Affinità/divergenze tra fideiussioni omnibus e clausole Euribor - DB

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Affinità/divergenze tra le fideiussioni “omnibus” e le “clausole Euribor”: del conseguimento della nullità antitrust

17 Maggio 2024

Alfonso Parziale, Dottore di ricerca in diritto dell’economia, Università Roma Tor Vergata

Nicola Maria Francesco Faraone, Assegnista di ricerca in diritto dell’economia, Università Europea di Roma

Di cosa si parla in questo articolo

 [*] SOMMARIO: Il contributo analizza le principali questioni attinenti alla potenziale nullità delle clausole “Euribor” contenute nei contratti di finanziamento, alla luce delle più recenti posizioni assunte dalla giurisprudenza. Il percorso argomentativo parte dall’analisi del quado normativo e di prassi applicabile, attraverso una illustrazione del mercato degli interbank offered rate e degli scandali emersi nei primi anni 2000, che hanno condotto a provvedimenti di censura della Commissione UE. Si prosegue con l’illustrazione della questione, che attiene alla potenziale nullità delle clausole “Euribor” per violazione della normativa in tema di concorrenza: viene illustrata l’attuale posizione della giurisprudenza, anche attraverso il richiamo alle note pronunce in tema di fideiussione omnibus, ed eseguita un’analisi di comparabilità delle due fattispecie. La conclusione degli autori è che il rimedio della nullità “antitrust” non trova applicazione al caso delle clausole “Euribor”, dovendosi in individuare una soluzione diversa alla luce del quadro normativo applicabile.

ABSTRACT: This work analyses the main issues concerning the potential nullity (nullità) of the ‘Euribor’ clauses contained in financing contracts, in light of the most recent positions taken by case law. The argumentative path starts with an analysis of the applicable regulatory framework and industry practices, through an illustration of the interbank offered rate market and the scandals that emerged in the early 2000s, which led to sanction decisions by the EU Commission. This is followed by an illustration of the issue concerning the potential nullity of Euribor clauses due to violation of competition law: the current position of jurisprudence is illustrated, also through reference to the well-known judgements on the subject of omnibus guarantees, and an analysis of the comparability of the two cases is performed. The authors’ conclusion is that the remedy of ‘antitrust’ nullity does not apply to the case of ‘Euribor’ clauses, a different solution having to be found in light of the applicable regulatory framework.


1. Introduzione

Alcuni recenti provvedimenti giudiziali di legittimità[1] hanno riacceso l’interesse per una questione già oggetto di analisi da parte della giurisprudenza di merito, e cioè la potenziale nullità di clausole di fissazione del tasso di interesse nei rapporti di finanziamento ancorate ad un indice manipolato, per violazione della normativa concorrenziale. La vicenda sta assumendo sempre maggiore rilievo nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, tanto da determinare il rinvio della questione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’obiettivo di comporre la perdurante incertezza venutasi a determinare nei Tribunali con riguardo alla materia[2].

I punti attualmente oggetto di dibattito riguardano, principalmente, la natura di “prova privilegiata” dell’accertamento di condotte anticoncorrenziali da parte della pubblica autorità, ai fini dell’accertamento di un’intesa e, soprattutto, la potenziale nullità delle clausole contrattuali che, al loro interno, facciano riferimento al tasso Euribor “manipolato” per la determinazione della prestazione di interessi, nel periodo di rilevazione delle intese illecite (a prescindere dalla circostanza che la banca contraente avesse o meno partecipato all’intesa censurata).

Più in generale, la vicenda segna un nuovo episodio del dibattito sui rimedi applicabili in caso di accordi ritenuti astrattamente esecutivi di intese anticoncorrenziali. Come si avrà modo di evidenziare, sono molteplici i parallelismi con la nota esperienza delle fideiussioni “omnibus” in Italia, per quanto, nella nuova vicenda delle clausole “Euribor”, le peculiarità del caso di specie potranno indurre a rassegnare conclusioni diverse da quelle raggiunte con riguardo all’altra vicenda.

2. Clausole di interesse e determinazione per relationem dell’oggetto della prestazione

In prima battuta, occorrerà individuare il perimetro entro quale operare le riflessioni che seguono.

La peculiarità della vicenda risiede nella circostanza che le clausole “Euribor” oggetto di attenzione non sono, di per sé, oggetto diretto dell’intesa limitativa della concorrenza (come nel noto caso relativo alle c.d. fideiussioni omnibus)[3], si assiste alla costituzione di un cartello di prezzi finalizzato al coordinamento delle condizioni economiche applicabili ai prodotti bancari (di cui pure si può riscontrare un esempio recente a livello territoriale)[4]. Piuttosto, come si vedrà, la questione posta all’attenzione delle Corti riguarda l’impiego nei contratti bancari di un valore esterno, richiamato per relationem, ai fini della determinazione dell’oggetto della prestazione: tale riferimento è un indice su tassi di interesse ed il suo impiego è funzionale a determinare la prestazione di interessi, tra gli altri, nei contratti di finanziamento a tasso variabile.

Dal punto di vista strutturale, la vicenda ha ad oggetto un indice, i.e., una misura calcolata secondo una metodologia predeterminata, sulla base di un set di dati. Quando tale indice viene impiegato come parametro di riferimento per altri strumenti o contratti finanziari, lo stesso è generalmente detto benchmark (o indice di riferimento)[5].

Con riguardo ai c.d. indici su tassi di interesse, gli stessi sono normalmente espressi in forma percentuale e con riferimento ad una durata temporale (c.d. tenor) e normalmente esprimono un valore di apprezzamento e di scambio basato su quotazioni o operazioni effettive aventi ad oggetto la valuta rappresentata dall’indice.

Storicamente, l’indice su tasso di interesse più rilevante per volume di operazioni è stato il Libor (London interbank offered rate), un indice di riferimento sviluppato nel Regno Unito a partire dagli anni ‘60 del XX secolo[6], con l’avvio dei mercati delle c.d. eurovalute[7]. Il termine indicava un paniere di tassi di riferimento, i quali indicavano il tasso medio al quale alcune banche operanti sulla piazza di Londra si aspettavano di poter prendere in prestito da altre banche fondi in una certa valuta[8] e con una certa data di rimborso[9].

Impiegando la medesima metodologia, nel tempo si sono sviluppati indici con metodologie similari (basate, cioè, sulle submission inviate da un panel di banche relative al costo di reperimento della provvista) e, tra questi, merita ovviamente menzione l’equivalente europeo del Libor, e cioè l’Euribor, la cui rilevazione è stata avviata contestualmente all’introduzione dell’Euro[10].

L’Euribor (acronimo di Euro Inter Bank Offered Rate, tasso interbancario di offerta in Euro) è la denominazione di una famiglia di tassi di riferimento, calcolati giornalmente[11], che rappresentano il tasso di interesse medio al quale, all’interno del sistema interbancario, vengono condotte operazioni interbancarie a breve termine all’interno dell’Unione Monetaria Europea. In sostanza, quindi, l’indice rappresenta un indicatore medio di costo della provvista (i.e., la potenziale fonte di approvvigionamento di denaro per la banca finanziatrice, alternativa all’impiego dei depositi versati dai clienti) o di impiego di liquidità sul mercato interbancario.

Dal punto di vista amministrativo, la gestione dell’Euribor è oggi affidata allo European Money Market Institution (EMMI)[12]; in precedenza (ed in particolare al tempo delle violazioni rilevate che danno origine alla vicenda oggetto del presente contributo), la rilevazione era eseguita dalla Euribor – European Banking Federation (Euribor – EBF).

Il sistema è regolato, oltre che dalle norme europee sopra citate, da un proprio codice di condotta[13], che comprende anche i criteri impiegati per la selezione delle banche del panel e gli obiettivi del comitato di supervisione del sistema. Quanto alle modalità di rilevazione e di calcolo, un panel di istituti di primaria rilevanza (attualmente 19, al tempo dell’intesa 44) comunicavano il tasso medio al quale fornirebbero credito non assistito da garanzie ad altre banche di pari livello (prime bank) sul mercato, calcolato giornalmente alle ore 11 del mattino, a diverse scadenze (1, 2 settimane, 1, 2, 3, 6, 9, 12 mesi)[14]. I dati sono elaborati (oggi) da un sistema gestito da un agente di calcolo, Global Rate Set System Ltd. (GRSS), in conformità con le regole contenute del codice di condotta (al tempo delle violazioni, da Thomson Reuters per EBF).

Dal punto di vista pratico, l’impiego di indici su tassi di interesse come quelli sopra brevemente rappresentati costituisce un utile strumento per la fissazione dei prezzi, e rende gli stessi più comprensibili attraverso un processo di standardizzazione, che riduce i costi di transazione e migliora la liquidità; da ciò deriva l’ampio uso degli stessi nel sistema economico occidentale[15].

Per quanto qui concerne, il tasso Euribor è impiegato in Italia, inter alia, anche per determinare il valore di tasso di interesse variabile applicabile ad un’operazione di finanziamento (mutui alle imprese e consumatori, credito ai consumatori, leasing, ecc.): in sostanza, il tasso “finito” è dato dalla somme dell’indice Euribor (i.e., il potenziale costo della provvista o dell’impiego sul mercato interbancario) e di un c.d. margine (che sintetizza alcuni elementi di profitto per il finanziatore, tra cui la valutazione di rischiosità del prestito effettuato)[16].

3. Scandali in materia di manipolazione del mercato

Nonostante l’indubbia rilevanza della materia e l’impatto rilevantissimo della stessa sulla vita economica occidentale[17], il tema degli indici finanziari per lungo tempo è stato collocato al di fuori dell’intervento legislativo, e sostanzialmente relegato ad un ambito di self-regulation e di prassi di mercato[18].

L’attitudine dei regolatori internazionali è, però, radicalmente mutata a seguito della scoperta di alcuni scandali di particolare gravità relativi agli indicatori Libor ed Euribor in Europa[19], i quali hanno posto dubbi considerevoli circa la possibilità di rimettere al mercato la determinazione di tali indici.

In tal senso, alcune inchieste relative alle manipolazioni degli indici di riferimento su tassi di interesse hanno svelato la condotta manipolativa di alcune primarie banche internazionali; già durante la crisi finanziaria globale, infatti, alcune inchieste giornalistiche, poi confermate dai risultati della ricerca finanziaria, hanno sollevato dubbi circa l’attendibilità delle quotazioni del tasso Libor da parte delle banche componenti del Panel[20].

La possibilità di una manipolazione ad opera dei soggetti coinvolti nella fornitura delle submission era, in effetti, determinata dalla rilevante posizione di conflitto di interessi (ad oggi, ancora sussistente) in capo alle stesse banche segnalanti, che da una parte contribuiscono alla formazione dell’indice ma, dall’altro, impiegano il medesimo indice nelle proprie contrattazioni[21]. Si noti poi, ancora una volta, come la submission da fornire avesse ad oggetto al tempo una stima di valori forniti dai soggetti segnalanti e non la pubblicazione di dati relativi ad operazioni effettivamente svolte (determinando, quindi, ampia discrezionalità in capo ai panellists).

Questi intrinseci elementi di debolezza metodologica hanno, dunque, determinato comportamenti opportunistici da parte di alcuni attori coinvolti, finalizzati ad orientare la determinazione dell’indice in senso favorevole alle proprie operazioni (in particolare con riguardo al proprio portafogli di contratti derivati) o a fornire una rappresentazione più favorevole della propria situazione finanziaria (ciò in quanto il valore delle quotazioni dei prestiti sul mercato interbancario riflette la percezione di rischiosità della controparte: una banca ha, quindi, interesse a dichiarare un valore basso, che equivale ad una ridotta percezione del rischio di credito in capo alla stessa)[22].

Dalle indagini condotte in relazione agli eventi sopra accennati sono derivate sanzioni irrogate dalle autorità di settore. In Europa, particolare rilievo assume la decisione della Commissione europea del 4 dicembre 2013 in tema di manipolazione del tasso Euribor[23] (i cui accertamenti sono stati, peraltro, confermati anche dalla Corte di giustizia[24]), che ha, da un canto, dato avvio ad una fase di profonda riflessione sulla materia da parte dei principali organismi internazionali[25] e, dall’altro, ha condotto in Europa all’emanazione del Regolamento 1011/2016 (UE) sugli indici di riferimento (c.d. Regolamento Benchmark o, in breve, “BMR”) ed alla determinazione di fattispecie di illecito relative alla manipolazione degli indici[26].

Una decisione similare è stata resa dalla Commissione anche nei confronti di altri soggetti riconducibili a tre gruppi bancari Euribor panellist, con argomenti sostanzialmente sovrapponibili, per un periodo rilevante di intesa più ristretto (16 ottobre 2006 e 15 marzo 2007) e, quindi, sostanzialmente assorbito rispetto alla decisione menzionata sopra[27].

Ai fini delle note che seguono, pare utile riassumere gli elementi principali delle decisioni, che possono essere rappresentati come segue:

a) l’oggetto dell’infrazione rilevata è l’indebito scambio di informazioni finalizzato restrizione/distorsione della concorrenza nel settore dei derivati su tassi di interesse collegati al valore Euribor (c.d. EIRD);

b) il mercato di riferimento è, per l’appunto, quello dei derivati c.d. EIRD, in cui le parti dell’intesa collusiva agivano quali controparti contrattuali;

c) i soggetti coinvolti nell’infrazione sono esclusivamente le banche dell’intesa, peraltro, in linea generale, non operanti sul mercato dei prestiti retail in Italia;

d) le condotte rilevanti riguardano alcune attività collusive (scambi di informazioni riservate tra traders, consultazioni, contatti tra membri del trading floor e funzionari delle banche incaricati di determinare e comunicare le quotazioni – submission – relative all’Euribor) avvenute nel periodo di riferimento (31 marzo 2005 – 30 maggio 2008);

e) l’obiettivo dell’intesa era quello di influenzare l’oscillazione dell’Euribor e trarne, quindi, vantaggio nel contesto dell’esecuzione di tali contratti derivati.

La Commissione Europea rileva una violazione dell’articolo 101 TFUE in materia di intese concorrenziali e commina sanzioni alle banche coinvolte.

