderio di persistere

Un'occhiata da vicino alle maggiori fatiche realizzate dall'autore italiano più sensuale e testardo del cinema contemporaneo: Luca Guadagnino. La parola della sua carriera come testimonianza per non gettare mai la spugna

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All the world loves lovers. All the world loves people in love. Isn’t it true?

Nella sequenza iniziale del suo film d’esordio, The Protagonists, Luca Guadagnino pronuncia queste parole per mezzo della sua prima musa e collaboratrice Tilda Swinton. Parole che riecheggeranno in tutta la sua filmografia, a descrizione della sua ricerca smodata dell’erotismo. Quella connessione fra due (o più) persone reiterata nei simboli più insignificanti e significativi allo stesso tempo: un piatto di gamberi, un tuffo in piscina, una pesca, una sorellanza di streghe, una base militare, un cannibalismo adolescenziale, una partita di tennis.

Guadagnino, ora in sala con Challengers, è uno dei pochi registi ancora determinati a colmare il vuoto di sessualità e desiderio carnale nel cinema contemporaneo. Con otto lungometraggi, altrettanti documentari, una miniserie, due fashion film e una prolifica carriera di videoclip alle sue spalle, il maestro di moda e voyeurismo ha cominciato la sua carriera all’età di otto anni. Realizzando piccole pellicole in Super 8, si è ispirato nella sua crescita al cinema di Bertolucci, Rossellini, Bergman, Oshima, Pialat, Herzog, Demme.

Nato a Palermo da madre algerina e padre siciliano, Guadagnino è cresciuto in Etiopia e nel capoluogo siciliano prima di trasferirsi a Roma. Qui la sua formazione autodidatta consiste in quello che chiama “la scuola cinematografica di Rainer Fassbinder“: guardare tre film al giorno e divorare libri sul cinema. È da queste origini che un’anomalia nostrana ha conquistato lentamente il plauso della critica internazionale, nonché il pubblico agognato degli Stati Uniti.

La ricerca della verità – Luca Guadagnino

Il debutto di Luca Guadagnino nasce dall’intima relazione con la camaleontica Tilda Swinton. Rimasto folgorato dal suo ruolo in Caravaggio (1986) di Derek Jarman, il regista, all’epoca ancora studente, approcciò l’attrice nel ’93 fuori da una conferenza a Roma, chiedendole di apparire in un suo cortometraggio. Era già stato respinto dal suo agente. Da quel momento i due instaurarono un’amicizia, sbocciata poi in un connubio creativo dettato dal loro amore per un cinema classico ma al contempo moderno.

Il risultato? Un falso documentario sperimentale in cui una troupe italiana si reca a Londra per ricostruire l’omicidio insensato del ’94 di uno chef egiziano, Mohamed El-Sayed, per mano di “assassino senza nome n#1” e “assassino senza nome n#2”. Il caso di cronaca fece molto scalpore in Inghilterra per via dei due incriminati, Jamie Petrolini e Richard Elsey, che a soli diciannove anni architettarono la loro fantasia sanguinaria. Nel giro di qualche anno però, la notizia fu dimenticata. Ecco perché un Guadagnino estremamente postmoderno creò un in memoriam di un uomo innocente e collaterale.

Luca Guadagnino

The Protagonists

The Protagonists esce nel 1999 con la sua prima a Venezia. Il film costringe lo spettatore a mettersi nei panni di vittima e carnefice. Attraverso le interviste alla famiglia di El-Sayed, ai legali del processo, le molteplici ricostruzioni dell’omicidio più o meno accurate, il film tenta di ribaltare le narrazioni sensazionalistiche del true crime. La verità dei fatti e la ricerca speculatoria di quest’ultima risultano ineffabili, come suggerito dallo svolgersi non lineare della trama.

Alla sua uscita, il film è stato duramente criticato dalla maggior parte della stampa italiana. È vero che il messaggio del film tende a scemare di fronte al voyeurismo e alle sequenze horror figlie del loro tempo, ma è proprio nella persistenza a rimanere un secondo più del dovuto dentro una scomoda inquadratura che riconosciamo i semi dello stile unico del cinema di Guadagnino a seguire. Impossibile dimenticare una ventiduenne Michelle Hunziker che piange davanti allo specchio con la stessa intensità di Margot Robbie in I, Tonya diciotto anni dopo!

