Elisabetta Villaggio: “Quando De Andrè veniva a casa nostra” - la Repubblica
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Elisabetta Villaggio: “Quando De Andrè veniva a casa nostra”

Paolo Villaggio il giorno del suo ultimo compleanno con i due figli e il nipote

Paolo Villaggio il giorno del suo ultimo compleanno con i due figli e il nipote

 
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Dalle parole di Elisabetta Villaggio emerge una profonda ammirazione mista ad un sincero affetto per suo padre.

Paolo Villaggio è stato attore, scrittore da un milione di copie, regista, sceneggiatore, comico, e anche impiegato in Cosider. Difficile inquadrarlo.

Chi era in realtà Paolo Villaggio?

«Mio padre era un personaggio molto complesso, molto affascinante, molto curioso, spaziava dal cibo ai musei, ala letteratura russa; aggiungo anche molto faticoso, alzava sempre l’asticella, pretendeva molto da noi figli. Io avrei dovuto sposare un imprenditore di successo almeno come Marchionne, diventare famosa come Marilyn Monroe. Però sapeva che ero un’ottima organizzatrice e mi ripeteva che sarei stata la segretaria perfetta di Berlusconi. Avevamo un carattere abbastanza simile. Siamo anche andati insieme in discoteca e ci siamo divertiti».

Tanti amici nella sua vita. Pochi quelli veri.

«Sicuramente c’era Paolo Fresco, hanno fatto il liceo insieme, gli è sempre stato molto affezionato, e Fabrizio De Andrè. Avevano sette anni di differenza, si erano conosciuti in montagna da bambini, i nostri genitori erano amici; si sono rincontrati a Giurisprudenza, entrambi erano due pesci fuori d’acqua, due cavalli scalpitanti. Ricordo le sue numerose visite a casa nostra; siamo stati tra i primi a vederlo con Dori Ghezzi dopo il lungo rapimento; lo raccontava con un certo distacco come quando aveva chiesto delle sigarette ai suoi rapitori, se no sarebbe andato ‘fuori di passo’ e gliele diedero. Dori invece per tre mesi non si tolse mai le calze, non voleva far vedere lo smalto rosso sui piedi, per evitare reazioni inattese».

Vi siete trasferiti da Genova a Roma quando lei aveva 9 anni.

«Era stato Costanzo a convincerlo, erano stati alla Manuelina a Recco a mangiare la focaccia con il formaggio; all’inizio mio padre era partito solo con una valigia, poi si è trasferita anche la famiglia e il successo è arrivato potente, all’improvviso. Eravamo invasi dalle interviste, dai giornalisti. Io non volevo che venisse a scuola per parlare con gli insegnanti, esser la figlia di mi dava fastidio. Forse per questo a 21 anni, mentre ero iscritta a Filosofia, sono andata in America per seguire dei corsi di cinema. Finalmente sono diventata Elisabetta e sono tornata con un figlio, Andreas».

Come era Paolo Villaggio nonno?

«Avevano un rapporto ottimo, forse quello che gli assomiglia di più di carattere. Ricordo che quando aveva tre anni, io e mio fratello lo abbiamo portato al cinema per vedere un film di mio padre; lui, nell’anonimato totale della platea, ha esclamato ‘ma perchè chiamano il nonno Fantozzi?’Oggi fa l’aiuto regista ad alto livello a Roma, dopo aver passato 10 anni a New York, arrangiandosi e lavorando nel cinema».

Per suo padre il successo cosa ha rappresentato?

«La realizzazione nel suo lavoro, già dal liceo era la strada che voleva seguire, aveva un grande ego, la sua era una dote naturale, riusciva a intrattenere il pubblico, gli amici».

I suoi ultimi anni come sono stati?

«Era un workaholic, ha fatto monologhi fino agli ultimi tre mesi di vita, arrivava in teatro, e diventava un’altra persona. Nell’ultimo periodo lo accompagnava sempre mio fratello Pierfrancesco».

Un rapporto recuperato dopo la drammatica parentesi dovuta alla sua dipendenza dall’eroina, poi risolta. C’era qualcosa che non ha funzionato secondo lei?

«Sicuramente da bambino mio fratello era un po’ viziatello, mentre io non credo di esserlo stata; forse c’era della debolezza, qualcosa di non risolto, era un bambino bellissimo e molto simpatico; in famiglia avevano il mio esempio, mi sono sempre arrangiata. Mio padre si è chiesto molte volte cosa avesse sbagliato; forse andava seguito di più».

Ateo fine alla fine?

«Direi più agnostico, aveva letto la Bibbia, il Corano, la religione lo affascinava. Anche in questo gli assomiglio, ma se entro in chiesa mi faccio il segno della croce, mio figlio è battezzato».

Nel suo libro Fantozzi dietro le quinte, emerge un insegnamento di suo padre, quello di rincorrere la felicità. Lei ci è riuscita?

«È un tema difficile, sono attimi impercettibili, magari quella che ti entra dentro è qualcos’altro. Sicuramente vuol dire non lamentarsi, andare avanti e vedere il lato positivo delle cose. Ad esempio io sono felice quando viaggio».

Anche lei scrittrice, eclettica e interessata particolarmente alla vita dell’attrice Marilyn. C’è un perchè?

«Credo fosse leggermente disturbata, mi ha sempre incuriosita, nata disgraziata, eppure con la sua tenacia è riuscita a diventare la grande Marilyn Monroe».

Un progetto a cui tiene.

«Un libro nel cassetto, ambientato a Madeira, 18 racconti con personaggi veri e inventati, da Churchill a Cristoforo Colombo, alla Principessa Sissi, si parte dal 1400».

Suo padre ha lasciato la bozza di un romanzo, mai pubblicato.

«Un quadernetto con una scrittura indecifrabile, l’unica che riesce a leggerlo, è mia madre».

Oggi Fantozzi continua ad esser presente. A Genova c’è appena stato lo spettacolo Fantozzi.

Una tragedia con la regia di Livermore

«Mi è piaciuto molto, con l’ottima interpretazione di Gianni Fantoni, Genova lo ricorda sempre con grande affetto».

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