4. La posizione della giurisprudenza

Nonostante la tempistica piuttosto risalente dei due provvedimenti, l’attenzione del dibattito giuridico in Italia sul tema si è dimostrata contenuta, almeno fino a tempi recentissimi. In verità, si possono rivenire alcuni contributi di dottrina antecedenti al 2023, ed un certo numero di pronunce di merito (tendenzialmente contrarie a dare rilievo alle decisioni della Commissione nei rapporti interbancari domestici) [28]; tuttavia, è innegabile che, a far “detonare” il dibattito – accrescendone, di conseguenza, la mediaticità in maniera esponenziale – sia stata una recente ordinanza della Corte di Cassazione[29] a cui ha fatto poi seguito una ulteriore pronuncia (in obiter) in senso conforme[30].

Traendo ispirazione da alcuni precedenti di legittimità[31], l’ordinanza della Suprema Corte del dicembre 2023 muove dalla constatazione per cui la normativa antitrust sia stata “disegnata” dal Legislatore per «proibire il fatto della distorsione della concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche; il che può anche essere frutto di comportamenti non contrattuali o non negoziali».

Conseguentemente, la disposizione dell’art. 2 della Legge n. 287/1990, in quanto norma disciplinante la nullità delle intese anticoncorrenziali, spiegherebbe una portata applicativa che “abbraccerebbe” non solo l’eventuale negozio giuridico originario che sta alla base della successiva sequenza comportamentale (eventualmente ma non solo) di tipo negoziale, bensì «tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario –, la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza».

Osservando, quindi, la vicenda Euribor sotto questa prospettiva, dunque, la decisione della Commissione UE (su cui si tornerà infra) dovrebbe «considerarsi prova privilegiata […] a supporto della domanda volta alla declaratoria di nullità dei tassi manipolati e alla rideterminazione degli interessi nel periodo coinvolto dalla manipolazione, a prescindere dal fatto che all’intesa illecita avesse o meno partecipato la banca» convenuta in giudizio.

La statuizione di principio è, dunque, chiara: il raggio di applicazione dell’art. 2 della Legge n. 287/1990 investirebbe qualunque contratto o negozio a valle che costituisca applicazione delle intese illecite concluse a monte. E sullo stesso solco si muove la successiva pronuncia della Suprema Corte n. 4001/2024 che, seppur nel contesto di un semplice obiter dictum, ribadisce ciò che costituisce, ormai, un bagaglio conoscitivo sedimentato, vale a dire che «il cosiddetto contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti».

Ebbene, dinnanzi a una statuizione di legittimità così deflagrante, si è assistito, com’era verosimile attendersi, a reazioni in ordine sparso da parte della giurisprudenza di merito. Se è vero, infatti, che non sono mancati orientamenti di talune Corti che hanno seguito, a vario titolo, la scia della Cassazione n. 34889/2023, specialmente nel senso della declaratoria di nullità dei contratti «a valle», in ipotesi applicativi dell’originaria intesa vietata sugli indici Euribor “manipolati”[32], si deve riconoscere, però, che l’opinione maggioritaria della giurisprudenza di merito è tradizionalmente stata (e probabilmente continuerà a essere) di segno opposto, anche a seguito della “scossa tellurica” provocata dalla pronuncia della Cassazione dello scorso dicembre[33]. Tra le varie, si registrano anche pronunce recenti che, in aperto contrasto con la Cassazione, hanno inteso rigettare le domande di parte attrice volte a far dichiarare la nullità e/o l’inapplicabilità del tasso Euribor “manipolato”[34] e, d’altronde, lo stesso provvedimento di richiesta di rimessione alle Sezioni Unite appare piuttosto scettico al riguardo.

5. Un’analisi della questione sotto il profilo del diritto regolatorio

5.1 Il primer della giurisprudenza in materia di fideiussioni omnibus

L’analisi della vicenda ha un suo indubbio rilievo, posto che, volendo continuare a coltivare la metafora “montana”, la discussione circa la nullità delle clausole Euribor si presta ad applicarsi “a valanga” su una pluralità di contratti “a valle”: come visto, infatti, l’impiego dell’indice su tasso di interesse è ubiquo nel mondo economico e gli effetti di una generalizzata applicazione della declaratoria di nullità investirebbero la quasi totalità delle operazioni finanziarie svolte nel periodo coperto dall’intesa (con il limite, ovviamente, della prescrizione delle relative azioni restitutorie). Con riguardo al settore del recupero crediti, la generalizzata adozione della posizione della nullità avrebbe certamente conseguenze dirompenti, posta l’enorme quantità di rapporti strutturati sulla base di un tasso variabile.

Ci si può domandare, però, se sia effettivamente corretto seguire l’impostazione dettata dalla Cassazione nella sua ordinanza, che nella sostanza applica in modo abbastanza pedissequo le conclusioni di una giurisprudenza recente in un settore contiguo, i.e., quello delle clausole anticoncorrenziali in materia di fideiussioni omnibus, su cui, dopo amplissimo dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza[35], si è pervenuti ad una conclusione “a Sezioni Unite”[36]. È a quella esperienza che si deve guardare, se si vogliono comprendere appieno i termini della questione.

La vicenda è nota a tutti e, conseguentemente, se ne ricorderanno solo i tratti essenziali, funzionali all’analisi che qui si propone. L’inserimento di alcune clausole standard nei modelli di fideiussione predisposti dall’ABI è stato sanzionato come lesivo della concorrenza dalla Banca d’Italia (autorità al tempo competente per settore)[37]. Si è posto, quindi, il tema del trattamento delle clausole contenute nei contratti effettivamente sottoscritti dalle banche (che partecipavano tutte all’ABI e riproducevano le clausole nei rispettivi modelli contrattuali), evidentemente da considerarsi quali atti “a valle” rispetto all’intesa sanzionata come illecita.

Dopo un “ventennio” di arresti giurisprudenziali ondivaghi e (talvolta) contraddittori[38], le Sezioni Unite hanno, infine, ritenuto che la tesi più adeguata allo scopo e «che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite»[39], fosse quella relativa alla nullità parziale delle fideiussioni bancarie riproduttive dello schema elaborato dall’ABI.

Ciò non solo muovendo dall’assunto che l’interesse protetto dalla normativa a tutela della concorrenza non fosse unicamente l’interesse “atomistico” del singolo contraente pregiudicato dalla clausola (potenzialmente) illegittima ma quello del mercato in senso oggettivo[40]. Ma anche perché la nullità parziale risulterebbe idonea a salvaguardare il principio generale di “conservazione” del negozio[41].

In altri termini, secondo le Sezioni Unite, i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust parteciperebbero della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte, e verrebbero ad essere “travolti” dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi, ma limitatamente alle clausole che costituiscono pedissequa applicazione degli articoli dello schema ABI.

Le Sezioni Unite hanno, inoltre, motivato l’estensione della nullità dell’intesa restrittiva ai contratti a “valle” facendo leva sul carattere speciale ed ulteriore di tale figura di nullità rispetto a quelle che l’ordinamento già conosceva. Infatti, la nullità disciplinata dall’art. 2, comma 3, della L. n. 287/90 ha una portata più ampia della nullità codicistica e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento in quanto, essendo posta a presidio di un interesse pubblico, dato dall’ordine pubblico economico[42] ed avendo ad oggetto la protezione, in via immediata, dell’interesse generale alla libertà della concorrenza sancito dall’art. 41 Cost., può colpire anche atti o combinazioni di atti avvinti da un “nesso funzionale”, non tutti riconducibili alle tradizionali fattispecie di natura contrattuale[43]. Ne consegue che si intende sanzionare con la nullità un “risultato economico”, come argomenta la Suprema Corte, vale a dire il fatto stesso della distorsione della concorrenza, dando rilievo anche a comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali”[44].

Del resto, la natura di quel mastice che “cementava” l’intesa “a monte” e la fideiussione bancaria “a valle”, vale a dire quel “collegamento funzionale” che rendeva la stipula di questi atti parte di un disegno unitario diretta a violare la normativa antitrust a livello nazionale ed europeo[45], è stata spiegata ricorrendo alla formula della nullità “ad ogni effetto” delle intese vietate, che ricomprenderebbero anche i contratti che danno concreta attuazione all’intesa stessa[46]. Ed è, dunque, tale “nesso funzionale” tra l’intesa “a monte” ed il contratto “a valle” (che, in violazione dell’art. 1322 c.c., riproduce il contenuto del primo atto, dichiarato nullo dall’autorità di vigilanza) a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza sanzionato dall’ordinamento[47] e non già la deroga isolata – nei singoli contratti tra una banca ed un cliente – al modello codicistico della fideiussione.

La Suprema Corte si spinge, persino, ad affermare che le nullità antitrust siano “nullità speciali” che presidiano un interesse pubblico e tutelano l’“ordine pubblico economico”[48]. E, a supporto di ciò, le Sezioni Unite ricordano che l’istituto dell’“ordine pubblico economico” non è nuovo alla giurisprudenza nazionale ed è stato già utilizzato non solo con riferimento alla tutela della correttezza e della trasparenza del mercato, ma anche con riguardo «a fattispecie negoziali poste in essere da un’impresa in stato di conclamato dissesto, aggravato da operazioni dilatorie dirette esclusivamente a ritardare la dichiarazione di fallimento, con grave pregiudizio per altre imprese operanti nel mercato nello stesso settore o in settori contigui»[49].

Da ultimo, sotto il profilo soggettivo, è importante osservare la discesa della nullità dal “monte” alla “valle” travolge anche il profilo soggettivo degli enti i cui rapporti sono destinatari della sanzione della nullità. Il provvedimento sanzionatorio da cui origina la vicenda è infatti diretto ad una associazione di categoria (l’ABI). Ma tutte le banche italiane fanno riferimento all’associazione di categoria, e, quindi, la sanzione della nullità raggiunge tutte tali banche, sul presupposto che si sia rinvenuto il nesso tra l’intesa sopra ed il contratto sotto nel contesto del quale siano state impiegate le clausole concordate in violazione dei divieti di concorrenza.

Ciò non toglie, però, come l’indubbio successo riscosso dalla teoria della nullità dei contratti “a valle” abbia scontato un certo scetticismo da parte dei “puristi” della materia antitrust, soprattutto perché in grado di sollevare un delicato problema di interpretazione (tutt’ora non risolto) della nozione di intesa anti-concorrenziale così come elaborata nell’ambito del diritto dell’Unione[50].

Il primo motivo di perplessità è di ordine testuale, dal momento che, per espressa previsione dell’art. 1, comma 4, L. n. 287/1990 «l’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza». Ne consegue, pertanto, che la nozione di intesa in ambito nazionale non può discostarsi dalla nozione di intesa a livello di Unione. Ebbene, se la tesi di fondo è che il contratto “a valle” rappresenta il momento attuativo dell’accordo collusivo “a monte” – al punto che l’illecito anti-concorrenziale deve essere interpretato alla luce di entrambe le componenti – si finisce inevitabilmente per ricomprendere nella nozione di accordo tra imprese ai sensi dell’art. 101, n. 1, TFUE, anche i contratti “a valle”, per quanto questi ultimi non sempre siano conclusi tra imprese (ma, al contrario, come nel caso delle fideiussioni, da un consumatore finale).

Del resto, se si accedesse all’idea che la nullità dell’accordo anti-concorrenziale “a monte” non possa che espandersi automaticamente anche “a valle”, si finirebbe per disattendere la giurisprudenza costante della Corte di giustizia secondo cui «la nullità di pieno diritto prevista dall’art. [101], par. 2 colpisce tutte [e solo] le disposizioni contrattuali incompatibili con l’art. [101], par. 1»[51].

Ebbene, secondo una pronuncia della Corte di giustizia del 1983 (un precedente risalente ma mai sconfessato), l’art. 101 TFUE, nel dettare la regola della “nullità di pieno diritto” delle intese anti-concorrenziali, non si riferisce ai contratti conclusi dai partecipanti all’intesa con soggetti terzi e ribadisce che la nullità delle intese è assoluta ma è anche limitata a quelle clausole che realizzano una distorsione della concorrenza[52]. Con il corollario che spetterà alle legislazioni degli Stati membri disciplinare le conseguenze della nullità dell’intesa sugli altri elementi dell’accordo.

Questa lapidaria motivazione viene, in parte, integrata e “puntellata” da una successiva decisione della Commissione[53], che, dopo aver ordinato lo scioglimento di un’impresa comune ritenuta restrittiva della concorrenza e sancito la perdurante validità degli accordi dell’impresa comune stipulati con i clienti, osserva che gli effetti restrittivi dell’intesa vietata che questi contratti perpetuano «potranno essere eliminati solo quando i clienti avranno acquisito il diritto di revisione» e «[d]i conseguenza, essi dovranno avere la facoltà di restare legati ai contratti conclusi […], di recedere da tali contratti o di rinegoziarne i termini». Alle parti dell’impresa comune non autorizzata si impone, pertanto, di concedere alle controparti nei contratti “a valle” un diritto di recesso o di rinegoziazione dai contratti di cui si tratta.

Tale decisione della Commissione rovescia quel paradigma di indifferenza del diritto europeo verso la sorte dei contratti “a valle” che era stato inaugurato dalla Corte di giustizia. Ma, al tempo stesso, non sconfessa le ragioni di fondo di quel “disinteresse” perché la Commissione non “imbocca” il sentiero della nullità civilistica dei contratti – che continua ad essere negata in via di principio – ma propone per i contratti in ipotesi “falsati” importanti misure correttive (in termine di recesso o di rinegoziazione)[54]. Ciononostante, la stessa Commissione UE ha espressamente riconosciuto che «non sussiste alcuna base giuridica nel Trattato […] per affermare che la nullità delle intese anticoncorrenziali “a monte” comporta automaticamente una nullità, e per di più una nullità di diritto nazionale, dei contratti, o di talune clausole di questi, stipulati fra le imprese partecipanti all’intesa con i propri clienti in applicazione dell’intesa stessa»[55].

In linea di principio, dunque, dall’esperienza del diritto europeo, due sono i principi da tenere a mente e da utilizzare come una minima base normativa uniforme (fatto salvo il rispetto del principio di proporzionalità e la possibilità per gli ordinamenti nazionali di prevedere sanzioni più incisive sui contratti “a valle”):

a) la sanzione di nullità delle intese, di cui all’art. 101 TFUE, riguarda solo l’intesa principale e non si estende ai contratti “a valle”: la sorte di questi ultimi è rimessa agli ordinamenti degli Stati membri;

b) tuttavia, devono essere previsti (e., gli ordinamenti nazionali devono prevedere) rimedi specifici volti a correggere eventuali effetti restrittivi che vengano perpetuati nei rapporti contrattuali “a valle” dell’intesa anticoncorrenziale.