100 colpi di amarezza – Luca Guadagnino

Nel 2005, Luca Guadagnino gira quello che definisce il suo “primo film hollywoodiano”. Il teen drama erotico – accostamento più unico che raro – Melissa P., finanziato dalla Sony. Basato sul bestseller autobiografico 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, ha incassato in Italia un totale di 6.006.000 euro, a fronte di un budget di 3.400.000. L’autrice del libro, Melissa Panarello, ha disconosciuto il film come non aderente al testo, un vero caso letterario del 2003.

L’idea di Melissa P. prende forma grazie a Francesca Neri, produttrice inedita con il compagno Claudio Amendola. Guadagnino lavora alla sceneggiatura con Barbara Alberti (Il portiere di notte) e Cristiana Farina (Mare Fuori). Trasporre su schermo le pagine di un diario sessualmente esplicito, descritto dalla critica del tempo come “inconsistente”, si rivela un’impresa. Secondo i lettori di Ciak, Melissa P. fu il peggior film dell’anno.

Luca Guadagnino

Melissa P.

Melissa (María Valverde), una ragazza siciliana di quindici anni, vive in una familia disfunzionale e oppressiva. Con un padre ingegnere bloccato su una piattaforma petrolifera nell’Oceano Indiano e una madre onnipresente, cieca di fronte al suo disagio, Melissa cerca l’amore. Quello che trova è un ragazzo della sua scuola, Daniele, che la sfrutta per il suo piacere sessuale. Tra ossessione e depressione, Melissa decide di prendere in mano la sua sessualità, ostentandola in modo provocatorio e trasgressivo. Non più vittima dell’egoismo maschile, ma agente di incontri erotici progressivamente più vertiginosi.

In un’intervista a BadTaste.it del 2018, Guadagnino ricorda il film con grande amarezza. Coperture incoerenti imposte sul set, il taglio di una colonna sonora che catturava la temperatura pop adolescenziale anni 2000, la revoca del final cut in post-produzione. Secondo la versione del regista, Melissa era “totalmente padrona del proprio desiderio, in una maniera veramente radicale”. Il film prende un’altra forma rispetto alla visione originale. Una grande lezione per Guadagnino, che afferma:

“È lì che io dissi a me stesso: nessuno potrà mai più nella mia vita togliermi il dominio del mio lavoro, la possibilità di compiere io i miei errori, la gestione di ciò che faccio.”

Nonostante rappresenti una macchia nella filmografia di Guadagnino, Melissa P. dimostra la spiccata sensibilità dell’autore nei confronti dell’adolescenza. Senza timore di affrontare argomenti scabrosi, comprende il valore della fiction di formazione, spesso confusa come trash per ragazzine. Melissa P., invece, ci permette di immedesimarci nel proibito senza doverlo provare sulla nostra pelle. E nel frattempo ci regala la peggiore frangia della carriera di Alba Rohrwacher.

La cucina d’autore – Luca Guadagnino

Fresco dell’esperienza di Melissa P., Luca Guadagnino prende le redini del suo cinema. Nel 2009 esce Io sono l’amore, scritto, diretto e prodotto dall’autore. Il primo film della sua cosiddetta “trilogia del desiderio”, un appellativo inventato a posteriori dal regista in occasione della première di Chiamami col tuo nome al Sundance. Il desiderio è semplicemente e lucidamente il minimo comune denominatore tra i suoi film dal 2009 al 2017. Io sono l’amore Viene presentato alla sezione Orizzonti di Venezia e raggiunge il Sundance Film Festival come unico film italiano.

Io sono l’amore vede il ritorno di vari collaboratori precedenti. Dalla sceneggiatura con Barbara Alberti, Ivan Cotroneo e Walter Fasano, lo stesso montatore di Melissa P. Fasano è anche responsabile del montaggio di quest’opera e il loro sodalizio continuerà per altri tre lungometraggi. Vi è il ritorno fondamentale di Tilda Swinton, protagonista e produttrice del film, che ha imparato il russo e l’italiano per il suo ruolo. Anche la colonna sonora è merito dell’attrice, che ha convinto con una lettera il compositore americano John Adams a prestare la sua musica per il film. Il pianoforte aristocratico di Adams, scoperto nel 2005, rappresenta una sorta di leggenda per Guadagnino. Motivo per cui tornerà più e più volte nelle sue opere, pur non ancora componendo nulla di originale per lui. In un’intervista a Pitchfork afferma:

“Ho iniziato a cercare tutto ciò che potevo trovare registrato da John Adams e sono diventato una sorta di enciclopedia di ciò che ha fatto come musicista. Nella sua musica c’è qualcosa di wagneriano e anche qualcosa di minimalista, che trovo fantastico perché va oltre le rigide regole che i minimalisti si sono imposti.”

