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Sacralità della morte

di  Luciano Bertolotto

Gli uccisi. Puntuali, come la Giorgia, all'ora di cena, in TV. Tra una pubblicità e l'altra (lo spettacolo costa...) osserviamo la rappresentazione atavica del sacrificio. Con immolati in guerre, stenti, epidemie, droga, depressioni... Metaforico altare che, però, ha, la concretezza del divenire storico. Le vittime (per altro, il più delle volte involontarie) vengono fatte uscire dal profano ed entrano nella dimensione del sacro. Paradossalmente si dà significato alla vita che non c'è più.

La trascendenza nobilita lo squallore della realtà oggettiva. Irrazionalità di una religione che neppure necessita di un dio.

Pura mistificazione? Non lo so. Forse siamo condannati a cercare, nel fluire dell'esistenza, un orizzonte di senso. Per questo l'uomo ha scoperto (o, inventato?) la sacralità. Estendendola, anche, oltre la morte. Attribuendo significato agli ordinari momenti di una vita normale.

Del resto ciò che esiste da millenni ha ragione di essere. O di essere stato. Spiegazione che va cercata nell'evoluzione. Ipotizzo: forse il concetto del sacro è riuscito a conciliare l'istintualità individuale con la necessaria socialità.

Un tema che mi intriga. Vorrei rifletterci un po' su. Come vecchio (pardon, anziano), mi riguarda particolarmente. Anche se rifiuto di inoltrarmi nel campo incerto della fede individuale...

L'evento finale presenta due sole varianti: come e quando. Considerazione ovvia. Almeno per quel che riguarda la dimensione biologica del vivere.

Più interessante osservare i rapporti in cui il singolo individuo è immerso. Con esseri sia viventi che no. Rapporti variamente continuativi, diversamente profondi. Ciascuno si pone (o si crede) al centro della ragnatela. Tanti fili che, nello scorrere del tempo, variano in quantità e in qualità. Determinano la coscienza di esistere. Vale a dire: la concezione che ognuno possiede di se stesso.

La religione, specie quella cattolica, ha avuto, su questa tematica, un ruolo fondamentale. Del resto il sacro è campo suo.

Ha creato un complesso insieme di regole che, nella loro totalità, costituiscono una morale.

Attribuendo a esse, pur così terrene, l'aurea del divino. Infrangerle significa peccare. Norme che, spesso, si sono sovrapposte a quelle della società civile. In talune epoche hanno coinciso con esse e, come tali, hanno goduto del diritto di essere imposte con la forza. Si pensi all'Inquisizione...

La storia mostra che gli interessi dei dominatori hanno, quasi sempre, trovato complicità nell'apparato ecclesiastico. I sovrani giustificavano il loro potere assoluto come la volontà divina incarnata nella Chiesa. A sua volta, il clero predicava la sottomissione a Dio ma, anche, al potere temporale. Ovvero una duplice limitazione della libertà.

Il rispetto delle regole imposte dalla divina morale costituiva l'ulteriore costrizione a cui il fedele era sottoposto. In contrasto con il principio basilare proprio della religione: l'adesione a essa presuppone la libera scelta dell'individuo. Da cui il paradosso di poter scegliere liberamente di non essere liberi.

Una contraddizione, in parte, risolta con la fine del collateralismo e con il prevalere del pensiero laico. Si è assistito al declino dell'egemonia della Chiesa. Negli ultimi cinquant'anni, in Italia, i luoghi di culto si sono svuotati. Il cattolicesimo ha continuato a perdere consenso. Con esso la sua morale. Una morale sino ad allora pregnante per il fedele e per l'intera società. Fondamentale per la mentalità di buona parte della popolazione; imposta anche al non credente.

Si sono, così, creati dei vuoti nella stessa concezione condivisa della vita. Il declino della trascendenza, o della laica fiducia nel futuro, ha lasciato il posto a una quasi totale attenzione al presente. Anche se c'è chi finge di non essersene accorto. Per qualche voto, raschia il fondo sbaciucchiando rosari.

Hanno preso forza vecchi e nuovi interessi. Moda, sport, “social”sono andati oltre la loro dimensione di intrattenimento. Sono diventati forme di vita. Benedette dalla principale religione emergente: il mercato. Ora è il mercato a imporre la propria morale. Principalmente improntata sulla merce. Idolo da produrre e consumare. Trionfa l'effimero in coerenza con l'usa e getta tanto caro a chi vende.

È inevitabile che i rapporti sociali si siano fortemente mercificati. Nella nuova concezione della vita perde valore chi più non produce e poco consuma. Il vecchio diventa uno scarto. Proprio come la merce obsoleta. Un costo sociale a carico delle altre generazioni.

Lui si arrabatta a inseguire cose che per i giovani sono assolutamente ovvie. Anzi, naturali. Sperimenta il senso di inadeguatezza. A che (e, a chi) serve la sua esperienza?

Lo strabiliante progresso della tecnologia impoverisce i saperi di chi è arrivato oltre i sessant'anni... Non è neppure più buon cliente per la massa di nuovi aggeggi che, in continuazione, saturano il mercato.

A tenerlo in vita, in ogni senso, è l'industria farmaceutica. Buon per lui se ancora detiene, sotto forma di risparmi, parte del lavoro cristallizzato suo e delle generazioni precedenti.

Potrà surrogare, per figli e nipoti, il Welfare in via di demolizione. E potrà permettesi di sopravvivere con l'ausilio di una badante(merce da importazione) o attendendo la morte in una R.S.A. decente.

Solitamente ciascuno tiene alla propria vita e, soprattutto, a quella delle persone care.

Il lutto, ovvero l'accettazione individuale della morte, è un momento lungo e difficile.

In contrasto con l'ovvia(quanto dimenticata) verità che l'estinzione del singolo individuo è necessaria per la conservazione della specie. Senza di essa non potrebbe fluire la vita...

La sacralità della morte è diventata piuttosto ambigua...

Siamo su un terreno assai pericoloso. Accanto a irrinunciabili diritti quale, ad esempio, il rifiuto dell'accanimento terapeutico, compaiono inquietanti riferimenti all'inutilità dei vecchi.

Una premessa per il futuro genocidio degli anziani?

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