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Fra timè, eros e thanatos, Siracusa è il teatro della follia

Teatro e opera La 59a stagione di rappresentazioni classiche dell'Istituto nazionale del dramma antico pone l'accento, con le due tragedie in calendario, sulla “mancanza di senno” che sta all'origine delle passioni, anche le più malate. Vedi quella per la gloria e l'onore dell'Aiace di Sofocle riletto da Luca Micheletti e quella del morboso sentimento amoroso di "Fedra - Ippolito portatore di corona" di Euripide nella rilettura di Paul Curran. Annunciato il cartellone 2025

Lo spazio mentale viene spesso configurato dalla teoria psicoanalitica come una scena e “la mente funziona come il teatro, e il teatro può essere descritto come fosse un apparato psichico”, sosteneva lo psicoanalista Fausto Petrella che fu indagatore del rapporto tra arte e psicoanalisi. Condizionata da una scena mondiale all’insegna della pazzia degenerata della guerra, la 59a stagione di rappresentazioni classiche dell’Istituto nazionale del dramma antico di Siracusa pone l’accento, con le due tragedie in calendario, sulla “mancanza di senno” che sta all’origine delle passioni, anche le più malate. Vedi quella per la gloria e l’onore di Aiace e quella del morboso sentimento amoroso di Fedra.

Quest’anno sul colle Temenite aretuseo si respira la tragedia maschile della follia e dell’orrore di “Aiace” di Sofocle, che ha debuttato venerdì 10 maggio e tornerà in scena, a giorni alterni, per altre 9 repliche fino al 7 giugno; ad essa si aggiunge la tragedia femminile della “ignobile” passione amorosa di “Fedra – Ippolito portatore di corona” di Euripide, che ha debuttato sabato 11 maggio e tornerà in scena, a giorni alterni, per altre 19 repliche fino al 28 giugno.
Nella prima tragedia Luca Micheletti, un esordio il suo a Siracusa, forte della traduzione di Walter Lapini, dà corpo e anima, come attore del ruolo e regista, alla furente crisi dell’eroe più eroe che ci sia, incapace di leggere l’evolversi della storia e quindi di reggere l’onta del non esser riconosciuto come il supereroe del presente, degno erede delle armi, e quindi del ruolo che fu, di Achille nella guerra di Troia.
Nella seconda tragedia è la salute mentale della moglie di Teseo, vittima degli artefici di Afrodite e quindi schiava d’amore e di desiderio erotico per il figliastro Ippolito, che il regista scozzese Paul Curran, anch’egli alla sua prima siracusana, forte della traduzione di Nicola Crocetti e della drammaturgia di Francesco Morosi, vuole sottolineare, fino all’inevitabile sacrificio personale che lava ogni peccato. Un parallelo con le angosce contemporanee, sempre più asfissianti.
Una dicotomia uomo-donna che si ripete a Siracusa – dopo la lotta contro le regole costituite dello scorso anno di Prometeo e Medea – tutta giocata quest’anno sull’onore – o timè per i greci antichi – come bene supremo da difendere, costi quel che costi, anche con la vita.



Aiace solo contro tutti

Daniele Salvo/Odisseo – colui che è stato prescelto dagli Atridi Agamennone e il fratello Menelao come l’erede delle armi di Achille morto a Troia – entra torvo nella scena rosso sangue firmata da Nicolas Bovey. Roberto Latini/Atena, coperto da una maschera dorata, non ha pietà per Aiace e la sua fragilità umana. Un clarinetto funesto, suonato da Marcello Zinzani, si aggira fra le pecore e i buoi sterminati da Aiace, convinto per incantesimo di Atena di aver annientato i suoi nemici che non gli hanno riconosciuto il ruolo dell’eroe senza macchia da tenere sugli scudi.
In scena il coro dei marinai di Salamina è un po’ confuso, all’inizio forse troppo protagonista. Arriva Tecmessa/Diana Manea, schiava e concubina di Aiace, unica donna in questo coacervo di uomini sull’orlo di una crisi di nervi: la sua voce, grave ma credibile, racconta la follia degli orrori contro quei poveri animali. Si odono mosconi di morte, come in un film di Dario Argento. Si aggiunge paura ad orrore, con la “belva” Aiace che ruggisce sotto il telo insanguinato come un leone ferito in gabbia.