5.2 Le differenze con il caso “Euribor”

Posti i termini della questione in questo modo, ci si può a questo punto domandare se la posizione della Suprema Corte con riguardo al caso delle clausole Euribor possa ritenersi una mera applicazione “in continuità” di precetti già espressi o se, al contrario, l’applicazione di tali conclusioni al caso di specie non abbia una sua nuova, e rilevante, portata innovativa.

Ciò in quanto, a ben vedere, l’estensione del rimedio della nullità (parziale o totale si vedrà in seguito) comporta una operazione ermeneutica non banale, che è quella di interpretare il senso del contratto “a valle” al dì là di un mercato ed al dì là di uno specifico gruppo di interesse: in sostanza, dunque, considerando qualsiasi effetto dell’intesa anticoncorrenziale come “frutto malato” e, quindi, nullo e cioè inesistente sempre, a prescindere da chi ne fa uso e in quale contesto.

In effetti, nel caso delle fideiussioni “omnibus”, quale che fosse il rimedio da adottare, non si sarebbe potuto mai dubitare (i) che ci fosse un rapporto diretto tra l’intesa a monte (fissare talune clausole a favore dei beneficiari) e i contratti a valle (le fideiussioni che riproducevano il modello concordato; (ii) che ci fosse una identità tra il gruppo di interesse la cui intesa risultava censurata (le banche aderenti all’ABI) ed i soggetti attuatori pratici dell’intesa (i medesimi istituti): in sostanza, cioè, che tra l’intesa a monte ed il contratto a valle sussistesse un certo nesso funzionale. Anzi, a maggior ragione, il provvedimento sanzionatorio, esso stesso “prova privilegiata”, dava evidenza di tali interrelazioni e identità.

L’applicazione di questo schema al caso Euribor, però, postula una ulteriore estensione del campo semantico della locuzione “contratto a valle”, poiché, come già detto sopra, si assiste a una cesura sia a livello oggettivo tra mercato per il quale è accertata l’intesa e mercato dove sono eseguiti i contratti a valle, sia a livello soggettivo tra partecipanti ed esecutori dell’intesa anticoncorrenziale. Si tratta di circostanze di indubbio rilievo, ad oggi non pienamente considerate dalla giurisprudenza, che meritano un opportuno approfondimento per identificare i potenziali limiti all’applicazione del rimedio della nullità.

5.2.1 Sulla diversità dal punto di vista oggettivo

In primo luogo, applicare la sanzione della nullità alle clausole Euribor significa allargare il campo di applicazione delle nullità “a valle” a mercati diversi da quelli direttamente colpiti dall’intesa.

Ciò risulta peraltro chiaro dall’analisi dei provvedimenti della Commissione (i cui tratti salienti sono stati già riportati sopra), per cui:

a) in prima battuta, le decisioni della Commissione sono chiare nell’identificare un mercato di riferimento (i.e., quello dei contratti derivati del mercato EIRD) in relazione al quale è stata attuata l’intesa restrittiva della concorrenza. Le condotte operate dai membri dell’intesa e le finalità dell’intesa sono chiare e, nel testo delle decisioni, inequivocabili, in quanto identificano in modo espresso l’ambito di effetto delle condotte e la ragione (i.e., intervenire sul mercato dei derivati);

b) come già visto, l’intesa si sarebbe dispiegata a livello dei trader (ossia dei dipendenti della banca che si occupavano della negoziazione dei derivati), poi trasfusa nell’invio da parte delle banche partecipanti al cartello delle quotazioni dei tassi per i depositi a termine in Euro sul mercato interbancario che forma la base di calcolo su cui viene quotidianamente definito l’Euribor. E, quindi, il mezzo tecnico impiegato per realizzare l’intesa è dato dallo scambio di comunicazioni online, via telefono ed e-mail tra alcuni funzionari delle banche che si scambiavano preferenze per una determinata quotazione oppure informazioni dettagliate sulle quotazioni future; utilizzavano i predetti dati per allineare le proprie quotazioni nonché le loro posizioni sul mercato; scambiavano informazioni dettagliate e sensibili sul commercio e sulla strategia dei prezzi relativi ai derivati Euro; comunicavano alle altre banche la quotazione appena presentata all’EBF, quando la stessa doveva rimanere segreta.

Insomma, dall’istruttoria della Commissione appare chiaro come l’eventualità di influire sui tassi del mercato retail dei finanziamenti bancari non fosse neppure contemplata ai fini dell’intesa anticoncorrenziale o, meglio ancora, non fosse rilevante ai fini della medesima.

Per chiarezza, seguendo la tesi della nullità si arriva alla conseguenza di dire, in sostanza, che tutte le operazioni finanziarie eseguite sul mercato europeo dal 2005 al 2008 sono nulle (evento di per sé che si direbbe catastrofico, se il Legislatore all’art. 1422 c.c. non avesse fatto salvi gli effetti della prescrizione sull’azione di restituzione).

Ebbene, in tal senso si deve considerare che l’adulterazione dell’Euribor verso l’alto non necessariamente attribuisce un beneficio alle banche, ma anche un detrimento, a seconda del mercato: molto banalmente, tutte le operazioni passive delle banche regolate su tasso Euribor (si pensi ad alcune forme di deposito) sono divenute, nel periodo dell’intesa, più onerose. Sorge quindi la domanda: una banca potrebbe far valere la propria intesa anticoncorrenziale per dedurre la nullità di un rapporto divenuto, per essa stessa, più oneroso? La risposta, chiaramente, è no: sarebbe infatti una conseguenza paradossale. Eppure, è il risultato cui si perviene spingendo alle estreme conseguenze il ragionamento della Cassazione.

Peraltro, tale argomento sarebbe ancora più complesso da affrontare considerando che le decisioni opportunistiche delle banche del cartello non riguardavano necessariamente solo l’aumento del valore Euribor ma anche la sua diminuzione, in base alle esigenze del proprio portafogli di derivati (anche qui si apprezza la scollatura con il diverso mercato dei prestiti dove chiaramente l’interesse può essere solo quello di aumentare i prezzi).

Proseguendo, il riferimento specifico alle questioni inerenti all’indice pone una ulteriore, rilevante, questione, che è quella differenza tra l’adozione di un valore o di un riferimento standard per tutti i partecipanti ad un mercato e la determinazione di comportamenti anticoncorrenziali.

Il settore dei mutui retail a tasso variabile è, peraltro, l’esempio ideale con cui confrontarsi, perché le modalità con cui le banche realizzano l’offerta di prodotti di credito si compone in effetti due elementi: uno è per l’appunto il valore base (Euribor), uguale per tutti, l’altro, su cui si realizza la concorrenza vera e propria, è dato dal valore aggiuntivo che si somma all’Euribor, e cioè il margine. Durante tutto il periodo dell’intesa, l’Euribor è rimasto fermo ed uguale per tutti, anche nella forma “adulterata”, mentre le banche hanno continuato ad esercitare la concorrenza nell’offerta agendo sulla quota indipendente del tasso, cioè il margine; peraltro, quasi in contemporanea al periodo di analisi della Commissione, nel caso in cui è stato rilevato un cartello finalizzato a realizzare l’indebita comprensione della concorrenza, lo stesso ha avuto ad oggetto, nel mercato di riferimento, il prezzo totale del credito, e, come tale, è stato sanzionato.

Infine (ma si tratta di un dato di esperienza noto a chiunque abbia provato ad accedere al credito in Italia) non vi è sostanziale obbligo per gli utenti del mercato di accedere a strumenti a tasso variabile (almeno per quanto riguarda, ad esempio, i contratti di mutuo immobiliare – ma ancora, l’applicazione della tesi della Cassazione comporterebbe la necessità di identificare e valutare qualsiasi mercato esistente).

In definitiva, dunque, il nodo della decisione più oscuro attiene all’individuazione dell’oggetto dell’intesa, che, come detto, riguarda non già la manipolazione dell’Euribor in quanto tale ma, piuttosto, i fattori di incertezza nel posizionamento sul mercato dei prezzi di negoziazione dei derivati su tassi.

Secondo la Commissione, l’obiettivo del (presunto) cartello di banche sarebbe stato quello di ottimizzare il profitto estraibile dai derivati in portafoglio per il tramite della manipolazione del tasso di interessi sul mercato e, in ultima istanza, del valore dell’Euribor. Con il risultato che non si tratterebbe di un’“infrazione unica e continuata”, che presuppone l’esistenza di un “piano d’insieme”[56], ma di una strategia frammentata e disomogenea, che si concentrava in determinate giornate corrispondenti a particolari scadenze, e tendente, di volta in volta, ad abbassare o ad innalzare l’Euribor (a seconda dell’esposizione della banca rispetto al portafoglio complessivo dei derivati)[57].

È di tutta evidenza che se il mercato rilevante dell’intesa censurata dalla Commissione UE riguarda il funzionamento del mercato dei derivati (volto ad ottenere da parte delle banche un vantaggio rispetto alle proprie controparti in tali contratti), sarebbero solo tali contratti – conclusi unicamente dalle banche aderenti al cartello – a posizionarsi “a valle” ma non anche i contratti di finanziamento a tasso variabile, ancorché assumano l’Euribor come parametro per la sua determinazione. In quest’ultimo caso, si tratterebbe di contratti ricompresi in un mercato rilevate – quello dell’erogazione del credito – diverso da quello censurato dalla Commissione e posto a base dell’intesa “a monte”.

Ragionando a contrario, per poter, dunque, ricorrere alla costruzione concettuale dei “contratti attuativi dell’intesa a monte”, la Commissione UE avrebbe dovuto prendere in esame, fin dal principio, per definire i contratti di erogazione di credito a tasso variabile che assumono l’Euribor come parametro per la sua determinazione, un diverso mercato e assumere che l’oggetto dell’intesa originasse dalla manipolazione in sé del procedimento di fissazione dell’Euribor.

In altri termini, sarebbe stato sufficiente guardare eventualmente al contratto “a valle” nella sua autonoma potenzialità anticoncorrenziale e nella sua ripetizione seriale, senza necessariamente far derivare la sua illiceità dall’intesa “a monte” o dalla posizione “centrale” delle banche partecipanti all’intesa nel contribuire alla fissazione degli indici. È, a quel punto, sarebbe stato lecito chiedersi se potesse effettivamente rintracciarsi un’ipotesi dell’illecito anticoncorrenziale tout court nella manipolazione del procedimento di fissazione dell’Euribor. Vale a dire, se sia astrattamente configurabile una fattispecie riconducibile a una fissazione, in questo caso indiretta, di prezzi di acquisto o di vendita, ovvero di altre condizioni contrattuali, come tale censurabile ex art. 101 TFUE o art. 2, comma 2, L. n. 287/1990. O un vero e proprio scambio di informazioni, tradizionalmente considerato alla stregua di “pratiche facilitanti” comportamenti collusivi.

Premesso che si tratterebbe di un price fixing (indiretto), ciò che emerge, nella fattispecie della manipolazione del mercato, è la mancanza di una strategia coordinata tra i diversi partecipanti, attesa la “neutralità” (nel senso di non misurabilità delle ripercussioni sui consumatori, anche eventualmente sottoscrittori di contratti) delle attività consistenti nella rivelazione dei tassi e nella elaborazione dell’Euribor[58].

5.2.2 Sul rilievo soggettivo dell’intesa

Altra questione rilevante attiene al profilo soggettivo della censura, perché mentre nel caso di altre intese bancarie sanzionate e dello stesso caso delle fideiussioni omnibus si può riscontrare quanto meno una identità soggettiva (anche indiretta) tra gruppo soggettivo che promuove l’intesa e soggetti sanzionati, tale elemento è assente nel caso delle clausole Euribor.

In effetti, il dubbio può sorgere in principio, perché la determinazione dell’Euribor è rimessa all’operato delle banche segnalanti, e si può quindi ipotizzare (erroneamente) che vi si possa operare una identificazione tra gruppo di interesse e soggetti coinvolti nell’attuazione dell’intesa, sul modello di quanto già avvenuto nel caso delle fideiussioni.

L’analisi del caso concreto, però, porta a smentire questa affermazione, tanto sulla base di argomenti strutturali relativi al funzionamento dell’Euribor quanto di analisi stessa del mercato oggetto dell’intesa (l’effettivo mercato oggetto dell’intesa, secondo quanto già visto sopra).

In effetti, la disciplina dell’indice di riferimento non ha punti di contatto con l’esperienza delle fideiussioni. Da un punto di vista strutturale, l’elaborazione dell’indice è elaborata da un soggetto (c.d. amministratore) che non ha legami diretti con il settore bancario e non ne risente nella governance; l’effettiva relazione con il mercato bancario è relativa esclusivamente ai soggetti che partecipano alla rilevazione dei valori (c.d. contributors).

Mutuando la nomenclatura propria del regolamento benchmark (chiaramente in senso diacronico), le banche (ma anche le SIM, le SGR, le imprese assicuratrici e più in generale ogni altro soggetto vigilato che impiega l’indice) si qualificano come utenti (user): sono, cioè, semplicemente soggetti che non hanno titolo per influire sulla determinazione dello stesso, sono esclusi dalla governance e recepiscono passivamente la fissazione dell’indice.

Posta questa premessa, ci si può domandare, dunque, come possa una banca divenire parte dell’intesa a sua insaputa; ma, d’altronde, a tale argomento si può aggiungere che, nel caso delle clausole Euribor, neppure può individuarsi una comunità d’intenti ed una posizione condivisa a sostegno dell’intesa.

Il nodo della questione è evidente: il mercato EIRD è un mercato (anche) di banche; l’intesa anticoncorrenziale avvantaggiava le banche panellists nei confronti (anche) di altre banche; la propagazione della nullità ai soggetti non coinvolti direttamente dall’intesa, ha l’effetto paradossale per il quale una banca, in astratto già lesa in proprio dall’intesa anticoncorrenziale, ne subisce ulteriormente gli effetti nella relazione con la propria clientela.