Io sono l’amore sancisce per la prima volta la minuziosa attenzione di Guadagnino per il mondo della moda. Gli abiti indossati da Tilda Swinton sono disegnati da Raf Simons per Jil Sander, i personaggi maschili vestono Fendi e Alba Rohrwacher porta gioielli di Delfina Delettrez. Questo sforzo garantì alla costumista Antonella Cannarozzi una nomination agli Oscar per i Migliori costumi. I riconoscimenti per il film cimentano il nome del regista come sinonimo di autore.

Luca Guadagnino

Io sono l’amore

Il film racconta la storia della famiglia Recchi, una ricca famiglia milanese nel settore dell’industria tessile. La trama si concentra principalmente sulla matriarca della famiglia, Emma Recchi, e il suo rapporto segreto con Antonio, un giovane chef interpretato da Edoardo Gabbriellini. Mentre il matrimonio di Emma con il marito Tancredi inizia a scricchiolare, la sua passione per Antonio la porta a una nuova consapevolezza di sé e delle sue aspirazioni nella vita. Il film esplora temi di tradimento, desiderio, identità personale e le conseguenze delle scelte individuali sulla famiglia e sulla società.

“Sono l’amore!” canta Maria Callas per via di Tom Hanks nella più iconica scena di Philadelphia. Il film del ’93 va in televisione nella camera da letto di Emma, lacerata dal desiderio extraconiugale, e suo marito Tancredi, noioso e indifferente. Da qui il titolo Io sono l’amore, l’ultimo grido soffocato tra Eros e Thanatos di entrambi i protagonisti dei rispettivi film.

Io sono l’amore trabocca di lusso e sontuosità. La dimora della famiglia Recchi è la storica Villa Necchi Campiglio, un palco tanto limpido quanto opprimente per ospitare il dramma borghese interiore di Tilda Swinton. Guadagnino – cuoco appassionato – lavora con distacco ed ellissi per restituire la sacrilega unione tra cucina e desiderio. È così che Emma rompe le catene di una vita senza amore, assaporando la fiamma della cucina di Antonio. E proprio come Prometeo, la titanica Swinton dovrà affrontare le conseguenze di questa liaison proibita.

Il mondo è una piscina – Luca Guadagnino

Dopo il successo internazionale di Io sono l’amore, Luca Guadagnino allarga i suoi orizzonti. A Bigger Splash esce nel 2015 e segna il primo remake del regista. Liberamente tratto dal thriller psicologico di Jacques Deray, La Piscine, A Bigger Splash adotta un approccio più lento e bucolico alla storia. Il quartetto amoroso, formato dalla coppia fidanzata Tilda Swinton/Matthias Schoenaerts e la coppia padre-figlia Ralph Fiennes/Dakota Johnson, va in vacanza in una villa sull’isola di Pantelleria. Non più la Costa Azzurra dell’originale di Deray. Una distinzione rilevante: Pantelleria è una perla del Mar Mediterraneo, sospesa tra l’Africa e l’Europa, un luogo idilliaco per distendere i nervi dei protagonisti. È anche un’isola vulcanica, simbolo delle tensioni sommerse che ribollono tra di loro.

A Bigger Splash viene presentato in concorso alla 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Guadagnino ormai un habitué del Festival. Il film è categorizzato come un thriller, infatti non manca della violenza presente in La Piscine. I quattro attori protagonisti non sono mai stati così sensuali, tra fanghi, liti, sguardi d’intesa e piscine, ovviamente. La gelosia e la rabbia covano nascoste sotto quest’estetica provocante fino a scoppiare. Nonostante tutta l’orrore esposto, A Bigger Splash è una vacanza troppo seducente per resistere. Almeno per il pubblico non italiano.

A partire da A Bigger Splash, l’Italia raccontata da Guadagnino sembra stonare con le sale italiane. Nonostante il contributo del MiBACT in collaborazione con la Sicilia Film Commission, la distribuzione di Lucky Red e l’anteprima italiana, gli incassi della penisola ricoprono soltanto il 2,4% degli incassi totali. Che sia una questione di barriera linguistica o predisposizione del regista verso il pubblico estero, l’attenzione italiana è inversamente proporzionale a quella americana. In merito all’argomento, Guadagnino risponde così in un’intervista del Guardian del 2016:

“Tutto ciò che esce dalle regole del cinema italiano è sempre stato maledetto. Mio padre è un insegnante, mia madre era impiegata Telecom. Vengo da Palermo, sono cresciuto in Etiopia. Sono omosessuale. Non sono andato alla scuola di cinema. Ci sono molte ragioni per cui non sono ben visto.”

