Una catena di Sant’Antonio: Bari, Torino, Palermo, Catania e Genova, last, but not least. Per adesso. Casi giudiziari diversi l’uno dall’ altro, al centro di questi c’è il rapporto giustizia e politica. Tangentopoli docet. Nella fattispecie, ci fu anche il combinato disposto di mezzi di informazione e di procure. Tuttavia, dal 1992 ad oggi il rapporto tra l’una e l’altra non è stato sanato con delle riforme il cui bisogno sta diventando impellente. Ed è ora anche di finirla con attacchi reciproci: da un lato, «Casta» politica, grazie a Sergio Rizzo e a Gian Antonio Stella, dall’altro, «Partito dei magistrati» di Mauro Mellini. Il presidente Toti, l’ultimo caso della catena, è stato arrestato per corruzione, ma leggendo, approssimativamente, le carte non era necessario l’arresto, ascritto al solito copione «giustizia ad orologeria», o, anche, all’uso politico della magistratura, visto che è avvenuto a inizio di campagne elettorali comunali ed europea.

Che fretta c’era fare gli arresti nelle città di cui sopra e la retata di Genova a pochi mesi dalle campagne elettorali, non si sarebbe potuto aspettare di farli dopo. In tal modo, si fa ciò che si vorrebbe evitare: inasprire i rapporti tra politica e giustizia. Sicché, le campagna europea, per la piega che ha preso, ha più le sembianze di una tornata elettorale politica. Tutti i leader politici, esclusi Conte e Salvini, in una maniera e nell’altra, sono candidati.

Il mandato di arresto di Giovanni Toti è del 27 dicembre, e non essendoci il pericolo di fuga e di inquinamento delle prove e la mancanza reiterazione del reato, guarda caso, avviene quattro mesi dopo. Una vera e propria assurdità.

Anche sul caso Bari, c’è molto da dire: inchieste svolte negli anni passati e chiuse nei cassetti, nel pieno della campagna delle primarie in cui si sarebbe dovuto scegliere il candidato sindaco del centrosinistra: tra Michele Laforgia e Vito Leccese, vengono tirate fuori ed è successo il finimondo attorno alla vicenda dei voti comprati e il caso Pisicchio. Indagato anni fa e ai domiciliari da circa un mese. La denunziante è stata l’ex presidente dell’associazione politica del denunziato e, peraltro, candidata alle prossime comunali di Bari. Talché si pone il problema delle classi dirigenti locali in modo trasversale di come selezionano i propri candidati e di come vogliono gestire la cosa pubblica. Le cui tentazioni clientelari e affaristiche sono giornaliere.

Tutti sapevano di queste inchieste e stavano lì come le scimmiette dei romanzi gialli: non vedevano, non sentivano e non ascoltava, all’improvviso, come un fulmine al ciel sereno, sono scattati gli avvisi di garanzia e gli arresti. Tuttavia, è bene precisare che neanche per sogno sono stati sfiorati Emiliano e Decaro.

La cosa curiosa di queste inchieste, per esempio, a Bari, è il centrosinistra coinvolto in indagini giudiziarie e il centrodestra cosa fa? Si precipita al Viminale con tutti i parlamentari pugliesi, chiedendo l’intervento del ministro dell’Interno, denunziando infiltrazioni mafiose e chiedendo lo scioglimento del Comune. E il ministro Piantedosi ha inviato una commissione per indagare sul caso. Viceversa a Genova è stato il centrosinistra che, non tenendo alcun conto della presunzione d’innocenza di Toti, esponente del centrodestra, ha chiesto lo scioglimento dell’assemblea regionale.

Il film si ripete ogni qualvolta le inchieste giudiziarie succedono al centro, a destra o a sinistra. Molto clima giustizialista è alimentato dai 5S.

Dietrologia o meno: c’è la nuova ondata di inchieste, come risposta, si dice, della magistratura alla riforma della giustizia messa in cantiere - a dire il vero a lavori ancora fermi - dal ministro Nordio. Alla prova dei fatti, molto se ne parla, ma riforme, alle viste, poche. Di sicuro, «la madre della riforma» è la separazione delle carriere che porta allo sdoppiamento del CSM: da una parte, il Consiglio della magistratura inquirente, dall’altra, il Consiglio della magistratura giudicante. La sempiterna Anm non vuol sentire parlare di riforme, bloccata allo status quo ante, e, per ogni stormir di foglia, chiama alle armi per difendere l’indipendenza e l’autonomia della magistratura . Da che è mondo è mondo, alcuno vuole minimamente metterle in discussione.

È una storia che si ripete ogni qualvolta si parla di riforma della giustizia. La Commissione bicamerale sulle riforme costituzionale e istituzionali - compresa la giustizia - di cui era presidente Massimo D’Alema, avrebbe dovuto riformare la seconda parte della Costituzione - la prima, nei suoi principi basilari, non è da cassare-. Ci fu una intesa tra D’Alema e Berlusconi che passò al rango di padre costituente, dopo che la sinistra gliene disse di cotte e di crude. Per questo, Giampaolo Pansa coniò i «Dalemoni», il coacervo politico formato dalla coppia D’Alema e Berlusconi. Onestamente, la Bicamerale fece un lavoro egregio sotto tutti gli aspetti e si perse una occasione storica, per via della Amn, complice Scalfaro, che bocciò per prima il lavoro della Bicamerale. Poi arrivò la botta finale da parte di Gherardo Colombo.

Al che, il «Corriere della sera» uscì con il titolo: «Colombo: Bicamerale figlia del ricatto». Brutto segno. Colombo fu il portavoce del dissenso delle toghe alle riforme della Bicamerale, la cui fine definitiva avvenne anche per colpa dell’ala filo magistrati all’interno dei post comunisti. E va da sé che mal gliene incolse. E come mal gliene incolse alla democrazia, tant’è che ancora si discute di riforme.

Stavolta sembra, salvo che tutto non si riduca in un bluff, la maggioranza meloniana è intenzionata a portare in porto la riforma sulla giustizia, con l’appoggio delle forze centriste - Renzi e Calenda -. Riforme importanti per rinnovare la giustizia e per l’equilibrio dei poteri di cui si sente tanto il bisogno. Lungi dal pensare che siano riforme punitive della politica verso i magistrati che remano contro la politica.

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