In definitiva, la soluzione della Cassazione perviene al risultato di allocare in modo arbitrario l’onere connesso al risultato dell’intesa: elemento questo che, al di là di pretese esigenza di giustizia commutativa e di tutela del cliente in qualsiasi caso, non trova un substrato normativo su cui poggiarsi perché confonde l’uso dell’indice con la sua imposizione.

5.2.3 Sul tema della prova privilegiata

Le note riportate sopra mettono in discussione anche l’assunto secondo il quale la decisione dell’Autorità antitrust che accerta l’intesa sia prova privilegiata per chi ne è autore, come si desume chiaramente dalla disposizione dell’art. 7, comma 2, del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, attuativo della Direttiva 2014/104/UE che regola le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni del diritto della concorrenza[59].

E ciò anche prescindendo dal ruolo centrale svolto dall’art. 16 del Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, datato 16 dicembre 2002, secondo cui, quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni e pratiche concordate che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione[60].

Come noto, l’impostazione di fondo adottata con la Direttiva 2014/104/UE, prima, e con il D.Lgs. di recepimento n. 3/2017, dopo, è tesa a promuovere dinnanzi al giudice civile le azioni risarcitorie che, nel diritto della concorrenza, si suddividono in azioni stand-alone e follow-on, a seconda che l’iniziativa di parte attrice segua o meno a un accertamento “pubblicistico” dell’illecito anticoncorrenziale da parte di un’autorità garante della concorrenza, che assumerà la valenza di “prova privilegiata” relativamente alla sussistenza del condotta accertata o alla posizione rivestita sul mercato (rimanendo, invece, in capo alla parte attrice l’onere probatorio degli altri necessari presupposti dell’azione).

Ebbene, non si può ignorare che la decisione della Commissione varrà come prova privilegiata non solo limitatamente alle banche coinvolte[61] ma, soprattutto, con esclusivo riferimento alle condotte illecite censurate, che, come ampiamente argomentato, non attengono alla concreta determinazione del tasso Euribor (all’evidenza, punto focale del contenzioso sviluppatosi “a valle”).

Con il risultato che non potrebbe neanche farsi parola di contenzioso “follow-on”, proprio perché diversa è la natura della violazione accertata dall’autorità amministrativa e la sua portata materiale rispetto ai fatti di causa posti a base del successivo contenzioso risarcitorio.

6. Sull’esclusione del rimedio della nullità antitrust (parziale o totale) e la ricerca di un rimedio sostitutivo

Gli elementi rappresentati sopra comportano l’impossibilità di ritenere sussistente una nullità con riguardo alle clausole Euribor: ciò perché i mutui immobiliari (o i leasing, o i contratti di credito ai consumatori) che risentono dall’intesa anticoncorrenziale non sono l’effettivo oggetto della medesima, né tantomeno i soggetti coinvolti possono essere ricondotti al gruppo di interesse che ha perseguito l’intesa sanzionata dalla Commissione.

Se dunque, la nullità antitrust consegue all’intesa restrittiva del mercato, allora l’attivazione del rimedio dovrà arrestarsi a quei rapporti che siano conseguenza diretta dell’accordo limitativo della concorrenza. A poco potrebbe valere l’argomento secondo cui la direttiva 2014/104/UE (comunque qui non applicabile ratione temporis) consente anche ai consumatori finali di attivare un rimedio contro gli effetti dell’intesa, posto che non si può postulare che tutte le violazioni del diritto antitrust cagionino orizzontalmente un danno ai consumatori in termini di aumento dei prezzi praticati a questi ultimi e concordato tra imprese concorrenti o nell’applicazione di prezzi eccessivi stabiliti da un’impresa dominante[62]. Di conseguenza, le clausole che riprendano al loro interno il valore dell’Euribor “manipolato” non possono (e non devono) considerarsi nulle per violazione della normativa antitrust.

Beninteso, questo argomento vale sia nel caso in cui si affermi la fondatezza della tesi della nullità fatta propria dalla Cassazione, sia ove la stessa sia ritenuta infondata, come pure è stato sostenuto da prima della conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite[63]. Ciò in quanto a difettare, nel caso in esame, sono gli stessi requisiti ritenuti caratterizzanti ai fini della connotazione della fattispecie, a meno che non si intenda ipotizzare un generale ed illimitato ricorso alla nullità (verrebbe da dire, si perdoni la battuta… omnibus) anche per casi che nulla hanno a che vedere con la diretta esecuzione di una intesa illecita.

Tale argomento supera, dunque, parte del dibattito occorso in occasione del caso delle fideiussioni omnibus, e cioè se la nullità debba travolgere l’intero atto o soltanto le clausole attuative dell’intesa. Per quanto qui concerne, basterà ricordare che appare insostenibile ritenere che le parti avrebbero comunque sottoscritto il contratto in assenza della clausola di interessi[64]. Ad ogni modo, il dibattito risulterebbe in parte sterile con riguardo alle concrete caratteristiche del contenzioso delle clausole Euribor, che ha generalmente ad oggetto rapporti ormai “maturi”, con contratti ormai scaduti o in relazione ai quali sono stati già esercitati i rimedi contrattuali.

Escludendo dunque il rimedio della nullità antitrust, occorre dunque però scrutinare una soluzione alternativa alla questione per verificare l’esistenza di un possibile mezzo di tutela.

Dell’inapplicabilità ratione temporis del rimedio risarcitorio specifico ex D.lgs. 3/2017 si è già detto in più punti di questo scritto e, quindi, non si insiste oltre.

Sotto altro punto di vista, assodato che la clausola di interessi, di per sé, è valida, ci si può interrogare se si possa considerare nullo l’Euribor in quanto tale. L’ipotesi di fondo, cioè, sarebbe dire che non è la clausola di prezzo del contratto di credito ad essere viziata (la stessa infatti è convenuta fuori dal mercato di riferimento dell’intesa) ma il prodotto dell’intesa (cioè, la rilevazione dell’Euribor).

Questa affermazione, però, sconta un vizio di forma: ci si domanda, cioè, come possa essere nulla, nel nostro ordinamento, una rappresentazione di contenuto dichiarativo e non dispositivo: è nullo il contratto (1418 c.c.) oppure la clausola (1419 c.c.) ma non un’affermazione (come lo è, e si è visto sopra, la pubblicazione del valore dell’Euribor). Quindi affermare la nullità del “tasso” pare arduo.

Diversa prospettiva può essere impiegata, però, se si considera che l’impiego del tasso Euribor nei rapporti di finanziamento costituisce un tipico caso di rideterminazione per relationem dell’oggetto del contratto, per inciso universalmente ritenuta lecita[65].

Astrattamente, quindi si potrebbe ipotizzare l’applicazione delle regole dell’articolo 1349 c.c., che in estrema sintesi si risolvono in una rideterminazione del valore applicabile da parte del giudice. Eppure, anche in questo caso, vi sono argomenti che depongono per l’inapplicabilità della previsione.

In primo luogo, sarebbe da discutere se nel caso in esame possa discorrersi, in senso stretto, di deferimento ad un terzo della determinazione dell’oggetto del contratto, posto che, chiaramente, non vi è alcuna nomina di arbitratore[66]. Quand’anche fosse, tuttavia, si pone una questione ulteriore, che è quella del tipo di arbitraggio condotto per la determinazione del tasso.

Lo schema di determinazione dell’Euribor è già stato riportato sopra e quindi, se del caso, l’arbitratore cui la questione è deferita sarebbe stato l’EBF (predecessore dell’EMMI), in quanto le banche panellists non elaborano l’Euribor ma si limitano a fornire il dato. Sotto questo aspetto, sarebbe impossibile ipotizzare forme di responsabilità in solido tra le parti posto che la relazione tra le stesse è chiara e che, peraltro, in un simile scenario sarebbe impossibile escludere la responsabilità dei panellists non coinvolti nell’intesa (e che, quindi, non hanno alcun ruolo nella manipolazione)[67].

La fornitura dei dati da parte dei panellists è sostanzialmente una determinazione di mero arbitrio, di cui certamente si può sostenere la mala fede: ma come detto, le banche coinvolte sono contributors e non administrators (sempre seguendo la terminologia di settore) e, quindi, non sono tecnicamente arbitratori.

La determinazione dell’Euribor da parte dell’amministratore segue invece regole tecniche predeterminate e si dovrebbe, quindi, ritenere di mero apprezzamento; la determinazione eseguita però, di per sé, non è manifestamente iniqua e, peraltro, non risulta manifestamente erronea nel senso che non vi è né errore metodologico nel calcolo, né errata percezione dei dati da parte dell’amministratore, che semplicemente ha ricevuto le quotazioni delle banche e le ha in buona fede elaborate.

Gli argomenti riportati sopra sembrano sufficienti ad escludere il ricorso alla determinazione del giudice di un tasso sostitutivo che sarebbe peraltro, nei fatti, impossibile da determinare con chiarezza posto che, peraltro, andrebbero identificati con nettezza i giorni di adulterata quotazione (poiché la manipolazione dell’Euribor ha natura episodica) e individuata una metodologia di calcolo alternativa.

Sotto questo punto di vista, non avrebbe senso l’applicazione dell’articolo 117, comma 6 del TUB, che pure da qualcuno è stato considerato norma di carattere “generale” applicabile ai casi di invalidità delle clausole di prezzo nei contratti di credito, poiché, peraltro, la clausola di tasso variabile è composta da due elementi (Euribor + margine) e perché l’Euribor, essendo un tasso IBOR, esprime un elemento di rischio di controparte che è chiaramente differente tra banche e Stati ed andrebbe, quindi, necessariamente interpolato (come oggi accade, per inciso, nelle clausole di sostituzione di tasso – c.d. fallback – applicabili al caso in cui in un contratto si passi da un tasso IBOR ad un tasso c.d. risk free o RFR)[68].

Terminata la rassegna di cui sopra, e sancita l’impossibilità di individuare un rimedio nel contratto, resta comunque il danno arrecato al debitore da parte delle banche dell’intesa, per quanto sostanzialmente difficilissimo da quantificare ma, verosimilmente, di entità più ridotta rispetto alle soluzioni restitutorie preconizzate da chi sostiene la nullità delle clausole. Si è, quindi, nel terreno della responsabilità civile (peraltro, stessa soluzione indivudata dal Legislatore europeo della Direttiva 2014/104), ma senza poter beneficiare dell’agevolazione prevista da questa norma (che come già detto non si applica ratione temporis).

In questo caso, però, l’azione dovrà essere rivolta alle banche dell’intesa (che con la propria condotta hanno causato il danno) e non contro la banca controparte che non ha partecipato all’intesa, e non ha, quindi, commesso l’illecito. Anche in questo caso incombe il tema della prescrizione, che tutto sopisce[69].

Pur non potendo riconoscere agli accertamenti della Commissione un carattere vincolante e lo “status” di prova privilegiata, potranno essere acquisiti e valutati dal giudice alla stregua di una prova atipica (fatta salva, com’è ovvio, la prova della sussitenza del danno e del nesso di causalità – circa la sua quantificazione, permane l’enorme difficoltà di quantificazione indicata sopra dal punto di vista tecnico)[70].

7. Conclusioni

In definitiva, seguendo l’impostazione adottata in questo scritto, le clausole Euribor applicate nel periodo dell’intesa non possono considerarsi nulle.

Poiché le stesse restano valide ed efficaci, la tutela per la parte lesa andrà cercata fuori dal contratto, nella forma di un risarcimento da richiedere agli autori dell’impresa anticoncorrenziale.

Si tratta di un rimedio certamente meno “pratico” per il debitore rispetto ad una declaratoria di nullità, ma allo stesso tempo più rispettoso della lettera e dello spirito della legge e più coerente con una visione sistematica della nullità antitrust.

Nel dibattito sulla clausola Euribor, visto però “dall’alto” si risolve in un apprezzamento circa i limiti e la portata della tesi della nullità ai contratti a valle: tesi che non deve essere necessariamente sconfessata nel caso qui in esame, ma semplicemente non applicabile in virtù delle caratteristiche precipue del fenomeno esaminato, in cui non è possibile rinvenire il nesso funzionale che la stessa regola preconizza come elemento necessario ai fini della valutazione di nullità.

La ricerca di un rimedio comunque applicabile passa, comunque, per la necessaria rimeditazione del principio della vincolatività per i giudici nazionali delle decisioni adottate dalle Autorità antitrust, efficacia già prevista per la Commissione dall’art. 16 del Regolamento (CE) n. 1/2003 e per le Autorità garanti dello Stato membro nel quale opera il giudice del risarcimento, dall’art. 9, par. 1, della Direttiva 2014/104/UE e dall’ultimo periodo dell’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 3/2017.

La regola della vincolatività, se è vero che già da tempo solleva negli ordinamenti di vari Stati membri (sicuramente in quello italiano) delicati problemi di compatibilità con alcuni principi costituzionali fondamentali (come minimo, quello diritto alla difesa sancito dall’art. 24, secondo comma, Cost.), peraltro già rilevati in passato con riferimento alla previsione di cui all’art. 16 del Regolamento (CE) n. 1/2003, denota limiti ancora più evidenti se viene meno, come nel caso di specie, quell’amalgama (apparentemente) inscindibile (e, ciononostante, artificioso) tra intesa programmata “a monte” e contratto “a valle”[71].

È pur vero che non sono coperti dal vincolo né l’accertamento negativo della condotta illecita, né il nesso di causalità tra questa e l’evento dannoso, né la sussistenza del danno e il suo ammontare, per cui il giudice potrà sempre accertare una condotta anticoncorrenziale di portata e/o durata più ampia di quella accertata dall’Autorità garante e/o dalla Commissione, e conseguentemente imputarla ad un numero di soggetti maggiore rispetto a quanto “cristallizzato” da queste ultime. Di modo che, solo relativamente all’accertamento dell’esistenza e dell’ammontare del danno, tali valutazioni potranno al più costituire elementi di prova.

In questo senso, la vicenda della manipolazione dell’Euribor può dare la stura a quella ricalibratura dell’ambito applicativo dell’art. 9, par. 1, della Direttiva 2014/104/UE e dall’ultimo periodo dell’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 3/2017 che sia improntato al principio del coordinamento tra il public e il private enforcement (all’evidenza, piuttosto carente nella vicenda qui analizzata) e che passi necessariamente per un pronunciamento della Corte di Giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.