Luca Guadagnino

A Bigger Splash

Se Challengers propone un triangolo amoroso i cui angoli si toccano reciprocamente – come spiega Guadagnino nelle interviste per il film – A Bigger Splash presenta un quadrato ante litteram, i cui angoli si scontrano in pieno. La trama ruota attorno a una rockstar inglese di nome Marianne Lane (Tilda Swinton) che si sta riprendendo da un intervento chirurgico alle corde vocali insieme al suo compagno, il cineasta Paul De Smedt (Matthias Schoenaerts), sull’isola di Pantelleria. La loro tranquilla vacanza viene interrotta dall’arrivo improvviso di Harry Hawkes (Ralph Fiennes), l’ex produttore musicale e amante di Marianne, assieme alla figlia che ha appena scoperto di avere un anno prima, Penelope Lanier (Dakota Johnson). La presenza caustica ed egocentrica di Harry scoperchia tensioni sessuali del passato e gelosia tra i quattro.

Tilda Swinton non è mai stata più simile all’amico David Bowie sul grande schermo, anche senza voce. Matthias Schoenaerts è il perfetto uomo-accessorio sessualmente represso. Ralph Fiennes distrugge la quiete della vacanza italiana a colpi di Rolling Stones. Dakota Johnson spreme ogni goccia del suo nepotismo per incarnare la migliore Lolita della sua carriera. E sullo sfondo, una piscina circondata dal mare, il simbolo della miopia edonista più assoluta.

La seconda venuta a Crema – Luca Guadagnino

Non sarebbe iperbolico affermare che l’ultimo capitolo della “trilogia del desiderio” – o come lo definisce Guadagnino, “un altro film su persone ricche che si crogiolano in piscina” – sia stato il fenomeno cinematografico globale dell’annata 2017-2018. Chiamami col tuo nome è il cult indiscusso di Luca Guadagnino, il film che finisce al primo posto in qualsiasi classifica della sua filmografia. È il trampolino di lancio dell’enfant prodige indie/terza persona più giovane ad essere nominata per un Oscar al miglior attore protagonista/pischello preferito dei social per anni/fidanzato di Kylie Jenner/stella del cinema mondiale Timothée Chalamet. Lo stesso slancio valeva anche per Armie Hammer, almeno prima delle accuse di cannibalismo.

Per Guadagnino invece, è un errore. Così lo definisce nella stessa intervistata sopracitata a BadTaste.it:

“Ho fatto l’errore clamoroso di girare Call me by Your Name a Crema, non si deve mai girare un film nella propria casa.”

Come riporta il Rolling Stone, inizialmente Guadagnino era solo un consulente per il film, prima ancora di Io sono l’amore. Ma i produttori avevano bisogno di aiuto per definire i dettagli dell’ambientazione storica, quindi è entrato in scena per offrire la sua esperienza regionale. Ha iniziato a lavorare alla sceneggiatura con il candidato all’Oscar James Ivory, con l’aspettativa che avrebbe diretto lui il film. Durante quel processo, il regista italiano ha incontrato gli attori che avrebbero poi interpretato i protagonisti Elio e Oliver. Dopo l’uscita di A Bigger Splash, i produttori hanno suggerito Guadagnino come regista, che conosceva ormai il progetto dentro e fuori.

È questo il processo lungo e tumultuoso che porta a Chiamami col tuo nome, il film che ha cacciato Guadagnino fuori casa. Letteralmente, portandolo a trasferirsi a Milano, e metaforicamente, fino alla terra promessa di Hollywood. Il film riceve quattro candidature agli Oscar, tra cui miglior film, e vince miglior sceneggiatura non originale.

Luca Guadagnino

Chiamami col tuo nome

Come recita uno dei cartelli introduttivi più iconici della storia del cinema, la trama si svolge “somewhere in Northern Italy”. Elio Perlman (Timothée Chalamet), un diciassettenne fin troppo scaltro e brillante, trascorre l’estate del 1983 nella villa di famiglia divorando libri e suonando il pianoforte. La sua vita tranquilla viene sconvolta dall’arrivo di Oliver (Armie Hammer), uno studente americano di ventiquattro anni che lavora come assistente di ricerca per il padre di Elio, nella camera da letto accanto alla sua. Tra i due scorre una stima reciproca e un antagonismo intellettuale: Elio vorrebbe far colpo, ma è terrorizzato dal rifiuto; Oliver ricerca l’intimità, ma teme di ferire il ragazzo. Dalle loro uscite presto nasce un’intesa, che lentamente prende la forma di un amore travolgente e passionale. Tuttavia, il tempo è nemico e l’estate deve finire, così come la permanenza di Oliver in casa Perlman e nella vita di Elio.

