Paolo Sassanelli si racconta: “Fare l’attore ha curato anche la mia dislessia. E che gaffe con Italo Calvino alla Scala...” - la Repubblica

Bari

Paolo Sassanelli si racconta: “Fare l’attore ha curato anche la mia dislessia. E che gaffe con Italo Calvino alla Scala...”

Paolo Sassanelli (a sinistra) con Alessio Boni nel 'Metodo Fenoglio'
Paolo Sassanelli (a sinistra) con Alessio Boni nel 'Metodo Fenoglio' 

Da ‘Classe di ferro’ al ‘Metodo Fenoglio’, i ricordi di una vita: l’infanzia a Milano, il teatro con Nino Manfredi, la moglie tedesca. “E pensare che mi ero finto tossicodipendente per evitare il servizio militare. Fui denunciato per questo”

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Paolo Sassanelli, lei ha fatto il servizio militare?

«No, venni riformato».

E perché?

«Perché finsi di essere un tossicodipendente».

Mica male, come prova d’attore.

«Ma mi scoprirono e fui denunciato».

Come andò a finire?

«Mi difese l’avvocato Pietro Leonida Laforgia, poi un’amnistia mi salvò».

E pensare che il successo sarebbe arrivato con la serie “Classe di ferro”, che raccontava la leva.

«Dico sempre che in quella caserma ho fatto due anni di militare. È stata un’esperienza esaltante dal punto di vista umano, la bellezza di un lavoro è anche negli incontri con le persone».

Il regista era Bruno Corbucci.

«Un artigiano d’eccellenza del nostro cinema. Mi raccontava di quando aveva sceneggiato con altri l’episodio del vagone letto in Totò a colori...».

«Chi è che non conosce quel trombone di suo padre!».

«Doveva durare una dozzina di minuti, ma Totò e Mario Castellani lo allungarono a braccio. Meraviglioso».

In “Classe di ferro” c’era anche Adriano Pappalardo. È vero che vi tediava con “Ricominciamo”?

«In realtà Rocco Papaleo e io ogni mattina andavamo da lui urlando “e lasciami gridare, lasciami sfogare!”».

Lei è nato a Bari 65 anni fa ed è vissuto qui fino all’età di tre anni.

«Partimmo in cinque nella Seicento di zio Franco: lui, mia zia, mia madre, mio fratello e io, destinazione Milano. Ci si fermava dai benzinai a lavare i pannetti, attaccandoli poi ai finestrini per farli asciugare. Mia madre Pasquina veniva da Bari vecchia, aveva la licenza elementare. E papà Gaetano nemmeno quella».

Che lavoro faceva suo padre?

«Il truffatore».

In che senso?

«Girava l’Italia con vasi che spacciava per antichi, ma in realtà erano falsi».

E non l’hanno mai beccato?

«Quando lo fermavano chiedendogli che cosa fossero, lui rispondeva: “È artigianato locale che vendiamo alle fiere”. E se la cavava con una multa».

La famiglia Sassanelli con Paolo bambino in gita a Venezia
La famiglia Sassanelli con Paolo bambino in gita a Venezia 

Fantastico!

«Il mio nonno paterno, Paolo, era un commerciante ambulante di biancheria intima. Era stato il primo a trasferirsi a Milano: cedette la bancarella al suo socio, che poi sarebbe diventato il più importante grossista di intimo a Milano, e trascorse al bar il resto dei suoi giorni. Era veramente uno spasso».

Nel corto “Uerra”, la sua opera prima da regista, raccontò invece di suo nonno materno, Luigi.

«Persona serissima, un socialista che perse il lavoro per aver rifiutato la tessera del Partito fascista».

Dove vivevate a Milano?

«In una casa di ringhiera a Baggio, di quelle con il bagno in comune».

“Và a Bagg a sonà l’ôrghen...”.

«E sì, la conosco bene quella storia».

Baggio all’epoca era diventato una sorta di dormitorio di Milano.

«Per strada eravamo una quindicina di ragazzi, tutti figli di emigrati arrivati lì da Puglia, Calabria, Sicilia. Famiglie con nomi importanti...».

Era la Milano di Vallanzasca & C.

«Giocavamo a baseball, una passione che poi avrei coltivato in Puglia militando in serie B col Valenzano».

Un’altra storia pazzesca.

«Con il mio amico Elio, quello delle Storie tese, ci siamo detti che prima o poi la racconteremo in un film».

A 14 anni tornò a Bari.

«L’eroina stava infestando Milano e papà decise che non era più il caso di restare lì. Con me funzionò, ma con mio fratello sarebbe finita male».

Perché?

«È morto di cirrosi epatica. L’eroina lo aveva devastato, purtroppo».

Quanti figli eravate?

«Due maschi e due donne. Una vive a Modugno e l’altra se l’è portata via il Covid a Milano quattro anni fa».

A Bari cosa fece?

«Papà mi voleva geometra e mi iscrisse al Pitagora. A scuola andavo malissimo. Ero dislessico — lo sono ancora — e avevo enormi difficoltà per la comprensione di un testo».

E come fa con le sceneggiature?

«Il lavoro mi ha aiutato. La scrittura è ancora incasinata, invece: una pagina scritta da me è fatta di tante grafie messe assieme. Bari comunque mi cambiò decisamente la vita».

Perché?

