Siblings, la parola inglese per “fratelli”: storia di chi cresce con un fratello o sorella disabile   - la Repubblica

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Si chiamano siblings: sono molto più di fratelli e sorelle

Bianca (24 anni) e Samuele Ragona (22) nella loro casa di Aprilia (Latina) con il cane Navì (Luigi Narici / Agf)
Bianca (24 anni) e Samuele Ragona (22) nella loro casa di Aprilia (Latina) con il cane Navì (Luigi Narici / Agf) 

Il termine inglese da noi indica chi cresce con un disabile in cameretta e si carica fin da piccolo di grandi responsabilità. Tanto da sviluppare fragilità spesso ignorate. Inchiesta

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Aprilia (Latina). Bianca ha 24 anni, Samuele 22. Bianca studia biologia, Samuele ingegneria. Sono sorella e fratello, cresciuti insieme ad Aprilia (Latina), più o meno inseparabili. Samuele ha la distrofia muscolare di Duchenne, una malattia genetica che porta alla progressiva degradazione dei muscoli, e vive su una carrozzina elettrica. Bianca no: è dritta sulle sue gambe e ha la chiacchiera allegra. Ma se la malattia ce l’ha solo Samuele, la disabilità la vive anche Bianca. Solo che per capirlo guardarla non basta: bisogna starla ad ascoltare.Bianca, tecnicamente, è una sibling, che in inglese significa fratello o sorella ma qui ha assunto il significato di fratello o sorella di persona disabile: una condizione che sta cominciando a trovare la sua voce grazie a siblings oggi quasi cinquantenni che un giorno si sono guardati, si sono riconosciuti e hanno deciso di chiamarsi così. Hanno creato loro, alla fine degli anni Novanta, i primi gruppi di autoaiuto oggi presenti in molte associazioni.

Bianca Ragona, per esempio, fa parte del gruppo di sibling di Parent Project aps, ong con sede a Roma, che riunisce le famiglie di bambini e ragazzi con distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Dello stesso gruppo fa parte Stefano Magnano, che ha 27 anni, è carabiniere, e ha un fratello di nome Marco. La condizione del sibling, Stefano la spiega così: «Mentre i genitori, quando scoprono la malattia del figlio, devono rinunciare a progetti e idee di futuro, noi con la malattia dei nostri fratelli ci cresciamo. Per noi è più naturale, meno traumatico. Crescendo capiamo di avere una vita diversa da quella dei nostri coetanei ma non la viviamo necessariamente come una rinuncia». Anche perché diverso, insistono Bianca e Stefano, non vuol dire infelice.

Un bagaglio pesante

Per esempio, Bianca e Samuele in viaggio con mamma e papà, nel racconto di Bianca: «Siamo andati a Barcellona per tre notti. Avevamo un bagaglio da 30 chili in stiva, un trolley, quattro bagagli a mano… Ma noi avevamo tre paia di mutande e due magliette a testa. Il resto era di Samuele! Perché è freddoloso, e poi perché ha bisogno di cose che non sono comodità: sono necessità, come il respiratore. Il risultato era comunque una comica: qualsiasi borsa aprissimo, c’era roba di Samuele!».

Allora dov’è il problema? È che, spiega Marica Pugliese, psicologa del Centro Ascolto Duchenne, «la letteratura mette in evidenza alcuni tratti comuni dei sibling, a partire dalla loro condizione di invisibilità». Non per niente sono a volte definiti “i fratelli invisibili”. Cioè tutti vedono la carrozzina di Samuele e Marco, mentre è più difficile vedere in Bianca e Stefano la loro precoce iper-responsabilizzazione e il rischio «di un’inibizione dei propri bisogni». In certi casi, prosegue Pugliese, «può emergere una somatizzazione che nei bambini può portare a difficoltà scolastiche o a disturbi del sonno e dell’alimentazione, e che crescendo può tradursi in disturbi di ansia e in difficoltà di realizzazione».