Inizialmente recepito come una storia d’amore senza confini, nel corso degli ultimi anni Chiamami col tuo nome ha ammassato una grossa fetta di detrattori. La sua rappresentazione di una relazione tra un adolescente e un giovane adulto ha suscitato alcune accuse di “glamourizzazione”, soprattutto da parte di un pubblico giovane con chiare lacune nel pensiero critico. Come spiega IndieWire, l’adattamento di Luca Guadagnino del romanzo di André Aciman funziona perché considera questa relazione formativa per il protagonista Elio con delicatezza, esaminando come apre il suo mondo e lo schiaccia quando rimane solo un breve sogno estivo. Tutto in Chiamami col tuo nome – dagli attori, allo scenario bucolico italiano, alla cinematografia baciata dal sole – è incredibilmente bello ed è ancora più straziante che questa bellezza sia così effimera.

Guadagnino stesso non considera il film romantico, più tragico.

Oliver è per certi versi un’ossessione per Elio, un Adone da venerare come le statue greche studiate dal padre o come il “braccio della tregua” riesumato dal fondale marino. In questo senso, l’assenza di alcuna scena di sesso esplicito è pregna di significato, soprattutto da parte di un regista sensuale come Guadagnino. Il rapporto tra Elio e Oliver si basa sul desiderio e il film vuole raccontare le conseguenze emotive del primo amore. Nel rispetto di questa sensibilità, la modalità con cui questa relazione viene consumata non riguarda noi spettatori. Nemmeno se comprende l’utilizzo di una pesca.

La geniale fotografia di Sayombhu Mukdeeprom – con cui il regista collaborerà di nuovo in Suspiria e Challengers – è perfettamente complementare alla purezza di questo sguardo. Una singola camera, 35 mm in pellicola, una lente che assomigliasse il più possibile all’occhio umano.

La colonna sonora del film, invece, passa da un pianoforte classico, al puro revival anni ’80 e termina con la voce di Sufjan Stevens, responsabile degli stati depressivi di innumerevoli ascoltatori. La sua canzone Visions of Gideon, segue il memorabile monologo materno del padre di Elio e accompagna una delle sequenze di titoli di coda più iconiche della storia del cinema, giusto per chiudere il cerchio.

Argento (dis)approved – Luca Guadagnino

A questo punto della sua carriera, Guadagnino mette in pratica nuovamente gli insegnamenti di Fassbinder, realizzando un film dopo l’altro nello stesso anno. Subito dopo Chiamami col tuo nome, dà il via al suo secondo remake, stavolta quello di Suspiria di Dario Argento. Non esattamente un rifacimento dell’originale, ma più una reimmaginazione di quel mondo, della scuola di ballo, delle streghe. Il film segna anche un interessante rovesciamento del pubblico d’interesse esaminato finora. Una produzione Amazon, esce nel 2018 in concorso al 75° Festival di Venezia e riceve critiche polarizzanti. Gli incassi italiani si rivelano più calorosi del solito, ma all’estero il film è un consapevole disastro. Testate come The Hollywood Reporter lo includono tra i dieci peggiori film dell’anno, un vero colpo di frusta rispetto all’impresa precedente.

Tra le spiegazioni di questo insuccesso troviamo una denuncia di violazione di diritto d’autore da parte del patrimonio dell’artista defunta Ana Mendieta e una scarsissima programmazione teatrale nelle sale americane. Pochi hanno avuto il privilegio di vedere Tilda Swinton al cinema che interpreta tre personaggi diversi, tra cui uno psichiatra junghiano gender-bent, o Dakota Johnson che sfoggia un anno di scuola di danza per il suo ruolo di Susie Bannion. Pochi, ma tra questi anche il regista del Suspiria originale. Ecco cos’ha Dario Argento da dire riguardo il remake:

“Non mi ha entusiasmato, ha tradito un po’ lo spirito del film originale. C’è poca paura, non c’è musica. Non mi ha molto soddisfatto. La pellicola è raffinata, come Guadagnino, che è una persona fine […] Guadagnino fa bei tavoli, belle tende, bei piatti, tutto bello. La celebrazione del potere femminile era il tema anche del mio film, con protagoniste tutte donne […] Ma non esprimo un voto, non sono un professore.”