L’Aiace di Sofocle, nella messinscena al Teatro Greco di Siracusa, di Luca Micheletti, foto Franca Centaro

Campane a morto e archi mistici danno l’idea di un luogo di grande dolore. Restituiscono grazia emotiva ad un impianto scenico dalle forti tinte splatter, le musiche dal vivo opera del violoncellista palermitano Giovanni Sollima che affida le sue note ai violoncellisti Francesco Angelico, Christian Barraco e Cecilia Costanzo, al percussionista Giovanni Caruso e all’arpista Giuseppina Vergina. Marcello Zinzani, clarinetto, e Paolo Leonardi, trombone, entrano più volte in scena a dare enfasi all’azione.

Daniele Salvo e Roberto Latini, foto Franca Centaro

Eccolo alla fine Luca Micheletti/Aiace, il lupo solitario, l’eroe lontano sia dagli dei sia dagli uomini, che veste una testa di bue, mentre si sentono le urla dei buoi scannati. Aiace, impazzito, appare come il Dracula guerriero impalatore di Dio di Francis Ford Coppola: «Il mio onore è morto con queste bestie» urla, straziante, abbruttito dalla follia. Il senso della vergogna per quello che ha commesso, anzi per quello che non ha commesso (l’annientamento dei suoi nemici) finisce per annientare lui stesso, solo la morte autoindotta nel suo codice d’onore lo può salvare.

Luca Micheletti (Aiace), foto di Franca Centaro

Il pubblico apprezza e applaude. Diana Manea/Tecmessa è l’unica che ha una recitazione fluida, Micheletti/Aiace, che divide la sua attività d’artista col canto da baritono d’opera, spinge troppo sul tono tragico che diventa quasi di maniera.

Diana Manea (Tecmessa) e Luca Micheletti (Aiace), foto di Franca Centaro

In questo clima di grande tensione un sorriso al pubblico lo regala solo l’ingresso in scena della piccola Arianna, figlia di Micheletti, un anno e mezzo appena, che incarna Eurisace, il figlio di Aiace e Tecmessa. La piccola, che ha una parte di pochi minuti – la domanda è: reggerà tutte le repliche? – senza esitazioni trancia il filo narrativo e cerca e chiama a gran voce la mamma (la costumista Elena Balbo che ha collaborato con Daniele Gelsi nel disegno dei bei costumi), prima di uscire di scena, trotterellante, incurante di tutto e tutti. Siparietto che si è ripetuto parzialmente anche ieri sera.
“Tu sei laggiù, gloriosa isola di Salamina” canta il coro dei marinai su arie orientali. Un canto baroccheggiante, la parte migliore del coro, intona “L’eroe di mille battaglie ora giace inerte”, temendo conseguenze per il loro capo. Il ritmo si fa tribale con le percussioni di Giovanni Caruso: “Meglio sprofondare in un mare che trascinare la vita in un mare di follia”. Quando Aiace depone le armi della follia e affronta un monologo di saggia rassegnazione all’ineluttabile destino, il coro esulterà al grido di “Evviva”.

Roberto Latini si conferma il jolly che tramuta tutto in oro e passa con nonchalance dalla sfottente Atena alle sembianze di un messaggero da macchietta, quasi comico. Arriva su una scena troppo ferma Teucro, fratellastro di Aiace, un convincente Tommaso Cardarelli.

Viene tirato giù il telone rosso-sangue e rivela un gigantesco teschio e conseguente scheletro di Aiace trafitto dalla spada di Ettore, installazione che finalmente dà un senso all’impianto scenico. Si accendono i fuochi, Thanatos/Lidia Carew porta giù l’eroe verso la morte, i violoncelli “cantano” la serenità raggiunta, il trombone di Paolo Leonardi fa da controcanto. Indubbiamente la scena più bella che merita l’applauso del pubblico. All’annuncio che Aiace è stato trovato morto conficcato sulla spada che gli aveva donato Ettore a Troia, i marinai piangono come pecore, in un gioco di penombre anche fin troppo buio. «La sua morte è un discorso fra lui e gli dei – dice Tecmessa – gli Atridi non c’entrano».