 

[*]L’opera è ovviamente il frutto del lavoro congiunto degli autori ma, a mero titolo di ripartizione delle attribuzioni, si attribuiscono ad Alfonso Parziale i paragrafi 2, 3, 5.2.1 e 6 ed a Nicola Maria Francesco Faraone i paragrafi 4, 5.1, 5.2.2, 5.2.3.

[1] Cass. (ord.) 13 dicembre 2023, n. 34889, tra i vari in dirittobancario.it. e in labirintodeldiritto.it con nota di V. Carlomagno.

[2] A seguito dell’udienza pubblica del 27 marzo 2024 la Procura generale della Cassazione ha disposto la rimessione alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione relativa agli effetti della manipolazione dell’Euribor sui contratti di finanziamento. Il provvedimento è disponibile, inter alia, in dirittobancario.it.

[3] In arg., vedi più diffusamente infra.

[4] Cfr. Provv. AGCM 24 febbraio 2016, relativo ad all’istruttoria avviata nei confronti di Cassa di Risparmio di Bolzano S.p.A., Banca Popolare dell’Alto Adige S.c.p.A., Cassa Raiffeisen di Brunico Soc. Coop., Cassa Rurale Bolzano Soc. Coop., Cassa Rurale Renon Soc. Coop., Cassa Raiffeisen Valle Isarco Soc. Coop., per accertare l’esistenza di violazioni dell’articolo 2 della legge n. 287/90 o dell’articolo 101 del TFUE in relazione a una possibile intesa nel mercato degli impieghi alle famiglie consumatrici nelle province di Bolzano e Trento.

[5] M. Wundenberg, Regulation of Benchmarks, in European Capital Markets Law, a cura di R. Veil, Oxford, 2022, 646. In arg. v. anche N. Moloney, EU securities and financial markets regulation, 2023, 739 ss.; R. Priem – W. Van Rie, The Euribor and Eonia reform: achieving regulatory compliance while protecting financial stability, in International Journal of Business, Economics and Management, 2021, 8, n. 2, 50 ss.; R. Zakrzewski – G. Fuller, McKnight and Zakrzewski on the law of loan agreements and syndicated lending, Oxford, 2020, 61 ss.. In linea di massima, si possono rinvenire (almeno) quattro principali funzioni di un benchmark: (i) indice di riferimento, con il quale le parti individuano i rispettivi obblighi di pagamento nel contratto (ii) parametro per valutare l’investimento, utilizzando un indice per valutare la performance di un investimento (e.g., nel risparmio gestito o ancora con riguardo ai benchmark rilevanti a fini ESG); (iii) funzione informativa con riguardo al mercato di riferimento (e.g., ad oggi le fluttuazioni dell’Euribor riflettono le politiche monetarie delle banche centrali e, quindi, di rimando, le condizioni del mercato in particolare con riguardo alle aspettative di inflazione); (iv) in alcuni casi specifici, hanno anche una funzione regolatoria quando il richiamo agli indici viene introiettato nella legislazione nazionale. In arg. cfr. Wundenberg, cit., 650, in particolare con due esempi interessanti dell’ultima casistica: in Svizzera, per un certo periodo, la Banca nazionale attuava la propria politica economica fissando un obiettivo basato sul Libor franco svizzero: in Germania, il paragrafo 675g(3) del BGB consente ai prestatori di servizi di pagamento a modificare gli interessi sugli scoperti di conto senza dover informare il debitore in via preventiva solo ove la modifica sia basata su indici relativi a tassi di interesse.

[6] L’origine del Libor è da rinvenirsi con l’occasione di un prestito concesso da alcune banche occidentali all’Iran. Occorreva elaborare un indicatore del tasso di interesse che riassumesse le diverse quotazioni fornite dai diversi istituti finanziari e si avvertì quindi la necessità di individuare un valore sintetico unitario. Cfr. N. Brutti, La manipolazione degli indici finanziari: un illecito in cerca di identità, in Nuova giur. civ., 5, 2013, 303.

[7] Per eurovaluta (eurocurrency) si intende il caso di una valuta depositata e scambiata al di fuori del Paese in cui ha corso legale (non c’è collegamento con la valuta euro ed anzi il termine è – di molto – più risalente).

[8] Tra le varie: euro, sterlina inglese, dollaro statunitense, yen giapponese, franco svizzero. L’indicatore Libor era calcolato per cinque diverse valute e per periodi temporali che vanno da overnight a 12 mesi, sulla base delle indicazioni fornite dal panel di banche selezionato, che andava da 11 a 17 istituti a seconda della valuta, ed escludendo ai fini del calcolo alcuni valori massimi e minimi. Cfr. IOSCO, Second Review of the Implementation of IOSCO’s Principles for Financial Benchmarks by Administrators of EURIBOR, LIBOR and TIBOR, in www.iosco.org., 26.

[9] In origine, il valore del Libor indicava, per ciascun finanziatore, il prezzo che sarebbe stato disponibile a corrispondere a fronte dell’ottenimento sul mercato interbancario di un mutuo di valore corrispondente (cioè, indicava l’effettivo costo della provvista per ciascun finanziamento). Successivamente, a partire dal 1986 la British Bankers’ Association avviò la pubblicazione del primo tasso Libor ufficiale (c.d. screen rate), calcolato come una stima fornita da ciascuna banca circa il potenziale costo del credito. In particolare, ciascuna banca appartenente al panel dei contribuenti era tenuta a rispondere alla domanda “At which rate could you borrow funds, were you to do so by asking for and then accepting inter-bank offers in a reasonable market size just prior to 11 a.m.?”. Cfr. M. Wundenberg, cit., 646. La fissazione del valore pubblicato si risolveva nell’applicazione di una formula matematica, volta ad individuare una media dei valori teoricamente attesi dalle banche (dunque, senza fare riferimento ad operazioni effettivamente svolte). In pratica, il Libor era calcolato come la “media aritmetica troncata” (trimmed arithmetic mean) di tutti i dati forniti dalle banche del panel; i.e., eliminando il 25% più alto e quello più basso dei dati forniti e calcolando il resto come media.

[10] Le pubblicazioni sono state infatti avviate il 30 dicembre 1998 (i.e., prima dell’introduzione della valuta euro e significativamente prima dell’introduzione della valuta cartacea circolante).

[11] Più correttamente, ogni giorno in cui è attivo il sistema di regolamento dei pagamenti T2 (che ha sostituito il precedente TransEuropean Automated RealTime GrossSettlement Express Transfer (TARGET2)).

[12] L’EMMI è un ente non-profit regolato dal diritto belga, che ricomprende al suo interno le associazioni bancarie degli Stati membri dell’Eurozona. L’ente è dotato di un’assemblea generale responsabile della scelta delle politiche che governano la gestione dell’Euribor, e di un comitato di supervisione controlla le operazioni, con particolare riferimento alle operazioni dell’agente di calcolo e l’osservanza del codice di condotta da parte dei soggetti interessati. Vi è, inoltre, un apposito comitato deputato della sorveglianza e gestione dei conflitti di interesse. EMMI è responsabile delle operazioni dal giugno 2014.

[13] Cfr. Euribor Code of Conduct, in www.emmi-benchmark.com, nonché il Code of obligations for the panel banks, ibidem.

[14] A seguito degli scandali, l’European Money Markets Institute ha condotto una profonda riforma – a livello di governance e di metodologia – per soddisfare i requisiti imposti dalla nuova legislazione eurounitaria (v. infra). La determinazione dell’Euribor è passata da una metodologia basata sulle quotazioni a una basata sulle transazioni (c.d. ibrida). Per una panoramica cfr. D. Della Gatta, Quale futuro per i benchmark del mercato monetario in euro? in Mercati, infrastrutture, sistemi di pagamento, 17 febbraio 2022, in bancaditalia.it.

[15] Più nello specifico, l’impiego di questi indicatori è di larga diffusione nelle operazioni creditizie, tra cui finanziamenti, prodotti strutturati, strumenti del mercato monetario, e prodotti fixed income; nel settore dei derivati, si applica a strumenti come swaps, options e forwards, principalmente nella forma di derivati OTC. Secondo statistiche della Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), più del 50% di tutti i prestiti sindacati (cioè in pool) sottoscritti nel 2011, nonché una parte significativa dei prestiti obbligazionari emessi a livello mondiale – pari a circa 10 miliardi di dollari – facevano impiego del riferimento ai tassi Euribor o Libor, senza considerare le operazioni finanziarie del mercato retail ed i derivati. Cfr. BIS, Towards better reference rate practices: a central bank perspective – A report by a Working Group established by the BIS Economic Consultative Committee (ECC) and chaired by Hiroshi Nakaso, Assistant Governor, Bank of Japan, marzo 2013, in www.bis.org. L’impiego di questi indici, però, non si limita strettamente al settore finanziario: Cfr. FSB, Reforming, cit., 9: “While mainly used in financial instruments, IBOR reference rates are embedded in the global financial system through other applications. A partial list of the ways that reference rates are used, beyond pricing, includes: Valuation purposes: as discount rates for pension liabilities and some financial instruments; Accounting: fair value calculations for discounting provisions, impairments and financial leases; Performance benchmarks for asset managers; Project finance and trade finance; Taxes; Late payment clauses in commercial contracts. price escalation and adjustment clauses; and Regulatory cost of capital calculations: Discount rate for property valuations, Capital Asset Pricing Model (CAPM) to calculate regulatory cost of capital”.

[16] Incidentalmente, è interessante notare che anche i prodotti bancari a tasso fisso impiegano, per la determinazione della loro remunerazione, il riferimento ad un parametro finanziario ancorato ai derivati di credito (per i prodotti in Euro, il tasso EURIRS).

[17] Si richiami, ex multis, il discorso di B. Couré, Reforming financial sector benchmarks, discorso al meeting annuale del Money Market Contact Group, Francoforte sul Meno, 27 settembre 2016, reperibile in www.eib.org. Solo per dare una idea dei volumi di scambi coinvolti, si consideri questo estratto da FSB, Reforming, cit., 9: “As indicated in the estimates shown in Table 1, LIBOR is the most referenced benchmark in USD, GBP and CHF. EURIBOR is the dominant rate in EUR products. JPY LIBOR and TIBOR are the most referenced in JPY. The total notional outstanding amounts for LIBOR are estimated by the MPG at around $220 trillion. For EURIBOR the outstanding amount is around $150–180 trillion and TIBOR the figure is about $5 trillion”.

[18] Non si tratta di un caso isolato; sino alla crisi del 2008, ad esempio, non erano oggetto di regolazione le agenzie di rating (poi oggetto del Regolamento (CE) 1060/2009 e successive modifiche), e tutt’ora non hanno una regolamentazione completa i c.d. proxy advisors, oggi solo marginalmente oggetto di alcune previsioni della direttiva Shareholders Rights II (Direttiva (EU) 2017/828).

[19] In argomento, dal punto di vista giuridico e, soprattutto, con riferimento ad una possibile ricostruzione dal punto di vista dell’illecito di questo fenomeno, cfr. N. Brutti, op.cit., 302.

[20] In tal senso, è stato riscontrato che il differenziale (spread) tra il Libor e il TED (ovvero il tasso dei buoni del tesoro a tre mesi negli Stati Uniti) ha iniziato a divergere; in parallelo, mentre i tassi dei credit default swap (i.e., i derivati che rimborsano un dato importo in caso di default dell’istituzione sottostante) di alcune banche sono aumentati, evidenziando un maggiore rischio di credito, tale aumento di rischiosità non si è riflesso nelle loro quotazioni LIBOR. Infine, con l’inizio delle turbolenze del mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, i valori del Libor e dell’Euribor, che storicamente tendevano ad oscillare nella stessa direzione, hanno iniziato a divergere, con una diminuzione del Libor e un aumento dell’Euribor. Tali fenomeni sono stati considerati indicatori di una adulterazione dell’Euribor, poi confermata dall’analisi economica. Cfr al riguardo R. Priem – W. Van Rie, cit., 51; e C.A. Snider – T. Youle, Does the Libor reflect banks borrowing costs?, SSRN Working Paper, 2010, in www.ssrn.com.

[21] Cfr. ad esempio l’analisi di N. Moloney, cit., 739 ss.; M. Wundenberg, cit., 647. V. anche A. Verstein, Benchmark manipulation, in Boston College Law Review, vol. 56, 2015, 215; G.G.S. Fletcher, Benchmark Regulation, (2017). Articles by Maurer Faculty. 2635.

[22] In un esempio riportato anche da M. Wundenberg, loc. ult. cit., è relativo alle condotte sanzionate della banca Barclays da parte del regolatore inglese (all’epoca la FSA, cfr. FSA, Final Notice, 27 giugno 2012, in fca.org.uk). La decisione poggia essenzialmente sull’accertamento di due condotte: da un lato, Barclays ha presentato delle submission adulterate a seguito di richieste formulate da parte di operatori del trading floor dei derivati della banca, dunque con l’obiettivo di trarre vantaggio nelle operazioni di derivati su tassi di interessi in base alla variazione del Libor; dall’altro, Barclays avrebbe presentato delle submission errate per difetto (cioè più basse) durante la crisi finanziaria del 2008, con l’obiettivo di rappresentare una propria posizione più favorevole ed evitare una copertura mediatica negativa. Sulla base di queste constatazioni, la FSA ha comminato una sanzione di 59,6 milioni di sterline (ridotta alla luce della cooperazione fornita da Barclays durante le verifiche condotte dall’autorità di vigilanza).

[23] Cfr. Decisione della Commissione del 4 dicembre 2013 relativa a un procedimento a norma dell’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dell’articolo 53 dell’accordo SEE (Caso AT.39914 – Derivati sui tassi di interesse in euro) [notificata con il numero C(2013) 8512] (2017/C 206/07), che ha portato all’applicazione di sanzioni verso Deutsche Bank, Société Générale e Royal Bank of Scotland per importo complessivo superiore al miliardo di euro.

[24] Si veda Corte di giustizia, sentenza 12 gennaio 2023, caso C‑883/19 P, che pur parzialmente annullando la decisione del Tribunale di prima istanza (sentenza 24 settembre 2019, caso T-105/17), nel procedere all’esame nel merito delle censure sottese ai motivi di appello accolti, ha confermato le conclusioni raggiunte dalla Commissione.