Luca Guadagnino

Suspiria

La storia ha le stesse premesse dell’originale: segue Susie Bannion, una giovane ballerina americana che arriva a Berlino per unirsi a una rinomata compagnia di danza. Una cornice aggiuntiva vede lo psichiatra Lutz Ebersdorf come unico punto d’accesso alla scuola di ballo proveniente dal mondo esterno. La compagnia è diretta dalla misteriosa Madame Blanc e sembra nascondere oscuri segreti legati a pratiche occulte. Nel frattempo, un’altra ballerina scompare misteriosamente e Susie inizia a scoprire la vera natura della compagnia e i suoi legami con uno storico covo di streghe.

A posteriori, alcuni spettatori hanno cambiato idea sul film.

Ecco l’interpretazione del critico David Mouriquand per Euronews Culture.

Susie nell’originale era una tradizionale “final girl” nel senso che è sopravvissuta ai mali intorno a lei. Ha distrutto il covo di streghe ed è andata via sotto la pioggia purificatrice. La nuova versione vede Susie come la “final girl”, nel senso che la sua forma finale è completa, ma la sua forza viene dall’interno. Non le è data e la sua espressione personale la porta ad abbracciare la femminilità e la maternità, nel senso qui del potere occulto. Attraverso il viaggio di Susie, Suspiria rivela di comprendere tutti gli archetipi tradizionali che vengono attribuiti ai personaggi femminili, anziché limitarsi ad un’unica categoria riduttiva. Lei è la fanciulla, è la madre, è la vecchia. “Io sono lei”, dice nel sabbat sanguinoso del finale, riflettendo tutti questi aspetti.

Susie ascende al suo posto legittimo all’interno del covo come la vera Madre Suspiriorum e apre un’era nuova, in cui la maternità non è una prigione imposta dagli uomini per mantenere le donne al loro posto. Viene riappropriata come una forza vitale che non si limita alla procreazione. Dai ganci uterini penetranti che il covo usa nei rituali, ai costumi e all’esplorazione della mitologia delle Tre Madri, Guadagnino tocca la vena del giallo in cui desideri psico-sessuali e femminilità si intersecano frequentemente, per esplorare meglio come la vergogna, la colpa e la maternità siano forze che possono essere reclamate dalle donne, oltre a rafforzare la rinascita come una forza vitale e intransigente.

Queer e ora – Luca Guadagnino

Un anno dopo l’uscita di Suspiria, Guadagnino si affaccia al mondo della televisione. Partono le contrattazioni con HBO: da un soggetto di Paolo Giordano, viene scritta da Francesca Manieri, Giordano e Guadagnino la sceneggiatura di una miniserie da otto episodi di un’ora intitolata We Are Who We Are. A luglio del 2019 viene rivelato il cast principale: Jack Dylan Grazer, Jordan Kristine Seamón, Chloë SevignyScott MescudiAlice BragaSpence Moore II, Faith Alabi, Corey Knight, Tom MercierFrancesca Scorsese, Ben Taylor e Sebastiano Pigazzi. Poi la pandemia, perciò la serie esce nel tardo 2020 sia negli Stati Uniti tramite HBO, che in Italia con Sky Atlantic.

We Are Who We Are fa tornare Guadagnino sui suoi passi del dramma adolescenziale, forse in parte per correggere l’incomprensione di Melissa P., in parte per cavalcare l’onda del racconto di formazione di Chiamami col tuo nome. La serie esplora un improbabile gruppo di amici, ribelli ognuno a modo proprio, i loro primi amori e le loro identità, immergendo il pubblico in tutta l’entusiasmante confusione e angoscia di essere adolescenti – una storia che potrebbe accadere ovunque nel mondo, ma che in questo caso si svolge in una base militare statunitense a Chioggia nel 2016. È qui che Fraser (Jack Dylan Grazer) e Caitlin (Jordan Kristine Seamón) si incontrano. Nel qui e ora.

Il sottotitolo della serie è Qui e Ora, motivo per cui, per la prima volta in quindici anni, Guadagnino gira in digitale. “Ho razionalizzato, in modo molto economico, l’idea dell’attualità girando in digitale. È stata un’ottima esperienza; l’ho fatto per la serie.” dice in un’intervista. La maggior parte delle riprese si è svolta nella ex-base Bagnoli di Sopra, ridenominata per l’occasione Caserma Maurizio Pialati, in onore di Maurice Pialat, grande ispirazione di Guadagnino.