Luca Micheletti (Aiace), foto di Franca Centaro

Luca Micheletti e Lidia Carew, foto Franca Centaro

Torcia in mano arriva Teucro. Si accendono le luci, arriva Menelao/Michele Nani, un po’ tonto e claudicante, sbeffeggiato da Atena/Latini che gli suggerisce le parole. Tommaso Cardarelli/Teucro si prende gli applausi perché il suo tono, seppur talvolta sopra le righe, funziona e rende bene il ruolo del fratellastro dell’eroe, Antigone al maschile, che è quello di convincere il potere a rispettare le leggi divine, assicurando degna sepoltura all’eroe morto, sacro dovere inviolabile. “La violenza genera violenza” canta il coro, mentre dall’alto del teatro greco arriva Agamennone/Edoardo Siravo, spalleggiato da soldati in versione Star Wars, che urla, con voce da grande attore di teatro, l’autorità del re contro Teucro e nega la sepoltura per l’eroe morto.

Edoardo Siravo (Agamennone) e Michele Nani (Menelao), foto Franca Centaro

La tragedia, che si era avviata ingessata, ha trovato finalmente la sua dinamica evoluzione. Sarà Odisseo/Daniele Salvo, dopo aver fatto quasi da “comparsa” muta per tutto il divenire della storia, a tornare in scena questa volta da protagonista, vestendo l’uniforme di Achille, e rappresentando la novità che il regista Micheletti ama sottolineare: con la morte di Aiace il mondo degli eroi duri e puri è finito, tutti gli uomini sono fragili e fallaci, non sarà più la forza tout court a comandare ma saranno il pensiero, l’astuzia, le relazioni fra gli uomini di cui Odisseo è maestro.

Tommaso Cardarelli (Teucro), foto Franca Centaro

Accettando la visione di Teucro, Odisseo mette in campo il valore della giustizia: «Quando un generoso cade non è giusto recargli oltraggio. E’ stato un nemico ma valoroso». «Sulla terra fu il più grande» ribadisce Teucro e la tragedia finisce fra gli applausi del Teatro Greco gremito che premia anche il lavoro di Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Grilli, Mino Manni e Francesco Martucci (corifei), Giovanni Accardi, Gaetano Aiello, Ottavio Cannizzaro, Pasquale Conticelli, Giovanni Dragano, Raffaele Ficiur, Gianni Giuga, Paolo Leonardi, Marcello Mancini e Marcello Zinzani. A completare il cast i ragazzi dell’Accademia d’arte del dramma antico, la scuola di teatro intitolata a Giusto Monaco, a lungo a capo dell’Istituto del dramma antico: Tommaso Arquilla, Alberto Carbone, Giovanni Costamagna, Alessandro Cunsolo, Christian D’Agostino, Carlo Alberto Denoyè, Gabriele Esposito, Lorenzo Ficara, Ferdinando Iebba, Marco Maggio, Lorenzo Marra, Moreno Pio Mondì, Matteo Nigi, Lorenzo Patella, Tommaso Quadrella, Daniele Sardelli, Massimiliano Serino, Davide Sgamma, Stefano Stagno e Giovanni Taddeucci nel ruolo dei marinai; Andrea Bassoli, Davide Carella, Carloandrea Donizetti, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini, Riccardo Massone, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Francesco Ruggiero, Flavio Tomasello in quello misto di Erinni/soldati/dèi.

Daniele Salvo, foto Franca Centaro



Fedra e Ippolito, la purezza sconfigge la malattia dell’amore

Afrodite entra in scena bella, altera, tracotante. L’attrice vercellese Ilaria Genatiempo, dall’alto del suo metro e ottanta, con elegante sinuosità da diva racconta, con fare leggero ma inquietante, tutto ciò che accadrà. Les jeux sont faits ma tutto deve ancora accadere.