[25] Si prenda come riferimento l’opera condotta a livello internazionale dallo IOSCO (International Organization Of Securities Commissions) che ha portato al report IOSCO, IOSCO Principles for Financial Benchmarks, luglio 2013, in www.iosco.org ed il successivo IOSCO, Review of the Implementation of IOSCO’s Principles for Financial Benchmarks by Administrators of Euribor, Libor and Tibor, luglio 2014, in www.iosco.org e la successiva IOSCO, Second Review of the Implementation of IOSCO’s Principles for Financial Benchmarks by Administrators of EURIBOR, LIBOR and TIBOR, in www.iosco.org; Financial Stability Board, Reforming major interest rates benchmarks, 22 luglio 2014, in www.fsb.org. Nel Regno Unito, va certamente richiamato il c.d. Wheatley Review del settembre 2012, su incarico del governo inglese, disponibile su www.gov.uk; nell’Unione Europea, prima dell’intervento regolatorio, va segnalato il documento congiunto ESMA/EBA, Principles for Benchmarks-Setting Process in the EU, Final Report, 6 giugno 2013, ESMA/2013/658.

[26] La vicenda, di per sé, non è direttamente conferente con l’oggetto di quest’opera ma se ne accennano alcune linee direttrici fondamentali, per completezza. Dal punto di vista del diritto unionale, le due principali direttrici riguardano: da un lato, la disciplina dell’abuso di mercato, riformata nel 2014, che disciplina le conseguenze della manipolazione di benchmark per il tramite alcune norme contenute nel regolamento MAR e nella direttiva crim-MAD; dall’altro l’emanazione dell’apposito Regolamento Benchmark (in acronimo BMR rispetto alla denominazione in lingua inglese) e relativa normazione delegata in ossequio alla procedura Lamfalussy che governa oggi la materia cfr. Regolamento 2016/1011/UE, entrato in vigore il 30 giugno 2016. Il Regolamento Benchmark interviene, invece, sul versante del c.d. diritto regolatorio, disciplinando l’infrastruttura responsabile per la determinazione degli indici impiegati nei contratti finanziari e di investimento o per misurare la performance degli organismi di investimento collettivo, con l’obiettivo di migliorare la protezione degli investitori e ridurre il rischio sistemico. In arg. v., M. Wundenberg, cit., 646; Moloney, EU securities, 739 ss.; R. Priem – W. Van Rie, cit., 50 ss.; R. Zakrzewski – G. Fuller, cit., 61 ss.

[27] Cfr. Decisione della Commissione del 7 dicembre 2016 relativa a un procedimento ai sensi dell’articolo 101 del TFUE e dell’articolo 53 dell’accordo SEE (Caso AT.39914 — Derivati sui tassi di interesse in euro) [notificata con il numero C(2016) 8530] (2019/C 130/05).

[28] In dottrina, si richiamano i risalenti N. Brutti, La manipolazione, cit., 302; A. Di Biase, Il problema della legittimità dei mutui a tasso variabile Euribor: tra illecito antitrust e indeterminatezza dell’oggetto del contratto, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2013, 1; G. Calabrese, Effetti della manipolazione dell’Euribor sul mutuo bancario a tasso variabile, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 3, 316. La giurisprudenza ante-Cassazione va un po’ in ordine sparso ma tendenzialmente negando la nullità dei contratti. Cfr. Trib. Milano 27 settembre 2017: Trib. Catania 11 luglio 2018; Trib. Pescara 28 marzo 2019; Trib. Chieti 4 settembre 2019; Trib. Forlì 30 ottobre 2019; Trib. Roma 7 maggio 2020; Trib. Roma 13 ottobre 2020; Trib. Catania 14 ottobre 2020; Trib. Perugia 2 ottobre 2020; App. Cagliari 8 settembre 2022 (accoglie la doglianza) peraltro tutte disponibili in dirittobancario.it.

[29] Resa in data 13 dicembre 2023, n. 34889 (v. supra). Per una prima serie di commenti “a caldo”, si rinvia a G. Guizzi, Manipolazione dell’Euribor e nullità contratti di finanziamento a tasso variabile: “ci risiamo”!, in Riv. dir. banc., fasc. 1, 2024, 29 ss.; A. Gentili, Sulla tutela del cliente nel ‘contratto a valle’ (il caso Euribor), ivi, 19 ss.; A.A. Dolmetta, Euribor manipolato e contratti «a valle». Questioni, ivi, 1 ss.

[30] Cfr. Cass. 13 febbraio 2024, n. 4001 in dirittodelrisparmio.it.

[31] Cfr. i precedenti scaturenti dalle pronunce di Cass. 1 febbraio 1999, n. 827, di Cass. 4 febbraio 2005, n. 2207 e di Cass. 12 dicembre 2017, n. 29810, in dejure.it.

[32] Cfr. App. Trieste (ord.) 24 gennaio 2024, in dirittobancario.it.

[33] Senza considerare che, alla data in cui viene redatto questo contributo, la Procura generale della Cassazione, all’esito dell’udienza pubblica tenutasi il 27 marzo 2024, ha proposto la questione al Presidente della Prima sezione della Suprema Corte per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della vicenda riguardante gli effetti della manipolazione dell’Euribor, corredata da una ricca e dotta ricostruzione dei vari motivi di perplessità (v. anche supra).

[34] A tal proposito, il riferimento è a una recente sentenza del Tribunale di Torino datata 29 gennaio 2024 (est. Astuni) il cui testo è disponibile su dirittodelrisparmio.it. V. anche App. L’Aquila, 13 febbraio 2024 e Trib. Livorno 29 gennaio 2024 e ancora Trib. Milano 21 febbraio 2024, tutte in dejure.it. In segno contrario si veda, invece, App. Sassari 18 gennaio 2024, in dejure.it.

[35] Dibattito estesissimo e praticamente impossibile da riassumere. Si vedano, tra i tanti A. Palmieri-R. Pardolesi, L’antitrust per il benessere (e il risarcimento del danno) del consumatore, in Giur. it., 2005, 302, e in Dir. ind., 2005, 188; Id., L’antitrust dalla parte del consumatore, in Foro it., 2005, I, 1014 ss; C. Castronovo, Sezioni più unite che antitrust, in Europa dir. priv., 2005, 435 ss.; S. Simone, Intese anticoncorrenziali e tutela del consumatore, in Giur.it., 2005, 1675; G. Canale, I consumatori e la tutela antitrust, in Danno resp., 2005, 956; M. Negri, Il lento cammino della tutela civile antitrust: luci ed ombre di un atteso grand arret, in Corr. giur., 2005, 342; B. Libonati, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione, in Giur. it., 2000, 939 ss.; G. Afferni, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale?, ivi, 2000, 939 ss.; L. Delli Priscoli, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, in Giur. comm., 1999, II, 223 ss.; F. Denozza, I principi di effettività, proporzionalità ed efficacia dissuasiva nella disciplina dei contratti a valle di intese ed abusi, in Riv. dir. ind., 2019, 354 ss.; Id., Incongruenze, paradossi e molti vizi della tesi del “solo risarcimento” per le vittime di intese ed abusi, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 412-414; A. Gentili, La nullità dei ‘contratti a valle’ come pratica concordata anticoncorrenziale. (Il caso delle fideiussioni ABI), in Giust. civ., 2019, 675.; E. Camilleri, Validità della fideiussione omnibus conforme a schema-tipo dell’ABI e invocabilità della sola tutela riparatoria in chiave correttiva, in Nuova giur. civ. comm., 2020, II, 397 ss.; M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2020, II, 378 ss.; G. Stella, Fideiussioni predisposte su modello uniforme ABI dichiarato parzialmente nullo dall’Autorità Garante della Concorrenza: quali rimedi a favore del fideiussore?, in Contr., 2020, 385 ss.; M.R. Maugeri, Breve nota su contratti a valle e rimedi, in Nuova giur. civ. comm., 2020, 415 ss.; G. Guizzi, I contratti a valle delle intese restrittive della concorrenza: qualche riflessione vingt ans après, aspettando le Sezioni Unite, in Corr. giur., 2021, 1173 ss.; A. Gentili, La nullità dei “contratti a valle” come pratica concordata anticoncorrenziale (il caso delle fideiussioni ABI), in Giust. civ., 2019, 698 ss. Tra i lavori monografici merita segnalare anche M. Onorato, Nullità dei contratti nell’intesa competitiva, Milano, 2012; F. Longobucco, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione a valle, Napoli, 2009.

[36] Cfr. Cass. sez. un. 30 dicembre 2021, n. 41994, in Foro it., 2022, I, 499 ss., con nota di A. Palmieri-R. Pardolesi, Le sezioni unite e la sorte dei contratti attuativi di intesa restrittiva della concorrenza: schegge di diritto disorientato; S. Pagliantini, Fideiussioni «omnibus» attuative di un’intesa anticoncorrenziale: le sezioni unite, la nullità parziale e il «filo» di Musil; A. Montanari, Nullità dei contratti attuativi dell’intesa illecita e «prova privilegiata»: qualche appunto alle Sezioni unite n. 41994/2021; C. Romano, Quale destino per le fideiussioni «omnibus» a valle di intese anticoncorrenziali?; G. D’Amico, Modelli contrattuali dell’Abi e nullità dei contratti c.d. a valle; S. Bastianon, Fideiussioni Abi e sezioni unite 41994/21: “the dark side of the moon”. Si veda, inoltre, M. Santucci, Fideiussioni bancarie anticoncorrenziali: lo statuto della nullità antitrust tracciato dalle Sezioni unite, in Giur. it., 2022, 1832 ss.; M.S. Maisano, La sofferta dialettica tra contratto e diritto antitrust nella prospettiva del c.d. private enforcement, in Nuova giur. civ. comm., 2022, 309 ss.; E. del Prato, Illecito e rifiuto di esecuzione di clausole contrattuali: un altro rimedio in forma specifica contro l’abuso di autonomia?, in Nuova giur. civ. comm., 2022, 665 ss.; A. Montanari, Sulla tutela privata antitrust dopo le Sezioni unite n. 41994/2021, ivi, 682 ss.; C. Scognamiglio, I contratti di fideiussione a valle di intese in violazione della disciplina antitrust: il problema dei rimedi, ivi, 694 ss.; M. Libertini, I contratti attuativi di intese restrittive della concorrenza: un commento a Cassazione civile, sezioni unite, 30 dicembre 2021, n. 41994, in ODC, 2022, 13 ss.; A.A. Dolmetta, Fideiussioni bancarie e normativa antitrust: l’«urgenza della tutela reale; la «qualità» della tutela reale, in Riv. dir. banc., 2022, 1 ss.; E. Minervini, Fideiussione omnibus ed intesa antitrust: la sentenza delle sezioni unite n. 41994 del 2021, in Pers. merc., 2023, 65 ss.; E. Panzarini, Ancora sulla nullità parziale delle fideiussioni omnibus redatte in conformità allo schema ABI 2003: questioni rimaste irrisolte, in Banca, borsa, tit. cred., 1, 2023, 53 ss.

[37] Cfr. Provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 ABI – Condizioni generali di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie, disponibile in www.bancaditalia.it, con il quale Banca d’Italia – in funzione di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi – ha censurato i rischi di un’applicazione in modo uniforme della modulistica ABI sui contratti di fideiussione contenenti previsioni – in particolare, gli articoli 2, 6 e 8 del modello ABI del 2003. Gli schemi contrattuali predisposti dall’ABI erano denominati originariamente “Norme uniformi bancarie” (cosiddette NUB), successivamente sono stati denominati “Condizioni generali relative al rapporto banca cliente”, al fine di rimarcarne la loro non vincolatività. Dalla validità di tali clausole dipendeva l’escutibilità di garanzie prestate anche in tempi risalenti da parte dei creditori, generalmente cessionari di crediti deteriorati nell’ambito delle recenti operazioni di dismissioni di attivi critici bancari.

[38] Prima della decisione della Cassazione nel massimo consesso era, infatti, possibile individuare una pluralità di tesi in senso favorevole (cfr. Cass., 22 maggio 2013, n. 12551) e sfavorevole (Cass., 11 giugno 2003, n. 9384) ad ammettere un collegamento tra intesa restrittiva “a monte” e contratti “a valle”, peraltro accompagnandosi all’ulteriore questione circa la legittimazione attiva dei consumatori finali con riguardo allo strumento risarcitorio di cui all’art. 33 della L. n. 287/1990. In senso favorevole, si veda Cass., 22 maggio 2013, n. 12551, per la quale «il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell’intesa anti-competitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante» mentre, in senso negativo, si rimanda, inter alia, a Cass., 11 giugno 2003, n. 9384, secondo cui «dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dall’Autorità antitrust ai sensi dell’art. 2, L. n. 287/1990, non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa, i quali mantengono la loro validità». Circa la possibilità di considerare il consumatore legittimato ad agire in giudizio al fine di far valere la violazione delle norme antitrust, si veda Cass., 4 marzo 1999, n. 1811 e Cass., 9 dicembre 2002 n. 17475. Ciò posto, fondamentale apertura sul punto si è avuta solo con l’intervento della sentenza della Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207, che ha riconosciuto (in senso contrario rispetto al precedente orientamento espresso da Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475) come la legge antitrust abbia come destinatari non solo gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia un interesse alla conservazione della competitività dello stesso, tale da poter addurre uno specifico pregiudizio derivante della diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata. Conseguentemente, è stato riconosciuto anche il diritto dei consumatori a richiedere il risarcimento del danno subito a causa di un’intesa restrittiva della concorrenza ex art. 33 della L. n. 287/1990. In quell’occasione, la Suprema Corte ha anche chiarito che il contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa ed è funzionale a realizzare gli effetti della stessa, di modo che il consumatore sia legittimato a farne valere la nullità. La soluzione demolitoria, in realtà, era già stata prospettata dalla Corte di Cassazione con sentenza 1 febbraio 1999, n. 287. Osservano, a tal riguardo, le Sezioni Unite che, nella medesima prospettiva della nullità totale della fideiussione “a valle”, si pone anche Cass., 10 marzo 2021, n. 6523 nella parte in cui, affrontando la questione relativa alla competenza della sezione specializzata per le imprese, ha affermato che la stessa «attrae anche la controversia riguardante la nullità della fideiussione riproduttiva dello schema contrattuale predisposto dall’ABI, contenente disposizioni contrastanti con l’art. 2, comma 2, lett. a), della legge n. 287 del 1990, in quanto l’azione diretta a dichiarare l’invalidità del contratto a valle implica l’accertamento della nullità dell’intesa vietata». In questo solco si situa la pronuncia resa dalla Corte di Cassazione 12 dicembre 2017, n. 29810, ove è stata ribadita la nullità totale delle fideiussioni riproduttive del già citato modello ABI. Ciò in quanto queste ultime costituirebbero attuazione di un’intesa restrittiva della concorrenza la cui illiceità è già stata accertata dall’Autorità competente. La soluzione demolitoria, ad avviso della Corte, non esclude, tuttavia, la possibilità di esperire il rimedio risarcitorio. Il riferimento va, inoltre, alle pronunce rese dalla suprema Corte di Cassazione 2 febbraio del 2007, n. 2305 e alla 20 giugno 2001, n. 8887, quest’ultima a Sezioni Unite. Anche in questa sede, la Corte si è dimostrata favorevole in linea di principio a ravvisare una ricaduta diretta dell’illiceità della intesa sulla validità dei contratti individuali “attuativi” del programma concordato in nome di una considerazione unitaria dell’intesa e dei contratti a valle. In senso conforme, si sono espresse, ex multis, Cass., 27 ottobre 2005, n. 20919; Cass., 19 maggio 2006, n. 11759; Cass., 10 marzo 2008, n. 6297.