Luca Guadagnino

We Are Who We Are

La base militare di Chioggia rappresenta un’arena efficacemente confusa: verosimile nell’estetica e al contempo paradossale nei suoi codici di etica, proprio come l’esperienza adolescenziale. La molteplicità delle problematiche che i personaggi affrontano a tratti rasenta l’assurdo. Che l’intero spettro delle malattie mentali possa riunirsi a Chioggia? Ma è nella costruzione di questo contesto militare che possiamo giustificare il super concentrato di dramma. Anche le interpretazioni del cast variegato rispecchiano questa linea di pensiero, giocando sulle aspettative. Chloë Sevigny, nella vita di tutti i giorni un’icona pop della moda, interpreta il rigido colonnello della base e madre tomboy di Fraser. Scott Mescudi, star dell’hip-hop, un severo pater familias con problemi di rabbia.

In questo mondo tra finzione e realtà, può coesistere anche Dev Hynes, il compositore dell’elegante colonna sonora della serie, ma anche il cantante della band Blood Orange, che Fraser e Caitlin ascoltano in continuazione con il sogno di andare a un suo concerto. In una delle scene più memorabili della serie, i due amici ricreano perfettamente, o meglio, con qualche inciampo, il videoclip della canzone del 2013 Time Will Tell, sullo sfondo della mensa militare. Il testo è esemplificativo della loro relazione, la messa in scena è una fantasia d’evasione, descrittiva della narrazione libera come flusso creativo.

Di degna nota anche il montaggio della serie, la prima collaborazione tra Guadagnino e Marco Costa. Il montaggio come narrazione: una sperimentazione postmoderna di fermo immagine e slow motion, che restituisce la frammentazione interiore dell’umore e delle identità dei protagonisti adolescenti. We Are Who We Are è per molti versi il dramma adolescenziale definitivo, obbligatorio per qualsiasi Peter Pan là fuori.

Ti mangio il cuore – Luca Guadagnino

Non a caso, dopo un film horror e una serie teen, Luca Guadagnino realizza Bones and All. In un’originale crasi dei due generi, il film del 2022, presentato ancora una volta a Venezia, è tratto dall’omonimo libro per giovani adulti di Camille DeAngelis. È il primo film di Guadagnino ambientato e girato interamente negli Stati Uniti. Il road movie-romantico-cannibale è cadenzato dalle musiche originali di Trent Reznor e Atticus Ross, noti per la band Nine Inch Nails. Il sodalizio con Timothée Chalamet continua e simbolicamente affianca un nuovo talento emergente: Taylor Russell, magnetica e più matura della sua età, che conquista il pubblico dal primo momento in cui appare sullo schermo.

La trama segue Maren Yearly (Taylor Russell), una giovane donna leggermente diversa dalle altre ragazze: sin da quando è piccola, ha l’istinto di mangiare le persone che ama. Abbandonata dal padre che le lascia dei soldi, il suo certificato di nascita e una cassetta, Maren intraprende un viaggio attraverso gli Stati Uniti alla ricerca della sua madre biologica, affrontando il suo passato e cercando di comprendere la sua natura insaziabile.

Lungo il cammino, incontra Sully (Mark Rylance), un uomo losco, cannibale come lei, che conserva una treccia di capelli di tutte le sue vittime. Poi Maren incontra un altro cannibale, stavolta più sicuro, un ragazzo di nome Lee (Timothée Chalamet), con il quale sviluppa presto un legame romantico. Tuttavia, la loro relazione viene messa alla prova dalla ricerca ossessiva della madre di Maren, dalle conseguenti rivelazioni che la donna porta sul passato della ragazza e soprattutto dalla presenza inquietante di Sully nelle loro vite.

Luca Guadagnino

Bones and All

Michael Stuhlbarg, il magnifico padre di Elio in Chiamami col tuo nome, fa un’apparizione in una singola scena di Bones and All per rivelare il significato del titolo del film. Con un’apparenza vagamente simile a Gollum, spiega che mangiare qualcuno “fino all’osso” corrisponde al massimo stadio di piacere per un cannibale di questo mondo. Quest’informazione pende sopra la testa dello spettatore da metà film come la spada di Damocle, pronta a cadere ad ogni momento. Il modo in cui Guadagnino è capace di risolvere quest’aspettativa narrativa è al contempo brutale e poetico, indice del suo profondo rispetto per entrambi i generi cinematografici a cui fa riferimento.