Ilaria Genatiempo (Afrodite), foto di Maria Pia Ballarino

Arriva un Ippolito/Riccardo Livermore di bianco vestito, giacca glittering aperta, un’icona glam alla Marc Bolan. Il regista scozzese Paul Curran avrà visto tante volte “Hair” di Milos Forman perché fa irrompere in scena i “children of revolution” di Ipollito, un coro flower power che ricorda i figli dei fiori di Central Park del celebre film tratto dal celeberrimo musical. Non a caso, infatti, nel dopo spettacolo all’Orecchio di Dioniso, regista e ragazzi del coro si sono dilettati a cantare il tema di “Acquarius”. La danza in scena è più urban, un chiaro riferimento al variopinto mondo californiano di Coachella, la Woodstock meno rock e più fashion dei nostri giorni.

Riccardo Livermore (Ippolito), foto di Maria Pia Ballarino

«L’uomo arrogante è sempre odioso. A me non piacciono gli dei che si venerano di notte». Scatta subito l’empatia per il puro Ippolito, uno che dei piaceri fisici dell’amore non solo non ha contezza ma neanche desiderio. La sua dea è Artemide, dea vergine della caccia, protettrice della pudicizia; altro che Afrodite, protettrice dell’amplesso amoroso, che per vendicarsi del diniego del giovinetto infonde alla matrigna Fedra un amore innaturale nei confronti del figliastro. Al fianco di Ippolito, il simpatico servo interpretato da Sergio Mancinelli.

Livermore (Ippolito), foto di Maria Pia Ballarino

Sono bellissime le tuniche bianche e azzurre che vestono il coro delle donne di Trezene formato da Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin e Alba Sofia Vella. Il gioco femminile è corroborato dalle ottime corifee Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano.

Il coro delle donne di Trezene, foto di Maria Pia Ballarino

Al centro della scena una testa di donna: è la testa di Artemide a cui tutti sono devoti? O forse è il segnale che lo scenografo e costumista irlandese Gary McCann ha voluto dare per far capire che questo è un palcoscenico delle donne e di una lotta di pensiero intorno al ruolo della donna, lontana anni luce dal racconto al testosterone di “Aiace”? Molto più probabile la seconda ipotesi, e questa testa a lungo inerte è l’unico elemento scenico di impatto.
Per il resto il palazzo di Trezene è visto come un cantiere in costruzione, e siamo agli elementi di base dei ponteggi. Lo stesso coro formato dai ragazzi dell’Accademia d’arte del dramma antico dell’Inda sono vestiti come operai edili. Cosa volevano rappresentare regista e scenografo? Forse che il palazzo reale di Teseo, quindi la stessa vita di Teseo, visto l’evolversi degli eventi e soprattutto considerato il rapporto in divenire con il figlio Ippolito, ha bisogno di essere restaurato, o quasi ricostruito dalle fondamenta.

Il confronto muliebre tra Fedra/Alessandra Salamida, di giallo vestita, e la nutrice/Gaia Aprea, di verde scuro abbigliata, tiene viva la scena. Dopo l’inizio scintillante, il dialogo delle donne abbatte il ritmo ed è dominato dall’ottima Aprea, la sparring partner perfetta. «Cos’è questa malattia che ti spinge alla morte?» chiede la nutrice. «Cos’è quella cosa che chiamano amore? – ribadisce Fedra – la cosa più dolce e dolorosa» ed il pensiero va ad Afrodite e all’insano gesto che ha distrutto sia lei che tutta la casa; la paura di disonorare il marito Teseo e i figli la consuma. La passione amorosa si dipana fra eros a cui cedere o da cui stare lontani e thanatos, la morte ancora una volta come soluzione di tutti i conflitti interiori.

Alessandra Salamida (Fedra), foto di Maria Pia Ballarino

Nel confronto fra le due donne Gaia Aprea/nutrice svetta – «Tu sei malata, cerca una cura alla tua malattia» -, Alessandra Salamida/Fedra è fisicamente ferma nel bocciare le «belle parole» della nutrice, belle però per «compiere atti ignobili».