[39] V. Sezioni Unite, par. 2.15.

[40] Sul punto, le Sezioni Unite osservano che «che l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto. Ed invero […] l’obbligo del risarcimento compensativo dei danni del singolo contraente non ha una efficacia dissuasiva significativa per le imprese che hanno aderito all’intesa, o che ne hanno – come nella specie – recepito le clausole illecite nello schema negoziale, dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio, e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno» (v. par. 2.13.1).

[41] Secondo le Sezioni Unite, «la regola dell’art. 1419 c.c., comma 1 – ignota al codice del 1865, come pure al Code Civil, provenendo dall’esperienza tedesca – insieme agli analoghi principi rinvenibili negli artt. 1420 e 1424 c.c., enuncia il concetto di nullità parziale ed esprime il generale favore dell’ordinamento per la “conservazione”, in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale. Da ciò si fa derivare il carattere eccezionale dell’estensione della nullità che colpisce la parte o la clausola all’intero contratto, con la conseguenza che è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto» (v. par. 2.15.1).

[42] Ad avviso delle Sezioni Unite, «[i]n tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 c.c.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la “nullità di protezione” nei contratti del consumatore (cd. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (cd. terzo contratto) – in quanto colpisce anche atti, o combinazioni di atti avvinti da un “nesso funzionale”, non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale. La ratio di tale speciale regime […] è da ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’“ordine pubblico economico”, a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed europee antitrust» (v. par. 2.17).

[43] Secondo le Sezioni Unite, «[i]n tale prospettiva, si rende perciò rilevante qualsiasi forma di condotta di mercato, anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale, ed anche laddove il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò consegue […] che, allorché la L. n. 287 del 1990, art. 2, stabilisce la nullità delle “intese”, “non ha inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza” (Cass., n. 827/1999)» (v. par. 2.16.1).

[44] V. Sezioni Unite, par. 2.16.1.

[45] Secondo le Sezioni Unite, ciò equivale a dire che «anche la combinazione di più atti, sia pure di natura diversa, può dare luogo, in tutto o in parte, ad una violazione della normativa antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un “collegamento funzionale” – non certo un “collegamento negoziale”, come opina parte della dottrina, attesa la vista possibilità che l’“intesa” a monte possa essere posta in essere, come nella specie, anche mediante atti che non rivestono siffatta natura – tale da concretare un meccanismo di violazione della normativa nazionale ed euro unitaria antitrust. In altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e contratto a valle sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti “funzionale” a produrre un effetto anticoncorrenziale» (v. par. 2.16.1).

[46] La nullità “ad ogni effetto” è stata testualmente trasfusa nell’art. 2, comma 3, L. n. 287/1990. In tal senso, v. Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207, con nota di M. Libertini, Le azioni civili dei consumatori contro gli illeciti antitrust, in Corr. giur., 2005, 109 ss.

[47] E, come sottolineato efficacemente dalle Sezioni Unite, al par. 2.16.3, ciò è tanto più evidente quando la reiterazione seriale in più contratti dello schema adottato a monte conduce a un potenziale abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili sul mercato, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato nel suo complesso.

[48] Al par. 2.17, le Sezioni Unite ricordano che si tratta di «nullità ulteriore rispetto a quello che il sistema già conosceva», richiamando, sul punto, la sentenza della Cass., sez. I, 1 febbraio 1999, n. 827, secondo cui, perché si concretizzi una condotta anticoncorrenziale, «[n]on basta la considerazione parcellizzata di un comportamento di mercato. Occorre che esso abbia per oggetto o per effetto l’alterazione consistente del gioco della concorrenza. Anche il solo orientamento della intesa ad un tale effetto può giustificare l’intervento sanzionatorio e la declaratoria di nullità dell’intesa, dunque non occorre che esso si sia realizzato. Ma la distorsione, reale o potenziale, per essere individuata, impone se ne accerti in modo rigoroso il riflesso sul mercato nazionale o su di una parte rilevante, come la legge stabilisce […]. Diversamente, essa non fuoriesce da ambiti di protezione di natura individuale di fonte codicistica». E, quindi, «la circostanza che un accordo tra imprese non abbia presupposto coercizione e non comporti effetti vincolanti nel senso che si attribuisce ai contratti quali fonti di obbligazioni, come avviene nei casi dei c.d. “gentlemen’s agreements”, non è sufficiente a sottrarlo alla qualifica di intesa».

[49] Le Sezioni Unite menzionano, a questo riguardo, la pronuncia della Cass., 5 agosto 2020, n. 16706, che vedeva protagonista una società che, asserendo di vantare un ingente credito a titolo di «pagamenti anticipati in conto di future forniture» nei confronti di un fallimento, ha visto rigettata l’opposizione allo stato passivo sul presupposto che le somme erogate all’impresa in stato di decozione non fossero ripetibili ai sensi dell’art. 2035 c.c. in quanto prestazioni contrarie al buon costume. Dalla lettura della decisione in commento, è possibile evincere che il Tribunale di Salerno, investito della questione a seguito del rigetto dell’opposizione ex art. 98 l.f. proposta dall’asserita creditrice (posizione alla quale la Suprema Corte aderisce), ha ritenuto che il contratto di fornitura inter partes aveva, in verità, «l’unico scopo di finanziare, ma in modo anomalo» la società in dissesto. In particolare, in forza della premessa per cui la domanda di ammissione allo stato passivo era fondata su una ricognizione di debito e sulla deduzione di un titolo negoziale (contratto di fornitura) risolto consensualmente per mancata esecuzione delle prestazioni, nell’ordine il Tribunale aveva rilevato che: a) la somma richiesta corrispondeva a forniture non solo non eseguite ma neppure pattuite (a differenza di quanto accaduto nei precedenti rapporti tra le medesime parti); b) il contratto di fornitura dissimulava, in realtà, un finanziamento illecito inserito in una complessa operazione volta all’acquisizione del capitale della fallita; c) in particolare, lo scopo delle erogazioni in favore della società, illo tempore in bonis ma sostanzialmente già in stato di decozione, era quello di consentire alla stessa una «permanenza artificiosa sul mercato», con ritardo del­l’emersione dell’insolvenza e conseguente danno per i creditori; d) tali atti, contrari a norme imperative di natura penale (i fatti portati all’attenzione del Tribunale configuravano il concorso, da parte della creditrice opponente, nel reato di bancarotta semplice ex 217, comma 1, n. 4, l.f.), non consentivano la ripetibilità delle somme «erogate», trovando applicazione la soluti retentio di cui all’art. 2035 c.c., eccezione al principio generale della ripetizione dell’indebito oggettivo.

[50] Senza considerare che un ulteriore motivo di perplessità su cui non si indugerà oltre in questa sede attiene alla circostanza per cui, nel diritto italiano, la soluzione in termini di nullità parziale (e, implicitamente, relativa) dei contratti “a valle” (applicata al caso delle fideiussioni omnibus) è sancita per le situazioni di abuso di dipendenza economica ex art. 9, L. n. 192/1998. Questa norma, la cui interrelazione con le norme antitrust è sancita dalla legge stessa (art. 9, comma 3-bis), presenta larghe possibilità di applicazione nei casi in cui il cartello dia luogo ad una posizione dominante collettiva (ciò che poteva ritenersi, per esempio, anche per le vecchie norme bancarie uniformi). Occorre ricordare, però, che la norma si applica direttamente solo nei rapporti fra imprenditori e si applica solo a condizione che la dipendenza economica investa l’intera attività d’impresa e non una componente marginale di costo (come, appunto, avviene nel caso della manipolazione dell’Euribor). Al di fuori dei casi di abuso di dipendenza economica, l’applicazione del rimedio della nullità parziale appare più problematico siccome presuppone, sul piano logico e normativo, che sia, anzitutto, riconosciuta una ragione di nullità della clausola in quanto tale, con la relativa valutazione di rilevanza dell’essenzialità della clausola ex art. 1419, comma 1, c.c. Però, come detto, una valutazione di nullità della singola clausola, che prescinda dall’esistenza di (e dall’ancoraggio a) un accordo di uniformazione “a monte”, è difficilmente postulabile, se e in quanto le clausole in contestazione (come avviene nei casi giurisprudenziali sulle fideiussioni bancarie) sono di per sé ammesse dalla legge e proprio perché a ledere l’interesse del consumatore/cliente è la struttura dell’intesa di uniformazione piuttosto che la clausola cristallizzatasi nel contratto “a valle”. Su questo, si veda più diffusamente M. Libertini, Gli effetti delle intese restrittive della concorrenza sui c.d. contratti “a valle”. Un commento sullo stato della giurisprudenza in Italia, in Nuova giur. civ. comm., 2, 2020, 378 ss.; Id., Posizione dominante individuale e posizione dominante collettiva, in Riv. dir. comm., 1, 2003, 543 ss.

[51] Cfr. Corte di giustizia, sentenza del 30 giugno 1966, causa 56-65, Société Technique Minière (L.T.M.) v Maschinenbau Ulm GmbH (M.B.U.); Corte di giustizia (Quarta Sezione), sentenza del 14 dicembre 1983, Causa 319/82, Société de vente de ciments et bétons de l’Est SA contro Kerpen & Kerpen GmbH & Co. KG; Corte di giustizia (Terza Sezione), sentenza del 18 dicembre 1986, Causa 10/86, VAG-France c. Etablissements Magne SA.

[52] Cfr. Corte di giustizia, Société de Vente de Ciments et Bétons, cit., §§ 11 e 12. La decisione è sostanzialmente confermata da Corte di giustizia, sentenza del 13 luglio 2006, causa C-295/04, Manfredi.

[53] Commissione, decisione del 23 novembre 1992, 93/50/CEE, Astra, § 33.

[54] Non è, quindi, detto che la stessa ratio, che ha giustificato in quel caso la ripercussione del divieto dell’intesa sui contratti “a valle”, si possa trasferire a casi in cui questi contratti consistono in alienazioni ad effetto istantaneo (come nelle vendite di cemento, a cui si riferisce il precedente della Corte di giustizia) oppure in contratti di fideiussione bancaria contenenti alcune clausole viziate.

[55] Commissione CE, Osservazioni presentate in forza dell’art. 20 del Protocollo sullo Statuto della Corte di giustizia nella causa pregiudiziale C-266/92, Semini, Bruxelles, 1° ottobre 1992, p. 64. Inoltre, ad oggi la Corte di giustizia non ha ancora avuto la possibilità di pronunciarsi su tale specifico aspetto, posto che nella vicenda Bagnasco e a. (ove tale questione era stata espressamente sollevata), la stessa ha escluso che le c.d. Norme Bancarie Uniformi (“NBU”) in questione avessero un effetto anticoncorrenziale in grado di incidere sulla concorrenza all’interno del mercato comune. Si veda Corte di giustizia (Sesta Sezione), sentenza del 21 gennaio 1999, cause riunite C-215/96 e C-216/96, Carlo Bagnasco e altri c. Banca Popolare di Novara soc. coop, arl (BPN) (C-215/96) e Cassa di Risparmio di Genova e Imperia S.p.A. (Carige) (C-216/96).

[56] Da un punto di vista strettamente antitrust, si deve ricordare che la nozione d’«infrazione unica e continuata», come riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, presuppone l’esistenza di un «piano d’insieme», nel quale si iscrivono diversi atti, a causa del loro identico oggetto di distorsione del gioco della concorrenza nel mercato interno, e ciò indipendentemente dal fatto che uno o più di tali atti possano anche costituire, di per sé e considerati isolatamente, una violazione dell’art. 101 TFUE. Si veda Corte di giustizia, sentenza del 22 ottobre 2020, causa C-702/19 P, Silver Plastics e Johannes Reifenhäuser/Commissione, punto 81; sentenza del 26 gennaio 2017, causa C-644/13 P, Villeroy & Boch/Commissione, punto 47; sentenza del 24 giugno 2015, cause C‑293/13 P e C‑294/13 P, Fresh Del Monte Produce/Commissione e Commissione/Fresh Del Monte Produce, punto 156; sentenza del 6 dicembre 2012, causa C‑441/11 P, Commissione/Verhuizingen Coppens, punto 41; sentenza del 7 gennaio 2004, C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P, Aalborg Portland e a./Commissione, Racc. pag. I‑123, punto 258 e sentenza dell’8 luglio 1999, causa C‑49/92 P, Commissione/Anic Partecipazioni, Racc. pag. I‑4125, punti 87 e 203.

[57] Si veda decisione della Commissione UE, cit., §§4-48.