Bones and All non ha esattamente una premessa facile da vendere. Il film è polarizzante per questo motivo, non è per i deboli di cuore, ma neanche per un pubblico insensibile al vissuto di una ragazzina senza appartenenza. Eppure la sua forza risiede proprio in questa elasticità. La quantità di livelli di interpretazione del cannibalismo è formidabile: dal trauma intergenerazionale, all’amore queer, al disturbo da uso di sostanze, alla famiglia di elezione. Il limite è lo stesso orizzonte crepuscolare su cui si abbandonano assieme Maren e Lee.

Ménage à tennis – Luca Guadagnino

Fresco della sua uscita nelle sale italiane, Challengers sembra racchiudere tutti i migliori pregi delle opere di Guadagnino che lo precedono. Con un cast stellare, il film siede nell’intersezione centrale di un diagramma che incuriosisce virtualmente chiunque: le masse con Zendaya (Dune 2), la critica d’autore con Josh O’Connor (La chimera) e le ragazze di Broadway con Mike Faist (West Side Story). Demografie a parte, Challengers ha facilmente conquistato il primo posto al botteghino americano nel suo primo weekend, incassando $15,2 milioni, in linea con le stime prima della sua uscita. Il film ha segnato il miglior weekend di apertura della carriera di Luca Guadagnino.

La sceneggiatura di Justin Kuritzkes parla da sé. Insignita nel 2021 tra i primi posti della Black List, è un’adrenalinica dimostrazione di come spremere tutto il sudore fuori dal proprio tema narrativo. Kuritzkes instaura una sorta di filosofia relativa al tennis:

“Credo che si capiscano meglio come giocatori rispetto a chiunque altro. C’è una profonda intimità in questo, che è il tipo di intimità che si può avere solo con il tuo migliore avversario. Ed è il tuo migliore avversario proprio perché ti conosce meglio di chiunque altro.”

È partendo da questa base che il tennis in Challengers si trasforma in una questione di potere. È il desiderio di vincere, il desiderio sessuale, il desiderio di persistere sotto ogni circostanza che spinge i tre protagonisti agli estremi fisici e mentali.

Il tema della partita da tennis viene reiterato sotto ciascun aspetto tecnico del film: dalla narrazione non lineare degli eventi tra passato e presente, al montaggio dei campo-controcampo durante una discussione, al passaggio del vantaggio drammaturgico da un personaggio all’altro.

Luca Guadagnino

Challengers

Incorniciato intorno a una singola partita di tennis in un torneo professionistico di basso livello, tre giocatori che si conoscevano da ragazzi – Art Donaldson (Mike Faist), un vincitore di un Grande Slam famoso in tutto il mondo, Tashi Duncan (Zendaya), la sua ambiziosa moglie/allenatrice e Patrick Zweig (Josh O’Connor), il loro vecchio amico ora in declino classificato al 201º posto al mondo – riaccendono vecchie rivalità dentro e fuori dal campo.

Così recita la logline del film, dimenticandosi un elemento essenziale: il sesso. Come afferma David Ehrlich nella sua recensione per IndieWire in modo molto più diretto, “Si sono scopati l’un l’altro dentro e fuori dal campo per più di un decennio quando Challengers scaglia il suo primo servizio, eppure, nonostante abbiano vinto su ogni livello del loro sport scelto, questi atleti dalle lunghe gambe hanno perso la voglia di vivere in qualche momento lungo il cammino. A questo punto, il loro desiderio l’uno per l’altro potrebbe essere l’unica forza sulla Terra abbastanza potente da farli tornare concentrati sul gioco.”

Trent Reznor e Atticus Ross tornano dopo Bones and All con una colonna sonora techno martellante, degna di essere suonata al Berghain e ormai già virale per la sua adattabilità a qualsiasi altra sequenza d’azione di qualsiasi altro film. Oltre alla musica creata appositamente per il film, tra le canzoni preesistenti spicca un’impossibile Patty Pravo con Pensiero stupendo sulla radio di New Rochelle e un anacronistico Dev Hynes con Uncle Ace in un flashback del threesome del 2006.

Challengers si rivela un’altra schiacciata trionfante per Luca Guadagnino.

Ma l’autore non sembra volersi fermare. Con l’adattamento cinematografico di Queer di William S. Burroughs in arrivo quest’anno, Daniel Craig e Drew Starkey protagonisti, la ricerca del perfetto simbolo del desiderio continua per Luca Guadagnino.

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