Gaia Aprea (la nutrice) e Alessandra Salamida (Fedra), foto di Maria Pia Ballarino

Sputa Ippolito/Livermore per cacciare da sé ogni tentativo muliebre di averlo fisicamente, e il pensiero misogino dell’uomo puro raggiunge vette oggi inaccettabili nel mondo contemporaneo: «Perché hai messo al mondo le donne, un mondo pieno di inganni. Le donne sapienti io le odio, lo scarso cervello le trattiene dal vizio. Mai sazio dell’odio verso le donne». Una voce maschile dal pubblico grida “bravo” e non si comprende se plaude alla bravura del 30enne attore torinese, figlio del celebrato regista Davide Livermore, o se perpetua nel mondo di oggi la misoginia di ieri. Un cerchio di donne protegge Fedra che urla e piange: «Io sono la più infelice di tutte le donne. Ho trovato la soluzione: morire. Morendo sarò un male anche per qualcun altro». Si illumina finalmente la testa di donna al centro della scena, e la nutrice annuncia la morte per impiccagione di Fedra.

Un momento della Fedra, foto di Maria Pia Ballarino

Arriva Teseo/Alessandro Albertin, affiancato da una squadra di operai edili. Albertin, già un coriaceo Prometeo lo scorso anno, dà corpo e voce grave al dolore del marito che scopre la morte della moglie: per un lunghissimo minuto assiste silente al corpo della donna stesa su un trabattello, come se fosse vittima di un incidente sul lavoro in un cantiere. Il palazzo di certezze di Teseo, in effetti, si sgretola con quella morte.

Alessandro Albertin (Teseo) e Alessandra Salamida (Fedra), foto Maria Pia Ballarino

Quel silenzio assorto si rompe solo con la “notizia” letta dal messaggio lasciato per lui da Fedra che Ippolito ha osato toccare il letto del padre violando la matrigna. Da qui la maledizione di Teseo contro Ippolito, con l’invocazione del padre Poseidone. Il confronto drammatico fra padre e figlio tiene incollato il pubblico, come in una fiction, al divenire della storia. E se Teseo si pente di aver insegnato «saggezza agli stolti», maledicendo addirittura la dieta vegetariana del figlio, Ippolito dalla sua rivendica la sua innocenza perché la sua «anima è vergine» e perché «stare lontano dai pericoli è meglio che governare». E nonostante il padre decida l’esilio del figlio, quest’ultimo, pur distrutto dalla decisione, bacia il padre e strappa un caloroso applauso gratificando il buon confronto attoriale fra Albertin e Livermore.

Alessandro Albertin e Riccardo Livermore, foto Maria Pia Ballarino

Arriva il momento per la testa di donna di prendere finalmente vita grazie al video design di Leandro Summo. Arde di brace quando un messaggero (Marcello Gravina) porta trafelato la notizia del mortale incidente del carro di Teseo, vittima della reazione dei cavalli alla comparsa improvvisa di un mostro marino con la testa di toro: «Poseidone mio padre mi ha ascoltato» è la magra consolazione del re ferito nell’animo.

Marcello Gravina e Alessandro Albertin, foto di Maria Pia Ballarino

Dalla testa di donna che si è tramutata in teschio esce alla fine Artemide/Giovanna Di Rauso, di rosso porpora vestita, vera dea ex machina nel senso letterale del termine che si scaglia contro Afrodite, tornata in scena con il suo sguardo irriverente. La vergine dea della caccia rivela a Teseo l’arcano e chiede che il padre possa perdonare il figlio prima che muoia.

Giovanna Di Rauso, foto Maria Pia Ballarino

«Io ti assolvo dalle tue colpe» pronuncia Albertin/Teseo abbracciando il corpo morente di Ippolito, in una scena di chiara ispirazione michelangiolesca. E se perdono arriva in extremis verso il figlio diverso dal padre ma puro fino alla fine, lo stesso non accade verso la divinità: «Afrodite, mi ricorderò sempre de tuoi mali». E li scatta l’ovazione dei 4600 che hanno riempito il Teatro greco, che porta ad una standing ovation di 5 minuti circa che premia anche l’ottimo coro formato dai ragazzi dell’Accademia: Caterina Alinari, Allegra Azzurro, Andrea Bassoli, Claudia Bellia, Carla Bongiovanni, Clara Borghesi, Davide Carella, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Alessandra Cosentino, Sara De Lauretis, Ludovica Garofani, Enrica Graziano, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini Bouland, Arianna Martinelli, Riccardo Massone, Linda Morando, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Carloandrea Pecori Donizetti, Alice Pennino, Francesco Ruggiero, Daniele Sardelli, Flavio Tomasello, Elisa Zucchetti.