[58] Verrebbe da argomentare, innanzitutto, che l’attività di manipolazione degli indici non rientra in alcun modo nella competizione concorrenziale, né è riferibili ad alcun compratore o venditore. Verrebbe a mancare, in linea di principio, quel pregiudizio corrispondente alla quota di surplus sottratta ai consumatori dal monopolista o dai colludenti in occasione della stipulazione dei singoli contratti per effetto della lievitazione dei prezzi artificiosamente indotta (e traducibile anche nella perdita delle chances dei consumatori di contrarre a migliori condizioni di vendita). D’altronde, in secondo luogo, stando all’art. 12 del Regolamento sugli abusi di mercato (“MAR”) dedicato specificamente alla manipolazione del mercato (di cui al Regolamento (UE) n. 596/2014), il danno da informazione finanziaria richiede un nesso di causalità, vale a dire che l’investitore mediamente diligente sia stato effettivamente influenzato dalla rivelazione di circostanze false nella decisione di acquistare o vendere strumenti finanziari ad un prezzo alterato. Sotto il profilo della manipolazione informativa, infatti, la dichiarazione avente ad oggetto il tasso non applicabile non è, almeno formalmente, divulgata ai mercati, ma trasmessa a privati, ai fini dell’elaborazione dell’Euribor. Ciò porrebbe in dubbio, almeno prima facie, il ricorrere del nesso di causalità. Circostanza, quest’ultima, non essenziale nella fisiologia dell’intesa restrittiva della concorrenza, che si configura, invece, alla stregua di un illecito di mera condotta e che prescinde dall’intento di addivenire alla commissione dell’infrazione. Per un’ampia e informata analisi si rimanda a M. Colangelo-M. Maggiolino, La manipolazione dell’informazione come illecito antitrust, in Riv. dir. comm. dir. gen. obbl., 1, 2019, 159 ss.; Id., Manipulation of information as an antitrust infringement, in Columbia Journal of European Law, 2020, vol. 26, no. 2, 63 ss.

[59] Secondo l’art. 7, comma 2 del D.Lgs. n. 3/2017, «[l]a decisione definitiva con cui una autorità nazionale garante della concorrenza o il giudice del ricorso di altro stato membro accerta una violazione del diritto della concorrenza costituisce prova, nei confronti dell’autore, della natura della violazione e della sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, valutabile insieme ad altre prove».

[60] Tale regola costituisce il corollario del più generale principio di leale cooperazione tra gli Stati membri e l’Unione europea di cui all’art. 4 TUE ed è finalizzata a garantire la certezza e l’applicazione uniforme del diritto di derivazione europea, come risulta dal Considerando 22 del Regolamento (CE) n. 1/2003 e costituisce una codificazione della precedente giurisprudenza della Corte di giustizia (cfr., in particolare, le sentenze 28 gennaio 1991, causa C-234/89, Delimitis e del 14 dicembre 2000, causa C-344/98, Masterfoods).

[61] Nella sintesi della decisione della Commissione del 4 dicembre 2013, Caso AT.39914, Derivati sui tassi di interesse in euro (2017/C 206/07), si legge, infatti, al punto 8, che «[l]a decisione non stabilisce alcuna responsabilità delle parti non coinvolte nel procedimento di transazione per la partecipazione a una violazione della normativa UE in materia di concorrenza nel caso di specie». Ciò non vale a escludere, almeno in linea di principio e in applicazione dei c.d. “umbrella effects” il diritto al risarcimento del danno nei confronti delle banche partecipanti al cartello anche da parte dei clienti delle banche terze: nel caso del c.d. prezzo guida o di protezione (umbrella pricing), in presenza di un cartello di prezzo, le imprese non aderenti a quest’ultimo beneficiano della possibilità di applicare prezzi più alti che vengono fissati all’“ombra” (da qui, appunto, si fa parola di umbrella effects) del c.d. prezzo guida “concordato” nell’ambito dell’intesa. Allo stesso modo, nel caso oggetto del presente contributo, le banche terze, a valle della manipolazione del processo di fixing dell’Euribor, di cui potrebbero essere anche all’oscuro, potrebbero allineare naturalmente i loro prezzi a quello scaturente dalla manipolazione. Ebbene, si rimanda su questo alla sentenza della Corte di giustizia del 5 giugno 2014, Causa C-557/12 Kone AG e altri c. ÖBB Infrastruktur AG. In tal senso, possono essere di supporto i principi che ispirano la dottrina della “fraud on the market” che si è imposta negli Stati Uniti in relazione alle condotte manipolative dei prezzi attutate nel contesto delle negoziazioni sul mercato secondario dei titoli azionari. Secondo tale impostazione, dinnanzi a eventuali condotte illecite che incidano sull’integrità dei mercati e con cui si manipoli il normale, corretto processo di formazione del prezzo, il danno che si manifesta sul mercato nel suo complesso finisce per riversarsi su chiunque acquisti il bene o il servizio il cui prezzo è stato artificialmente alterato. Si veda D.R. Fischel, Efficient Capital Markets the Crash and the Fraud on the Market Theory, in Cornell Law Review, 74, 1989, 907 ss.

[62] Piuttosto, è sempre vero che, da un lato, la normativa antitrust vieta e sanziona anche intese che hanno solo per “oggetto” una restrizione della concorrenza, a prescindere, quindi, dalla loro effettiva attuazione e dagli eventuali danni cagionati ai consumatori, dall’altro lato, la violazione antitrust può esser posta in essere anche da imprese che non si relazionano direttamente con i consumatori finali, sicché gli effetti di tale violazione vengono sopportati e assorbiti interamente da imprese intermediarie, che acquistano prodotti o servizi oggetto della condotta anti-competitiva. Del resto, è, ormai, circostanza nota che la violazione di una disposizione antitrust può ledere, oltre al buon funzionamento della concorrenza, gli interessi dei singoli che operano sul mercato all’interno del quale si è verificato l’illecito. Del resto, è partire dalla sentenza Courage (Corte di giustizia, sentenza del 20 settembre 2001, Causa C-453/99, Courage Ltd contro Bernard Crehan e Bernard Crehan contro Courage Ltd e altri) era stato affermato il principio di diritto per cui la violazione di una disposizione antitrust può ledere, oltre al buon funzionamento della concorrenza, gli interessi dei singoli e chiunque può agire per il risarcimento del danno causatogli da un comportamento anticoncorrenziale, principio confermato dalla sentenza Manfredi (Corte di giustizia (Terza Sezione), sentenza del 13 luglio 2006, cause riunite C-295/04 a C-298/04, Vincenzo Manfredi contro Lloyd Adriatico Assicurazioni SpA (C-295/04), Antonio Cannito contro Fondiaria Sai SpA (C-296/04) e Nicolò Tricarico (C-297/04) e Pasqualina Murgolo (C-298/04) contro Assitalia SpA). Nella giurisprudenza italiana, fino alla pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite 4 febbraio 2005, n. 2207 era posta in dubbio la legittimazione ad agire dei consumatori finali. Questa interpretazione restrittiva si basava sull’idea che le finalità perseguite dalla disciplina antitrust fossero limitate, al pari della disciplina codicistica contenuta negli artt. 2595 ss. alla sola tutela della libera concorrenza fra le imprese. Sulla base di tali premesse, si affermava l’applicabilità della normativa antitrust alle sole azioni risarcitorie promosse dagli imprenditori concorrenti. Ove, invece, fosse stato il consumatore a lamentare di aver subito un danno, la strada da seguire era quella dell’art. 2043 c.c.

[63] Cfr. E. Camilleri, Validità, cit.; G. Guizzi, I contratti a valle, cit.

[64] Potrebbe trovare in questo caso applicazione il tasso sostitutivo prefissato dall’articolo 117, comma 6, TUB? La tentazione sarebbe forte (si eliminerebbero, dal punto di vista pratico, numerosi problemi di quantificazione), ma l’art. 117 presuppone che il tasso applicabile non sia indicato (comma 4), mentre in questo caso il tasso c’è, è rilevato ed è stato anche applicato. Occorre quindi stiracchiare un po’ l’ambito di applicazione della norma, facendo assurgere (usando stilemi oggi molto in voga) a clausola generale applicabile ai rapporti bancari. Si perde forse però così di vista il ruolo del Legislatore ed il senso piuttosto chiaro delle norme (ma ormai il principio sembra essere sdoganato). In senso restrittivo v., ad es., Trib. Forlì 20 giugno 2018, Trib. Bologna 3 luglio 2015, in dejure.it.

[65] Almeno su questo aspetto teoricamente non dovrebbero esserci discussioni ma, si sa, siamo in Italia, e quindi anche su questo si è finiti a questionare in tribunale. Ad ogni modo, il requisito della forma scritta per la determinazione degli interessi extralegali (art. 1284 c.c., u.c.), infatti, non pretende che la convenzione medesima contenga una puntuale indicazione in cifre del tasso così stabilito, ben potendo essere soddisfatto, secondo i principi generali sulla determinatezza o determinabilità dell’oggetto del contratto, contenuto nell’art. 1349 c.c., anche per relationem, attraverso cioè il richiamo – operato per iscritto – a criteri prestabiliti ovvero ad elementi estrinseci al documento negoziale, purché obiettivamente e sicuramente individuabili, che consentano la concreta determinazione del relativo saggio di interesse, la quale, pur nella previsione di variazioni nel tempo e lungo la durata del rapporto, risulti capace di venire assicurata con certezza al di fuori di ogni margine di discrezionalità (cfr. Cass. 29 settembre 2020, n. 20555; Cass. n. 9080 del 2002; Cass. n. 6113 del 1994; Cass. n. 2765 del 1992 in dejure.it). Sulla validità dell’impiego del parametro Euribor si vedano (ma non ce ne sarebbe francamente il bisogno) Trib. Piacenza 1 settembre 2023; App. Firenze 11 maggio 2023 in dejure.it.

[66] In arg., l’opinione tradizionale sembra non prescindere dall’atto di una nomina, che renderebbe sostanzialmente, a seconda delle interpretazioni, un mandatario o l’incaricato di un contratto d’opera intellettuale. In arg. v. per una panoramica E. Gabrielli, voce. Arbitraggio, in Dig. disc. priv. – Sez. civ. Aggiornamento, I, Torino, 2003, 125.

[67] Sul punto vale la pena di evidenziare che questo approccio è valorizzato dal legislatore europeo, tanto nel contesto del Regolamento Benchmark, in cui particolare attenzione è dedicata al rapporto tra administrator e contributor. Con riguardo a questi ultimi, il sistema prevede una sorta di autoregolamentazione rafforzata poiché, da un lato, rimette la regolazione delle condotte alla definizione di codici di condotta da parte dell’amministratore del benchmark, ma dall’altro testualizza i contenuti minimi di tali documenti, consentendo all’autorità nazionale di richiedere all’amministratore di apportare “integrazioni” ai codici ove siano riscontrate carenze. Cfr. art. 15 BMR. Peraltro, quando il contributore è un soggetto a vigilanza, trovano applicazione delle regole specifiche (art. 16 BMR), relative principalmente alla governance, alla gestione dei conflitti di interesse ed alla gestione delle procedure con cui i dati oggetto di contribuzione sono rilevati e trasmessi.

[68] Nel gergo tecnico, la clausola di fallback è quella con cui le parti individuano un parametro sostitutivo; nei casi in cui tale parametro sia un tasso risk free (e.g. Sonia per la sterlina, Sofr per il dollaro americano o €onia per l’euro) si pone un doppio problema: da un lato l’adattamento del tasso alla durata (i tassi RFR hanno scadenze overnight) dall’altro la circostanza che il tasso risk free non incorpora, per sua stessa natura, il rischio di controparte e quindi esprime un valore più basso del corrispondente tasso IBOR. Di conseguenza è necessario colmare la differenza con un valore (spread adjustment). Per completezza, ove una clausola di fallback manchi, oggi trovano applicazione disposizioni imperative di legge. Al fine di evitare un’interruzione significativa del funzionamento dei mercati finanziari nell’UE, è stato inserito un nuovo capitolo 4a nella BMR (artt. 23-bis, -ter e -quater). Le previsioni di nuovo inserimento attribuiscono al potere pubblico la possibilità di designare un parametro di riferimento sostitutivo obbligatorio e di sostituire, a determinate condizioni, tutti i riferimenti presenti nei contratti e negli strumenti finanziari in cui il benchmark che ha cessato di essere pubblicato veniva impiegato. Tale previsione, assieme al più generale complesso di regole relativo alla sostituzione degli indici, è stata recepita in Italia con la recentissima introduzione dell’articolo 118-bis TUB, che in sostanza realizza l’adeguamento dell’ordinamento italiano della BMR con riguardo alla materia bancaria (che in quanto regolamento è dotato di diretta applicabilità ed efficacia diretta, ma che lascia comunque alcuni spazi di adattamento alla disciplina nazionale).

[69] Come noto, l’azione di risarcimento del danno si prescrive in cinque anni. Nell’ambito del danno antitrust, il dies a quo si può individuare nel momento del provvedimento sanzionatorio ma può anche essere anticipato al primo momento in cui l’illecito e il danno si manifestano all’esterno, diventando oggettivamente percepibili e riconoscibili (Trib. Milano 4 ottobre 2018 e Cass. 19 ottobre 2022, n. 30783, in dejure.it)

[70] Senza considerare che, qualora all’originaria intesa anti-competitiva (in ipotesi) si assommi anche una strategia verticale con i traders, diretta ad ottenere profitto in singole operazioni, il comportamento potrebbe, altresì, integrare ipotesi penali, quali la truffa aggravata ex art. 640 c.p. o, persino, l’associazione a delinquere finalizzata alla truffa.

[71] Da questo punto di vista, il corto-circuito che si innesca attiene maggiormente al problema del nesso causale nell’azione di danno antitrust: ogniqualvolta la “propagazione” del danno passi attraverso una serie di contratti, si registra una cesura e un’interruzione del nesso causale, intercorrente tra condotta vietata (a monte) e danno (per lo più da sovrapprezzo) patito dai terzi acquirenti a valle chiamati, ad esempio, a pagare un prezzo sovra-competitivo, o costretti a sopportare condizioni contrattuali deteriori rispetto a quelle che avrebbero potuto spuntare altrimenti. Si rileva, infatti, che una volta appurata la sussistenza, ad esempio, di un cartello di prezzo, anche a voler avallare la recente giurisprudenza di legittimità che intende il danno al mercato come sommatoria del danno ai singoli consumatori, presunto in forza dell’art. 14, comma 1, D.Lgs. n. 3/2017, un pregiudizio generale al mercato, consistente nel rialzo dei prezzi praticati dalle imprese cartelliste e provato (o parimenti presunto) un pregiudizio al singolo acquirente a valle, resta da dimostrare che questo danno sia riconducibile all’intesa a monte e non ad altre circostanze quali ad esempio un rapporto di forza sperequato tra quelle parti in un determinato contesto di mercato.

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