«A Milano dopo le scuole medie sarei andato a lavorare, come tantissimi ragazzi della mia età. A Bari invece scoprii la bellezza e il piacere della lettura. Ricordo che una sera entrai alla Laterza perché attratto da una copertina bellissima: era La talpa di John le Carré, mi si aprì un mondo».

Voto di maturità?

«Trentasei. Mi salvò Pirandello».

In che modo?

«Franco Perrelli mi aveva aiutato a scrivere la tesina e il presidente della commissione si disse estasiato dal calore e dalla passione con cui avevo descritto il teatro pirandelliano».

Cosa c’entrava Perrelli con lei?

«Era uno dei miei docenti al Piccolo teatro di Bari, dove mi ero avvicinato al mondo della recitazione».

A Milano se dice «vengo dal Piccolo» pensano a Strehler.

«Ogni tanto gioco anche su questo...».

Quand’è che ha detto a sé stesso «sono diventato un attore»?

«La scelta vera e propria è arrivata dopo i trent’anni. Ma si è sempre attori, sia in un piccolo teatro sia alla Scala. Mi è successo anche questo».

Davvero?

«Nel 1982 portammo in scena La vera storia: un’opera lirica di Luciano Berio su testo di Italo Calvino, col quale feci una colossale figura di m... Lui ci venne incontro per salutarci — ero fra le voci narranti con Fabrizio Bentivoglio — e io gli strinsi la mano dicendo “piacere, Paolo Sassanelli”. Mi guardarono tutti malissimo, a cominciare dalla grande Milva».

“Classe di ferro”, la notorietà.

«Ricordo il primo autografo nella metro a Roma, stazione Cavour».

C’era da montarsi la testa.

«Invece sono sempre rimasto con i piedi per terra. E dopo quella serie tornai a proporre il teatro nelle scuole con Marinella Anaclerio».

Sua moglie è una sua collega: Marit Nissen, tedesca di Amburgo.

«Ci siamo conosciuti grazie a Nino Manfredi, col quale abbiamo recitato a teatro in Viva gli sposi.Nino era una persona eccezionale, veniva dalla guerra ed era abituato a non sprecare nulla. Una domenica sera eravamo in stazione a Modena, Marit e io avevamo fame ed era tutto chiuso: lui aprì la sua 24 ore e tirò fuori quattro panini che gli avevano fatto trovare in camerino, fu la nostra cena».

Paolo Sassanelli durante una vacanza in Grecia con la moglie Marit e i figli Lilian e Ian
Paolo Sassanelli durante una vacanza in Grecia con la moglie Marit e i figli Lilian e Ian 

Com’era lavorare con Manfredi?

«Vederlo all’opera è stato un grande dono. Curava ogni dettaglio e ci raccontava tante cose di sé, compreso quando aveva rischiato di morire per la tubercolosi».

E Marit come la conquistò?

«Mi ha raccontato: “Ti avevo visto girare per Modena in bicicletta e mi ero detta che saresti stato il padre dei miei figli”. Stiamo insieme da 35 anni, mi è difficile vivere lontano da lei».

Avete due figli.

«Lilian ha 31 anni, è una regista di documentari e vive a Lugano col suo compagno: fra poco nascerà Ezio e diventeremo nonni. Ian ha 22 anni ed è un operatore di macchina, sta lavorando con Fiorello in Viva Rai 2! e vuole fare il direttore di fotografia».

A casa chi cucina?

«Marit ha imparato benissimo la cucina barese e spazia alla grande dalle orecchiette con le cime di rapa alle brasciole e al riso patate e cozze. Anch’io me la cavo, comunque».

Nel “Metodo Fenoglio” è stato l’appuntato Pellecchia. Chi le ha ispirato la sua caratterizzazione?

«Gli amici di mio padre ai tempi baresi. Pellecchia si muoveva nel mondo di mezzo fra legalità e illegalità, d’altronde. Sul set si sono poi rivelati decisivi i consigli di due ufficiali dei carabinieri che ci hanno seguito per tutte le riprese».

I colleghi baresi che apprezza?

«Dino Abbrescia, che è anche mio vicino di casa a Roma, Totò Onnis, Gianni Ciardo, Nico Salatino, Nietta Tempesta, Dante Marmone e gli altri che ora mi sfuggono. Poi gli indimenticabili Gianni Colajemma e Mino Barbarese. Sarebbe bello ritrovarci assieme in un progetto».

In un film o a teatro?

«Penso a una scuola di recitazione sul modello della “Palestra dell’attore” fondata a Roma da Elio Germano. Il Piccinni potrebbe essere la base ideale, grazie anche all’Apulia Film Commission. Che però dovrebbe invocare più spazi per i nostri attori».

Me lo diceva qualche settimana fa anche Tiziana Schiavarelli.

«La nostra Vanessa Scalera è stata una bravissima Imma Tataranni. Perché non andare avanti così?».

Qual è il suo difetto più grande?

«Fosse solo uno... Secondo mia moglie è la passione per il calcio. Guardo partite in continuazione, anche quelle della C, e ho appena finito di allenarmi con la Italiani Attori. Faccio il laterale sinistro».

E un pregio su tutti?

«So farmi scivolare addosso le cose. In questo mi aiuta il mio essere buddista, una guerra la si ferma anche estirpandola da dentro di noi».

Dove sarà fra dieci anni?

«Su un campo di calcio a vedere il mio nipotino giocare a pallone».

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