I prossimi eventi al Teatro greco di Siracusa

La commedia si affida ad un classico latino come il “Miles Gloriosus” di Plauto che debutterà il 13 giugno (repliche a giorni alterni fino al 29 giugno) con la regia di Leo Muscato nella traduzione di Caterina Mordeglia. Muscato ha scelto per questa commedia latina un cast tutto al femminile con Paola Minaccioni nel ruolo del protagonista Pirgopolinìce.
Il 5 e 6 luglio ritorna al Teatro Greco Giuliano Peparini. Dopo il successo ottenuto nel 2023 con “Ulisse, l’ultima Odissea”, il regista e coreografo romano presenterà “Horai. Le quattro stagioni”, uno spettacolo di danza, musica, e poesia sul tema dell’amore universale attraverso le parole dei grandi classici della lirica greca e latina scelti e tradotti da Francesco Morosi. Sul palco, l’etoile palermitana Eleonora Abbagnato, con lei 25 artisti e 15 tra allievi e allieve dell’Accademia dell’Inda. Tra i protagonisti dello spettacolo anche Giuseppe Sartori, fra gli attori più amati dal pubblico del Teatro Greco di Siracusa.
La stagione 2024 si chiuderà il 14 luglio con il gala di danza “Roberto Bolle and Friends”, che vedrà il ballerino piemontese esibirsi per la prima volta al Teatro Greco di Siracusa.

Siracusa palcoscenico globale per i 110 anni di teatro classico dell’Inda

La 60a stagione 2025

Prima dell’inizio di “Aiace”, Francesco Italia, sindaco di Siracusa e quindi presidente dell’Inda, e Marina Valensise, consigliere delegato e sovrintendente ad interim dopo le dimissioni di Valeria Told, hanno annunciato al pubblico il programma della 60° stagione. Ci sarà un gradito ritorno al Teatro Greco di Siracusa, quello del regista canadese Robert Carsen, il quale lo scorso anno ha vinto il premio “Maschera del teatro” per l’“Edipo Re” del 2022, e che nel 2025 metterà in scena “Edipo a Colono” di Sofocle nella traduzione di Francesco Morosi. Altro gradito ritorno a Siracusa, è quello del regista palermitano Roberto Andò, già direttore artistico dell’Inda nel 2017 e 2018, che porterà in scena “Elettra” di Sofocle nella traduzione di Giorgio Ieranò. La regista milanese Serena Sinigaglia dirigerà la commedia “Lisistrata” di Aristofane nella traduzione di Nicola Cadoni.

Il regista canadese Robert Carsen e il premio al suo “Edipo re” miglior spettacolo delle Maschere del teatro 2023, foto Antonio Parrinello

E dopo il grande successo 2023 dell’“Ulisse, l’ultima Odissea”, e l’atteso “Horai. Le quattro stagioni” in calendario il 5 e 6 luglio prossimi, Giuliano Peparini tornerà a Siracusa anche nel 2025, per il terzo anno consecutivo, per presentare in anteprima mondiale una nuova creazione originale incentrata sull’Iliade.
Dopo l’era Livermore, che ha rivoluzionato il modo di mettere in scena la tragedia al Teatro greco di Siracusa, adesso l’Inda inaugura l’era Peparini, il mago dello spettacolo totale tra danza, musica, teatro e poesia. Dopo le tragedie e la commedia, con lui a Siracusa è nato il “classic show”, il terzo genere classico dello spettacolo ovvero le radici classiche che danno vita al palcoscenico della contemporaneità.

“Ulisse. L’ultima Odissea”, al centro Gianlorenzo De Donno e Giuseppe Sartori, foto Franca Centaro



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