Un sibling può diventare una specie di superfratello o supersorella, con alcune fragilità tutte sue. «Quello che a me faceva stare male», racconta Stefano, «era credere che le cose che io vivevo, Marco non le avrebbe vissute. Perciò tenevo per me ciò che di bello mi succedeva: studio, amicizie, viaggi, amori. Sbagliavo, ma l’ho capito dopo». Bianca ha avuto gli stessi pensieri, ma reazioni più vigorose: «Al liceo non volevano far uscire Samuele da scuola con me. Tutti uscivano da soli, e mamma ci avrebbe aspettato con la macchina 500 metri più in là. Ma i miei genitori si sono fatti convincere dalla preside! L’unica a battersi per la sua indipendenza ero io. Con Samuele che sarebbe stato felice di quei dieci minuti di libertà».

E poi c’è l’aiuto concreto che un sibling dà in casa, che può diventare un vincolo difficile da recidere. Per esempio, Stefano, che è alto e forte, era abituato a essere quello che sollevava Marco e spostava la carrozzina. «Per allontanarmi da casa e realizzarmi nel lavoro che mi piace», racconta «non ho voluto rischiare di portarmi dietro anche i sensi di colpa. Così ho scelto una soluzione graduale: ho frequentato tre anni di università abbastanza vicino a casa, e quando ho visto che i miei genitori ce la facevano anche senza di me, mi sono sentito che potevo partire».

Alcune caratteristiche della vita del sibling si ripetono. Le cose cambiano quando si parla con persone di un’altra generazione o di altri tipi di disabilità. Come Carla Fermariello, che ha una sorella, Giulia, con la sindrome di Down, ed è stata tra i primi sibling ad attivarsi negli anni: «Ho cominciato a parlare di Giulia solo nel ’97, e avevo già più di vent’anni». Perché prima ci si curava poco di comunicare la diagnosi a fratelli e sorelle, ed «è stato grazie al confronto con altri sibling che ho capito che la disabilità è complicata per tutti, ma che i problemi vengono soprattutto dal mondo esterno. E la mia sofferenza era perché non avevo strumenti per raccontare chi fosse Giulia».Oggi le associazioni e gli psicologi insistono molto sulla necessità di discutere dei e coi sibling: «Noi cominciamo da piccoli a pensare alla nostra vita adulta», insiste Fermariello, «a porci il problema della solitudine, dell’allontanamento sociale dei nostri fratelli o sorelle, e quindi anche nostro. E al cosiddetto “dopo di noi”, cioè chi si occuperà del nostro familiare disabile quando i genitori non potranno più farlo».

Obiettivo comune: autonomia

Questo può avere ricadute importanti sulla personalità e sulle scelte. Ricadute che, se ben indirizzate, possono anche essere positive. «Molti di noi finiscono per scegliere di lavorare nel sociale. Ci sono persino studi scientifici che lo dicono: un sibling sviluppa empatia, pazienza, capacità di comprensione». E resta per tutta la vita un fratello o una sorella speciale. «Il mio rapporto con mia sorella», chiosa Carla, «è di amore, rispetto, e stima. Perché io le ho viste le sue difficoltà: ho visto che lei per imparare a leggere e scrivere ci ha messo tutti e cinque gli anni delle elementari. È stato faticosissimo. Ma adesso che è adulta la scrittura e la lettura sono un elemento fondamentale della sua autonomia».Il nocciolo per tutti sembra stare là: nel raggiungimento dell’autonomia per sé ma soprattutto per il fratello o la sorella disabile. E allora, oggi Samuele gioca a hockey e ha una fidanzata. Al primo appuntamento si è presentato con Bianca, ma, ride lei, «gli ho solo tolto il giacchetto e li ho lasciati da soli!».

Giulia abita con la mamma, che è anziana, e come racconta Carla, «sono di grande sostegno l’una per l’altra. E io sono grata a Giulia perché, a suo modo, si prende cura di nostra madre».Infine Marco: frequenta l’università, è felice, e ogni sabato sera esce con gli amici. E Stefano ogni sabato sera riceve il selfie di qualcuno che sta bevendo una birra con Marco. «Sabato scorso», racconta, «è successo alle due di notte. Mi hanno poi spiegato che c’era una festa in paese, ma Marco stava rinunciando perché per arrivarci bisognava salire una lunga scalinata. Allora gli amici si sono messi in gruppo e l’hanno sollevato, fino a portarlo su. Solo la carrozzina pesa duecento chili, con lui sopra si va vicino ai trecento… Ma alla festa ci è arrivato, e io mi sono commosso».

Sul Venerdì del 10 maggio 2024

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